Varie, 16 febbraio 2006
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GRANERIS Doretta Vercelli 6 febbraio 1957. Il 13 novembre del 1975, in una villetta di Vercelli, uccise con l’aiuto del fidanzato Guido Badini i propri genitori, il fratello di 13 anni e due nonni
GRANERIS Doretta Vercelli 6 febbraio 1957. Il 13 novembre del 1975, in una villetta di Vercelli, uccise con l’aiuto del fidanzato Guido Badini i propri genitori, il fratello di 13 anni e due nonni. I Graneris erano davanti alla tv: Doretta tornò a casa in compagnia del fidanzato, fuori li attendeva un complice, Antonio D’Elia: pistole alla mano, sterminarono tutti. Movente: l’avversione di Doretta per i suoi, ma anche l’ansia di entrare in possesso dell’eredità. Condannata all’ergastolo, in semilibertà dal novembre ”93, si è laureata in architettura. In libertà condizionale dal dicembre 2000 • «Festeggiò con il complice, il fidanzato Guido Badini, la morte di tutta la famiglia: padre, madre, nonni materni, il fratello di 12 anni, uccisi a colpi di pistola. Il movente: i risparmi del padre, circa 200 milioni. Era la sera del 13 novembre 1975. Condannata all’ergastolo come rea confessa [...]» (Guido Vergani, ”Capital” marzo 2000) • «[...] ”Nella nostra cappella di famiglia c’è un posto vuoto, non vedo l’ora di ricongiungermi con i miei famigliari”. [...] ”[...] non ho maivoluto parlare con nessuno, tantomeno con i giornalisti. Ma non è un modo per nascondersi o per evitare di confrontarsi con la realtà. Non è un gesto di arroganza, insomma. Io ho voluto soltanto farmi dimenticare, diventare una persona normale, una come tante. Io volevo farmi dimenticare: ma non ho dimenticato nulla, non ho rimosso nulla, nessuna delle mie colpe [...] In tutti questi anni ho voluto solo farmi dimenticare, far sparire nel nulla la vecchia Doretta Graneris. Non aveva più senso, raccontare qualcosa, qualsiasi cosa. C’è questo mio dolore dentro, che è solo mio, che non si può condividere con nessuno, con cui si deve imparare a vivere, da cui bisogna lasciarsi consumare, avvolgere, ogni giorno e ogni minuto, e che non mi abbandona mai, neanche per un solo istante”. Quella sera di novembre del 1975... ”Quel dolore che è nato allora. La verità di quanto è accaduto, che non sa ancora nessuno e nessuno saprà, la verità, intendo, che è dentro di me, e che fa parte, anche quella, del mio percorso, nel tentare di dare un senso, adesso, alla mia vita. La verità sui miei morti che mi porto dentro da trent’anni”. Si capisce a cosa stia pensando. E non le chiederemo mai qual è la verità. Forse cambierebbele carte del suo processo, forse attenuerebbe le sue responsabilità... ”Sia gentile. La prego davvero di scusarmi, se non voglio dire altro, se non voglio raccontare di me. Io non conto niente, non ho una storia da raccontare. Non ho niente da insegnare a nessuno, da allora. Non devo interrompere il dialogo tra me e me stessa, questo sì”. A lei piace la parola percorso, la usa spesso. Dicono che durante i lunghi anni del carcere lei amasse dipingere. I suoi quadri rappresentavano cieli azzurri, prati verdi, circondati da muri. Si firmava ”Il Gabbiano”. Non dipinge più? ”No, adesso no. Da molti anni ormai, fa parte del passato, degli anni trascorsi in carcere. ”Il Gabbiano’ è volato via per sempre” [...]» (Massimo Numa, ”La Stampa” 21/1/2007).