Internet (ho importato il pezzo intero in Frammenti), 22 febbraio 2006
Le parole annullano i luoghi, li reinventano e d’improvviso piazza Monte Grappa diventa via Condotti, arroventa i silenzi di Milano dopo i bombardamenti, richiama i boulevard parigini e una fotografia di Kertész degli occhiali di Mondrian, ora appoggiati sulla testa di Guido che racconta
Le parole annullano i luoghi, li reinventano e d’improvviso piazza Monte Grappa diventa via Condotti, arroventa i silenzi di Milano dopo i bombardamenti, richiama i boulevard parigini e una fotografia di Kertész degli occhiali di Mondrian, ora appoggiati sulla testa di Guido che racconta. A braccio, sul filo dei ricordi, del suono di una voce addirittura, quella di suo padre Orio, ora forte e ironica, ora piegata dalle macchie scure della vita. Vergani prima firma del "Corriere", Vergani inviato al Tour de France, Vergani critico teatrale e drammaturgo, Vergani fondatore del Premio Bagutta, le diverse facce di un uomo buono, capace di pagare in silenzio i propri errori. Un uomo in grado di misurare il tempo e trasformarlo in milioni di parole, ognuna passata al cesello del sentimento, perché per descrivere il mondo bisogna sentirne l’odore, calpestarne i rifiuti, amarne l’imprevedibilità. "Mio padre lavorava moltissimo ma aveva tempo libero per sé, per le sue passioni, che erano quelle di girellare per bancarelle di libri, di andar per salumai e rimpinguare così le scarse provviste di mia madre, cuoca mediocre. Era capace di scrivere un elzeviro in un’ora: ne usciva stremato ma poi c’era ancora il mondo da osservare, con una curiosità che gli salvò la vita, nei momenti di disperazione più cupa". Guido Vergani è a Varese per presentare ad "Amor di libro" il diario di suo padre ("Misure del tempo", Baldini&Castoldi, 18,60 *), uno scrigno 21x14 ricolmo di preziosità assortite balzate fuori "dai magazzini della memoria" di chi riusciva, dopo una giornata di lavoro, a mettersi ancora a scrivere per ore. "Gli uomini felici non tengono diari", si legge, e Vergani non lo fu, già dall’infanzia, passata dai sei ai sedici anni con il prozio Vittorio Podrecca, direttore di scuole tecniche ed educatore severo, che lo obbligava a razioni quotidiane di latino e violino. (Orio Vergani) "Lo zio gli regalò una grande cultura, ma anche il mal di vivere, e mio padre fu soggetto sempre a periodici attacchi di depressione. Con noi figli aveva grande confidenza, era aperto, ma anche capace, con me soprattutto, scapestrato e cattivo studente, di ramanzine da far tremare. Per me e mio fratello Leonardo l’insegnamento era di guardarlo, di capirlo, di ammirare la sua incrollabile fedeltà al lavoro e l’amore, sofferto, per la letteratura", ricorda Guido. "Mio padre credette al fascismo fino alla guerra d’Abissinia, quando disse il suo unico no, e per il resto della vita si portò dietro un profondo complesso di colpa. Però ebbe un grande merito a differenza di molti suoi colleghi, a cominciare da Guido Piovene, non scrisse più di politica quando venne riassunto al "Corriere" dopo la guerra, anzi lo chiese espressamente come clausola del contratto". Vergani arrivò in via Solferino nel 1926, un anno dopo la cacciata di Luigi Albertini e durante l’interregno di Ugo Ojetti, grazie ai buoni uffici della moglie del direttore, che aveva letto un suo racconto. Redattore viaggiante di terza pagina, il massimo livello tra gli scriventi, assorbiva come una spugna umori, amori e dolori di un’Italia proteiforme e passionale, inquieta e ciarlatana e li riversava sul foglio bianco con la velocità del pensiero. Amici di un mondo scomparso, piccole e grandi miserie quotidiane di chi ha lasciato un segno ed è stato dimenticato, ritratti al laser di un dopoguerra fasciato di illusione. (Orio Vergani con Parenti) "Il diario è una storia di morti", scriveva, "non bisognerebbe mai incominciarlo quando ormai sono passati i cinquant’anni". E Guido ricorda come avesse fatto pressione sul padre perché fissasse quelle storie di vita vissuta se non su carta almeno su nastro magnetico. "Comperai un registratore Geloso e spiegai a papà come usarlo, invitandolo a parlare degli anni del fascismo, quasi a esorcizzare il peso che si portava dentro. Papà ne fu felice, anzi una notte tornato dalla redazione si mise a registrare per tre ore, peccato che non avesse schiacciato il tasto giusto e il mattino il nastro era vuoto". Però piano