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 2005  marzo 06 Domenica calendario

Il Veneto è un film da cineteca custodito da un vitellone misogino, il Giornale, domenica 6 marzo 2005 Indeciso se identificarsi, sul set della vita, col ragionier Osvaldo Bisigato (Gastone Moschin), impiegato di banca frustrato in Signore & signori di Pietro Germi, oppure con Bonifacio B

Il Veneto è un film da cineteca custodito da un vitellone misogino, il Giornale, domenica 6 marzo 2005 Indeciso se identificarsi, sul set della vita, col ragionier Osvaldo Bisigato (Gastone Moschin), impiegato di banca frustrato in Signore & signori di Pietro Germi, oppure con Bonifacio B. (Sady Rebbot), delirante bighellone in Chi lavora è perduto di Tinto Brass, oppure con il conte Lello Mascetti (Ugo Tognazzi), patetico squattrinato in Amici miei di Mario Monicelli, il generico («un gradino sopra la comparsa») Giuseppe Carosella ha infine preferito essere se stesso. E cioè el fiólo de ànema, il figlio adottivo, di Silvio Levorato e Margherita Pippo, sagrestani di Dolo, provincia di Venezia, che diventarono per lui il santolo e la santola, padrino e madrina, dopo aver perso il loro primogenito in tenera età. «I me ga vizià. Mi regalavano di tutto. Perfino una chitarra Fender Telecaster che oggi costerebbe una trentina di milioni di lire». In altri tempi, un ruolo da protagonista nei film sulle stramberie della provincia veneta a Carosella sarebbe spettato di diritto. E quale regista si sarebbe lasciato sfuggire la storia di questo cinquantenne che trascorse l’infanzia in chiesa («l’alloggio del campanaro era praticamente una dépendance della parrocchiale»), almeno fino al giorno in cui il suo santolo sacrista non denunciò il prevosto? Causa di lavoro, regolarmente vinta, che fece scandalo in Italia e fu seguita sul ”Corriere della Sera” da un cronista d’eccezione, Indro Montanelli, il quale ebbe buon gioco nel richiamare tutte le varianti del toponimo Dolo: inganno, malafede, frode, imbroglio. In attesa che esca sugli schermi Il mercante di Venezia con Al Pacino, in cui lo si vede vestito di broccato sul ponte di Rialto, Carosella, disoccupato cronico dal ’96, rimane impegnatissimo nel suo lavoro di «esperto in ozio creativo». Che, da cinefilo fanatico qual è, giustifica con una frase di Dino Risi: «Vallo a spiegare a mia moglie che quando mi metto a guardare fuori dalla finestra sto lavorando». Di che si tratti, è presto detto. L’ex fiólo de ànema del sagrestano percorre ogni settimana almeno mille chilometri per inseguire registi, scrittori e giornalisti ovunque tengano conferenze o presentino libri; partecipa a proiezioni di film storici («ieri sera ero al cineclub Excelsior di Padova a vedermi Il commissario Pepe»), quando non le organizza in proprio per conto di sodalizi o assessorati alla cultura, attingendo alla propria cineteca privata di 1.500 titoli, che comprende tutte le pellicole girate in Veneto o dedicate al Veneto, fra cui una copia dell’introvabile Signore & signori; assolve ai doveri di letterato, per usare una sua espressione, cioè tempesta di lettere i quotidiani locali rei di non preservare con sufficiente ardore la veneticità; propugna la nascita di una Cinecittà lagunare all’Arsenale di Venezia o, in alternativa, nelle fabbriche dismesse di Marghera; si batte per la salvaguardia della serenissima gastronomia, in particolar modo della sopa coada e delle verze sofegae, cioè soffocate, sì insomma stufate, la cui ricetta fu codificata da Bepi Maffioli, attore-regista. In una parola, si ritiene spiritualmente fiólo de ànema, più che del campanaro, dello scrittore trevigiano Bepi