Varie, 21 febbraio 2006
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Rocca Gianni
• Torino 21 ottobre 1927, 19 febbraio 2006. Giornalista. «Per Giorgio Bocca era ”il caporedattore”, l’organizzatore che riusciva sempre e comunque a far uscire il giornale. Per gli appassionati di storia era un notevole divulgatore, capace di raccontare gli avvenimenti tenendo sempre presente le sofferenze della popolazione e il valore della truppa. [...] uno dei fondatori de ”la Repubblica”, quotidiano che contribuì a far grande assieme a Eugenio Scalfari e che lasciò dopo vent’anni quando il direttore decise di passare il timone a Ezio Mauro. [...] entrò giovanissimo nelle formazioni garibaldine della Resistenza e nell’immediato dopoguerra lavorò all’edizione torinese dell’Unità con colleghi come lo storico Paolo Spriano e il giovane Raf Vallone. Dopo la repressione dei moti ungheresi del 1956, lasciò il Partito comunista. Lavorò a Paese sera e fu capo della redazione romana del Giorno, ma l’esperienza più esaltante per Rocca sarebbe arrivata relativamente tardi, quando Scalfari nel 1975 lo chiamò a far parte del nucleo fondatore della Repubblica, che uscì nel gennaio ’76. ”In una redazione fatta di giovani entusiasti ma a volte inesperti-ricorda Giampaolo Pansa, che arrivò a Repubblica nel 1977 - Gianni era un sicuro punto di riferimento”. Nel 1978 nel quotidiano di piazza Indipendenza furono nominati tre vicedirettori: Mario Pirani, Pansa e Rocca, che poi avrebbe assunto la carica di condirettore. ”Con Gianni abbiamo condiviso la stessa stanza per dodici anni-ricorda l’autore del Sangue dei vinti -. Io piemontese di provincia, lui torinese. Ricordo che il primo giorno mi chiese: Giampaolo, vorrei stare con le spalle al muro e con la scrivania rivolta verso la piazza. Così passammo, uno di fronte all’altro, anni entusiasmanti e drammatici: non ebbe mai un cedimento verso il terrorismo e per primo capiva l’importanza di fatti economico-sociali, come la marcia dei quarantamila a Torino”. Nel 1996 Gianni Rocca cominciò a collaborare all’Unità, ma già da un decennio scriveva saggi di divulgazione che ebbero l’apprezzamento anche di colleghi e storici di professione. Cultore di storia militare, Rocca dedicò nel 1985 una monografia al generale Cadorna, che uscì come quasi tutti i suoi libri da Mondadori. Seguì nel 1987 Fucilate gli ammiragli, che già nel titolo è una denuncia degli intrighi dei vertici e dell’impreparazione militare del regime, cui facevano da contrappeso il valore degli individui e il sacrificio di 33mila marinai italiani e 25mila soldati periti nel ”mare nostrum” di Mussolini. A completare il quadro sull’impreparazione militare italiana contribuì anche I disperati, libro dedicato nel 1991 alla tragedia della nostra aeronautica, ricca di piloti valorosi ma scarsa di mezzi, mandata allo sbaraglio contro gli angloamericani che contavano sui veloci Spitfire, ma soprattutto sulle fortezze volanti statunitensi, i potenti quadrimotori B 17. Agli anni di guerra Rocca dedicò anche l’ampio saggio L’Italia invasa, sul biennio 1943-’45, ma la sua passione storica non si esauriva nel Novecento e non riguardava soltanto i personaggi italiani. Qui possiamo ricordare solo i titoli della monografia su Stalin, del saggio sulle guerre d’indipendenza 1848-1866, Avanti, Savoia! e del ritratto del Piccolo caporale - Napoleone alla conquista dell’Italia. Sempre fedele ai valori della Resistenza, Gianni Rocca alla fine degli anni Novanta pubblicò per gli Editori Riuniti il pamphlet Caro revisionista, ti scrivo. Un atto d’accusa contro i luoghi comuni di quella revisione storica che tendeva a considerare nazismo e fascismo soltanto come una reazione al bolscevismo e a rivalutare dittatori come Francisco Franco. Per Rocca il filo rosso del Novecento è rappresentato dal comportamento irresponsabile della grande borghesia, che ha pensato di trarre vantaggio dalle tragedie del secolo. [...]» (Dino Messina, ”Corriere della Sera” 21/2/2006). «Ricordava spesso quei tempi, durante le interminabili riunioni mattutine lì a la Repubblica, nell’antica sede di piazza Indipendenza. Lo faceva a volte scherzando, altre volte più seriamente, per dar vigore a qualcuna delle sue non insolite sfuriate: ”Quella sì che era una redazione. E quelli sì che erano cronisti. Avreste dovuto imparare da loro, razza di fannulloni...”