piano il diario prese forma e il tempo riprese a essere misurato, ristretto e dilatato a piacimento, dai primi del secolo fino al boom economico, da d’Annunzio a Sofia Loren, passando per Pirandello, la Duse e Malaparte. Sentire le parole di Guido è come vedere il secolo ventesimo in cinemascope, nomi e date si affollano alla mente, aneddoti mirabolanti che narrano la fortuna di un uomo che raccoglieva i manoscritti di Pirandello dalle mani dell’autore e li posava sul divano, cartella dopo cartella, o i fogli di carta uso mano disperatamente bianchi che d’Annunzio spargeva sul pavimento del Vittoriale. Capitava che G.B. Shaw passasse in via Brera a Milano ed entrasse con la moglie piccola e grassoccia in una buia libreria antiquaria di amici di Orio e acquistasse a gesti un volume, oppure si incontrasse per strada Gilberto Govi o si materializzasse sulla piazzetta di Portofino, a un tavolo del caffè Ginetta,Truman Capote "accompagnato dalla fama della sua pederastia sin dal giorno in cui si è stabilito a Taormina". Dieci, venti righe, una cartella, un fulminante cammeo di Petrolini o Paola Borboni, di quel teatro amato e voluto, per il quale scrisse prima "Il vigliacco", una commedia d’avanguardia, e poi "Il Cammino sulle acque", messo in scena dal Teatro dell’Arte, diretto da Pirandello, che aveva contribuito a fondare. La sorella Vera, bella ed elegante, primattrice a 21 anni con la compagnia di Ruggero Ruggeri, sarà la prima interprete della Figliastra nei "Sei personaggi in cerca d’autore" con la compagnia di Dario Niccodemi, nel 1921. (Vera Vergani) Avanti così, senza tirare il fiato, fino alla disfatta della guerra, al licenziamento dal "Corriere" e alla riassunzione prima al "Milano Sera" di Afeltra con il benestare firmato di Pajetta, "lo si vedeva in redazione in mutande nel torrido agosto, felice come un fanciullo", dirà poi Oreste del Buono, e poi ancora al giornale di cui era stato il principe. Ma qualcosa si era spento dentro di lui, "il senso di colpa lo aveva schiacciato, nel dopoguerra si ritrovò vecchio a 47 anni, quella grande macchia nera gli aveva rubato la maturità", dice Guido. "Ricorderò sempre quando ritornò da Spotorno dopo aver presieduto la giuria di un premio di pittura. A Genova lesse sul "Corriere d’Informazione" che gli americani erano sbarcati in Libano: fu la fine, per sei mesi ripetè in continuazione "il sangue, il sangue", tememmo che potesse farsi del male". Il grande inviato, l’uomo bello e un po’ vanesio, il faticatore, colui che leggeva nell’animo umano meglio di uno psicologo, moriva lentamente, consumato dal peso di "molte macerie". A tenerlo ancora vivo le passioni, non ultima quella per i libri, come ricordava l’amico Marino Parenti: ""Il taccuino del bibliofilo" apparve, subito dopo l’ultima guerra in un grande settimanale d’attualità e recava in fine lo pseudonimo di Tignola. Forse a qualcuno, non sprovvisto in fatto di grande giornalismo, non pochi spunti potranno esser stati rivelatori della penna che si nascondeva sotto quello pseudonimo: ma Orio raramente svelò questa sua attività, che scompariva nella mole enorme del suo lavoro". Orio Vergani morì nella sua casa di Milano a sessantadue anni. "L’affacciarmi dal sesto piano di via Appiani e vedere la strada nera di gente mi riempì d’orgoglio e mi fece superare il dolore", ricorda Guido. La sera prima aveva cenato con lo scrittore Severino Pagani e altri amici e parlato dell’Accademia della Cucina Italiana, altra creatura nata dal suo infinito entusiasmo. (Guido Vergani) "L’indomani, a metà mattina, lo chiamai al telefono. Mi rispose il figlio Leonardo. "Papà è morto". Rimasi di pietra: non volevo credere alla triste notizia. Corsi in via Appiani", scrisse Pagani. "Orio era già composto nell’irrigidità del sonno eterno; il grande tavolo di lavoro nel suo studio, in mezzo ai mille libri che avevano invaso tutta la sua casa, dall’anticamera alle stanze da letto e da soggiorno, era stato trasformato in una bara per l’ultimo riposo. Orio era là, immobile; non potevo contemplarlo senza piangere. Di contro gli stava, parlante, sorridente, il grande bellissimo ritratto della madre adorata, dipinto da Giuseppe Novello. La mamma che Orio andava a trovare ogni giorno, quando era a Milano, era lì come sempre, al suo fianco; meglio, davanti a lui. Era il 6 aprile 1960. Non sono più passato da via Appiani". Mario Chiodetti libri@varesenews.it