Mazzotti, che quando si sentì porre da un giornalista della Rai in bianco e nero la domanda «Chi è Bepi Mazzotti?», rispose serafico: «Sono tutte le cose che mi stanno a cuore e che sono molte». E indicò i diecimila libri e «il terribile disordine di ricordi, testimonianze, documenti» intorno a sé, a cui la moglie Nerina tentò invano fino all’ultimo di dare forma umana. Non a caso anche alle pareti delle stanze che Carosella si accinge a sgomberare («mi ospiterà una comunità d’accoglienza per marocchini: e dove li trovavo sennò ogni mese i 600 euro d’affitto?») torreggiano pile di giornali, videocassette, volumi. La domanda più frequente che i lettori mi rivolgono è come diavolo faccio a scovare i «tipi italiani». Di recente ho avuto la sorpresa di sentirmelo chiedere persino dal procuratore capo Guido Papalia, e non era un interrogatorio. Nel caso di Carosella, è stato lui a trovare me. Qualche anno fa, in una sera d’inverno, partì da Dolo per venire a Badia Polesine, dov’ero invitato dal Comune a presentare un mio libro. Arrivò con gli occhi fuori dalle orbite, dopo aver guidato per 85 chilometri nella nebbia su stradine di campagna, al solo scopo di ringraziarmi per aver dedicato in Dimenticati un ricordo al suo e mio amico Sergio Saviane. E, traendomi in disparte, tirò fuori da una valigetta una sequenza di fotografie del caro estinto composto nella bara, senza dentiera, le mani di cera intrecciate sul petto, roba che il povero Sergio, così civettuolo da non aver mai rivelato a nessuno la propria età, deve aver sacramentato dall’aldilà non meno del giorno in cui gli ordinai a tradimento una messa di trigesimo. «Ma chi le ha scattate?», chiesi sbigottito. E Carosella, orgoglioso del mio stupore: «Io! Giro sempre con una Kodak usa e getta in tasca». Questo è l’uomo. Siete avvisati. Carosella non è un cognome veneto. «Infatti mio papà Antonio xera un teron abruzzese della provincia di Chieti e mia madre una bergamasca. Si conobbero a Cividale del Friuli, dove lui faceva il carabiniere». Come definirebbe il suo lavoro? «Me lo sto inventando: promotore culturale e cinematografico». Ha studiato? «Frequentavo il Tito Livio, il liceo classico della crema padovana. Ma guardavo massa ’e tose. Mi hanno bocciato due volte. Così mi sono trasferito al Concetto Marchesi. Niente da fare anche lì». Per cui? «L’11 dicembre ’78 mi sono sposato perché il 22 dello stesso mese mi nasceva un figlio. L’ho chiamato Milo, come il fratellino dell’Incompreso di Luigi Comencini. Con mia moglie abbiamo aperto una jeanseria. Andavo a Prato e a Napoli a prendere gli abiti usati. Dall’85 al ’90 girava massa schei: Milano da bere, edonismo reaganiano, discoteca tutte le sere, anche il lunedì. Go perso ’a testa par le femene. Nel ’91 mia moglie è scappata via. Ma ci vogliamo ancora bene». E il negozio? «Chiuso nel ’96. Ho lavorato moltissimo con Americanino, con Renzo Rosso della Diesel quando non era nessuno, con Claudio Buzziol della Replay, morto d’infarto dieci giorni fa. Ma al momento del bisogno... Comunque la mia rovina sono stati i jeans 501. I clienti volevano solo quelli. Ma per darteli la Levi’s ti obbligava a comprare un campionario con dentro 50 milioni di fuffa. Il mio errore più grande è stato pagare la Levi’s invece delle banche. Nemmeno di fallire, m’è riuscito. Sarebbe stato meglio». Ora di che campa? «Amici, mecenati, contributi... Un poco di tutto. Mi basta niente per vivere». Che differenza c’è fra lei e I vitelloni di Fellini? «Nessuna». Non potrebbe lavorare? «Ci ho provato. Ma è difficile reinserirsi a 50 anni. Avevo trovato posto come inserviente all’ospedale, però non sono portato