. Un pezzo del cuore di Gianni Rocca [...] era infatti rimasto lì, nella redazione torinese dell’Unità, dove aveva cominciato - giovanissimo - ad apprendere il mestiere di giornalista. Lavorò gomito a gomito con Paolo Spriano e Raf Vallone; e non rare erano le apparizioni in redazione di ”collaboratori illustri”: due per tutti, Italo Calvino e Cesare Pavese. Prima l’Unità, dunque. Poi Paese Sera, quindi il Giorno e alla fine - soprattutto - Repubblica. Vent’anni. Dalla fondazione (nel gennaio del 1976) fino al 1996, quando lasciò il giornale - come ironizzò lui stesso - ”per sopraggiunti limiti di età”. I colleghi presenti quel giorno ancora ricordano il suo appassionato discorso d’addio, e quell’insistere sulla ”passione civile” che dovrebbe sottendere il lavoro di ogni buon giornalista. E di passione Gianni Rocca ne ha profusa a volontà nei vent’anni trascorsi a Repubblica. Prima caporedattore, poi vicedirettore, infine condirettore: sempre e comunque al fianco di Eugenio Scalfari, in un sodalizio che ha segnato profondamente l’anima, il profilo e la linea di quel quotidiano negli anni della crescita prima, e del boom poi. Eugenio e Gianni: diversi, in certe cose addirittura opposti, eppur complementari, quasi indispensabili l’uno all’altro. Restano, nella memoria di chi li ha vissuti, i lunghi duetti nelle riunioni mattutine di Repubblica. Scherzosi quelli sulle passioni calcistiche (Gianni Rocca teneva per il Toro, Scalfari per la Roma); più serie le discussioni che li contrapponevano su temi delicati, come ”l’evoluzione democratica” del Pci e l’analisi dell’allora nascente movimento leghista. Il giornalismo, dunque. E poi l’altra grande passione della sua vita: la storia. Biografie e saggi divenuti bestseller: come quello su Stalin, scritto negli anni gorbacioviani e oggetto di accese dispute anche in Unione Sovietica. Dalla storia alla guerra il passo fu breve. Analista attento delle vicende e delle imprese dell’esercito italiano, dedicò due libri a due diverse armi: la Marina (Fucilate gli Ammiragli) e l’Aereonautica (I disperati). In entrambi i casi l’attenzione fu puntata sulle tragedie, gli eroismi e le disfatte subite nella seconda guerra mondiale. Strano a dirsi, per un intellettuale e un giornalista che aveva fatto del dialogo, e della ricerca di una reciproca comprensione, quasi una regola di vita. E di questo suo essere aperto alla discussione - ai consigli, ai suggerimenti - approfittavano soprattutto i giovani che via via andavano formandosi alla fucina della Repubblica. Si andava ”da Gianni” a chiedere un’indicazione; si ricorreva a lui dopo aver subito, magari, una non rara sfuriata del direttore (’S’è arrabbiato davvero Scalfari? Gianni puoi metterci una buona parola?”). Lui ascoltava tutti, dall’ultimo stagista al primo degli editorialisti: e quante volte, di fronte alla porta chiusa del direttore, ci si rivolgeva a Rocca, per un consiglio, un suggerimento di fronte a un articolo che non voleva saperne di venir fuori bene. [...]» (’La Stampa” 21/2/2006). «[...] aveva lavorato a Repubblica fin dalla fondazione, nel 1976. Inizialmente caporedattore, poi vicedirettore e infine condirettore del giornale, è stato per vent’anni il più stretto collaboratore di Eugenio Scalfari e un motore trainante della testata. Come tecnico e ”uomo di macchina” rappresentava una sicurezza; la sua capacità di dirigere i colleghi figurava fra le sue doti più sperimentate. In quanto editorialista, era animato da una spiccata aderenza ai fatti. Uomo di sinistra, comunista iscritto fin dal dopoguerra, non aveva mai rinunziato alla propria libertà di giudizio, lavorando a lungo nella redazione torinese dell’Unità. I suoi ”distinguo” verso la politica del Pci si erano manifestati fin dai giorni del XX Congresso del Pcus e dei fatti d’Ungheria. Ma l’uscita da Paese sera, di cui era diventato capo servizio agli Esteri, e la rinunzia alla tessera comunista diventarono realtà dopo la condanna a morte e l’esecuzione di Imre Nagy, nel giugno del 1958. In seguito, s’era professato un progressista, senza quei malumori tipici degli ex chierici allevati nelle file della sinistra ”storica”. Il modo in cui accennava a quella fase ormai remota della vita contribuiva molto all’umano incanto suscitato dalla sua conversazione. [...]» (Nello Ajello, ”la Repubblica” 21/2/2006).