per l’assistenza ai malati. E poi non voglio lavorare 24 ore al giorno come i veneti. Sono uno scioperato alla Mauro della Porta Raffo». Che c’entra il Gran Pignolo? «Una volta sono andato fino a Varese per conoscerlo. Mi ha dato appuntamento in pasticceria. Sa, ha avuto per maestro e amico uno dei miei miti, Piero Chiara». Le piace fare la bella vita. «Bella vita? Vengo fuori da due anni di inferno sentimentale. Nel ’96 avevo conosciuto una ragazza anoressica, di famiglia benestante. Ci siamo innamorati, abbiamo girato insieme l’Italia. L’ho guarita. Nel 2003 m’ha mollato. Da allora sono diventato misogino, ha presente Cesare Pavese? Vado a tutti i convegni su femminilità, sesso e affini solo per il gusto di dire quello che penso delle donne». E cioè? «Una volta tenevano in piedi le famiglie, sopportando. Non votavano però comandavano. I siciliani dicono: l’uomo comanda, la donna decide. Da quando hanno conquistato l’indipendenza economica, s’è sfasciata la società. A Venezia ora sono le donne che attraccano i vaporetti. Da non credere! Io odio le donne vigile, le donne poliziotto, le donne carabiniere. Diventano cattive per apparire determinate. Poi però di notte fanno i pincioti in macchina insieme ai colleghi maschi con cui escono di pattuglia». Pincioti? «Ci siamo capiti». Come le è venuta la passione per il cinema? «Da piccolo entravo all’Italia, il cinema parrocchiale di Dolo, alle due di pomeriggio e uscivo alle nove di sera rimpinzato di bagigi e semi di zucca tostati. A 12 anni facevo finta di averne 14 per vedere i film vietati al Modernissimo, ma la maschera mi fermava sempre. M’è rimasto sul gozzo Africa addio di Jacopetti e Prosperi. Una volta mio padre mi portò con sé alla proiezione di Diciottenni al sole, interpretato da Catherine Spaak e Lisa Gastoni e ambientato a Ischia. Non si vedeva niente però era vietatissimo. Da allora ho sempre avuto un debole per il Golfo di Napoli. Conosco Capri meglio di Venezia». Una fissazione infantile, si direbbe. «In ogni posto che vado, stravedo per gli indigeni. A Napoli mi piacciono i napoletani, a Chioggia i ciosoti. Adesso un po’ soffro perché il caffè Vittoria di Dolo è sempre pieno di cinesi. Non ho niente contro di loro, per carità. Però vorrei trovare i veneti in Veneto e i cinesi in Cina». Che percezione hanno secondo lei gli italiani dei veneti? «Sempliciotti, imbriagoni, servette, coglionazzi come il carabiniere timido impersonato da Roberto Risso in Pane, amore e fantasia». Come mai? «Colpa nostra. Abbiamo pensato solo a lavorare, anziché formare una classe dirigente». In Veneto non nascono più i Rumor, i Bisaglia, i Gui, i Ferrari Aggradi, gente che ha governato l’Italia. «Non me ne parli. Ho seguito un match fra Carlo Bernini e Gianni De Michelis a Treviso. Una roba eccezionale. Due titani del pensiero e della politica, guardi. Il fatto è che i teroni se uno di loro è bravo lo spingono, lo fanno emergere. I veneti invece lo soffocano perché sono invidiosi e pensano: ma questo chi si crede di essere, dove vuole arrivare? Lo dice anche il professor Vittorino Andreoli che la malattia dei veneti è l’invidia, il sentimento più distruttivo che ci sia. Coltivano la cultura del nemico, in politica come tra vicini di casa, e così vivono male». Quindi lei, veneto, vive male. «No, perché sono un veneto anomalo. Tutti hanno l’invidiometro puntato a 100. Io al massimo arrivo a 10, a 20, toh. Godo dei successi altrui. Sono un valorizzatore della gente che se lo merita». Che cosa pensa dei veneti famosi? Per esempio: Luciano Benetton. «Bene e male. Ha costruito un impero. Ma sulla pelle dei contoterzisti. Quando gli affari calano, sono i primi a saltare. Tanto, chissenefrega se falliscono». Massimo Cacciari. «Intelligente e antipatico. Troppo incazzoso. No’ lassa parlar i altri». Arrigo Cipriani. «Sono andato alla presentazione di un suo libro all’Ateneo veneto. Alle sette di sera è scappato via perché doveva andare all’Harry’s bar a staccare ricevute fiscali. Firmava le copie come se fossero bolle d’accompagnamento. Manco una dedica ha fatto. Un uomo arido. Alla larga». Giovanni Rana. «L’hanno proclamato cavaliere del baccalà, perciò ne penso un gran bene. Grande comunicatore. Oggi come oggi è il veneto più famoso nel mondo. Però...». Però? «Dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna. Se certi imprenditori hanno fatto i soldi, lo devono anche alle loro consorti sgobbone. Ecco, non sopporto quelli che, appena si sono arricchiti, danno un calcio in culo alle mogli e si sposano le tosate di 20 anni in minigonna o le segretarie. Donde la massima: la prima è una facchina, la seconda è una regina». Come diventò amico di Saviane? «Inseguendolo ovunque andasse. Fino all’ultima uscita, a Zero Branco, quando gli ricordai che aveva fatto la comparsa nel film Lucky Luciano di Francesco Rosi. E gli chiesi se era vero quello che m’aveva raccontato Emilio Fede». Cioè? «Che a 22 anni, appena arrivato a Roma senza un soldo in tasca dalla natia Sicilia, fu salvato da un altro spiantato proveniente dal Veneto: Saviane, appunto. Dividevano la stessa camera e anche il cornetto della colazione al mattino, perché non potevano nemmeno permettersi una brioche ciascuno». Come ha fatto a procurarsi la copia di Signore & signori? «Le copie, vorrà dire: quattro. Segreto. uno scandalo che non sia mai uscito in videocassetta o Dvd. Ho rintracciato a Roma lo sceneggiatore, Luciano Vincenzoni, il quale mi ha detto: ”Caro Carosella, il motivo per cui questo film non lo vedi in Tv né in cassetta è perché il produttore Robert Haggiag ha fatto un casino vendendo i diritti a uno straccione”. Ora l’unica copia restaurata è di proprietà della Philip Morris, che non la molla». Però di recente a Treviso è stato programmato da un cinema, che ha dovuto aggiungere delle proiezioni straordinarie alle due di notte per smaltire la coda di gente formatasi al botteghino. «Un atto di riparazione postumo». Vale a dire? «Le leggo il titolo a 5 colonne, taglio basso, pubblicato dal ”Gazzettino” in occasione della prima, l’11 febbraio del ’66: ”Non riesce a irritare i trevisani Pietro Germi con Signore & signori”». Tortuoso. «Sommario: ”Il film voleva essere una satira e si è rivelato una farsa urlata che non dà sberle ma graffiatine”». E vabbè, che cosa pretendeva dal ”Gazzettino” di quarant’anni fa? «E quello di oggi, allora? Lo sa che ho dovuto litigare col direttore Luigi Bacialli perché i programmi della Tv nelle pagine degli spettacoli finivano alle 23? Ma se la televisione intelligente comincia proprio a quell’ora! Gli ho scritto: crede che i veneti siano deficienti? Se fosse stato per il suo giornale, io non avrei mai saputo che lei era ospite di Gigi Marzullo dopo mezzanotte. Da allora pubblicano anche la programmazione notturna». Quanti sono i film con soggetto veneto? «Da Lettere di una novizia di Alberto Lattuada, tratto dall’omonimo romanzo di Guido Piovene, a La moglie del prete di Dino Risi, con Marcello Mastroianni e Sofia Loren, circa 200». E qual è il regista che ha rappresentato con maggiore acutezza i veneti? «Sul versante dell’ipocrisia senz’altro Ettore Scola col Commissario Pepe, ambientato a Vicenza e impersonato da Ugo Tognazzi. Scola ebbe la geniale trovata di affidare a Bepi Maffioli il ruolo di Nicola Parigi, l’invalido in carrozzella che parla male di tutti e diventa la boca onta del commissario, fino a informarlo che la fidanzata va a posare per le riviste porno a Milano. ”Lo sai che ti disprezzo”, gli dice Pepe. E Parigi: ”Lei non è originale, commissario. Tutti mi disprezzano”. Un verme con una sua umanità». E lei va in giro a presentare questi film. «Sì, ho appena recuperato e proiettato ad Asolo, dove fu girato 40 anni fa, Il disco volante di Tinto Brass. Nel quale, con John Foster, alias Paolo Occhipinti, attuale direttore del settimanale ”Oggi”, che canta in sottofondo, Alberto Sordi si cala meravigliosamente in quattro diversi personaggi: il brigadiere meridionale Vincenzo Berruti, il parroco alcolizzato don Giuseppe, il debosciato conte Momi Crosara e l’impiegato postale Dario Marsicano, indefesso autore di romanzi e commedie inedite, che se ne esce con una recriminazione infantile ma in fin dei conti un po’ vera: ”Ci sono in provincia scrittori di grande valore che a Roma vengono boicottati dai soliti Moravia e dai soliti Pasolini...”». Non a caso lo sceneggiatore del Disco volante, Rodolfo Sonego, padre della commedia all’italiana, era nato a Cavarzano, nel Bellunese. «Già. Per l’occasione ho ritrovato e portato sul palco le comparse del film: Silvana Dalla Rosa, la bambina che descrive il marziano al brigadiere dei carabinieri: ”Gambale di nylon fino a qui, busto attillato pieno di perle, casco in testa e gambaletti color rosso tango”, aggiungendo d’aver visto anche la Madonna; Massimiliano Benedetti di Padova, che interpreta il medico condotto del paese e sentenzia: ”Disemose la verità: se beve tropo. Graspa, vin, de tuto insoma!”; Antonio Zorzetto, ex maestro elementare di Asolo, nei panni di un sindaco che già negli Anni 60 parlava come i politici di oggi: ”Strade, ponti, corriere, alberghi per dare adito al turismo, per far girare il soldo, che quando gira per il ricco gira anche per il povero, e basta con ’ste ciacoe che ’e danegia el turismo!”. Alla serata doveva partecipare anche Tinto Brass. Ma siccome ha paura dell’aereo, pretendeva d’essere prelevato a Roma da un autista. Ci sarebbe costato più di mille euro fra andata e ritorno». Direbbe anche lei, come ebbe a scrivere lo psichiatra Andreoli degli abitanti di Montecchia di Crosara facendo la perizia su Pietro Maso, che per i veneti il maiale conta più della moglie? «Sì. Nel senso che d’inverno pensano più a mangiare polenta e soppressa che a dedicarsi alla mojére». In quanti film ha recitato finora? «Una dozzina. Ho appena passato un mese sul set del Casanova di Lasse Hallström, che uscirà a fine anno. Per una sola scena m’è toccato stare 17 ore filate al freddo in Campo San Giacomo. Do giorni de laóro e do setimane de leto co’ l’influensa». Pagato quanto? «Dipende: 50-60 euro al giorno, a volte 150 con gli straordinari. Gli americani pagano di più, però con gli italiani si lavora di meno». Non c’è da arricchirsi. «Nella vita siamo tutti comparse. Pochi riescono a diventare attori. Pochissimi protagonisti». Come pensa di cavarsela in futuro? «Trovando le location per i nuovi film. Non è facile, sa? Sono stato al Cason delle Sacche, nella laguna di Codevigo, dove Jean Paul Belmondo veniva ucciso da Pascale Petit nella scena finale di Lettere di una novizia e dove Dino Risi girò La moglie del prete. Vedesse in che modo è stato restaurato! Sembra un casello dell’autostrada. Hanno messo persino gli infissi d’alluminio anodizzato, quelli talmente brutti che Woody Allen in Harry a pezzi ne colloca l’inventore in un girone dell’inferno. Mancano solo i nani da giardino all’ingresso». Stefano Lorenzetto