Caterina Soffici Il Giornale, 04/03/2005, 4 marzo 2005
La letteratura secondo Arbasino: pochi tavoli, pochi clienti, Il Giornale, venerdì 4 marzo 2005 Per quanto abbia scritto di buono (Anonimo Lombardo, Le piccole vacanze, La bella di Lodi, Fratelli d’Italia) e per quanto potrà ancora scrivere di sublime, passerà ai posteri come l’inventore della «casalinga di Voghera» e della «gita a Chiasso»
La letteratura secondo Arbasino: pochi tavoli, pochi clienti, Il Giornale, venerdì 4 marzo 2005 Per quanto abbia scritto di buono (Anonimo Lombardo, Le piccole vacanze, La bella di Lodi, Fratelli d’Italia) e per quanto potrà ancora scrivere di sublime, passerà ai posteri come l’inventore della «casalinga di Voghera» e della «gita a Chiasso». Viveur disincantato com’è, Alberto Arbasino ci scherza pure sopra: «Alcuni amici me lo ricordano sempre, potresti scrivere un capolavoro da mille pagine, sulla tua tomba sarà quello il tuo epitaffio». Lo incontriamo a Varese, dove Arbasino è arrivato per ricevere il «Premio Chiara» alla carriera. Cinico, dandy, mefistofelico, viaggiatore eccentrico, esteta, melomane raffinato, polemista snob, mondano, eclettico, beffardo: gli aggettivi che si associano al nome di Arbasino sono sempre gli stessi. Abusati. E allora cerchiamo di non usarli, tanto chi sia questo gran lombardo, di Voghera per l’appunto («Come Carolina Invernizio, Valentino e Maria Angiolillo» tiene a precisare) lo sappiamo. Il settimanale ciellino ”Tempi” definì la sua opera «un vuoto esercizio di sputo sul mondo». Lui più che uno sputatore è un osservatore. Di vizi, tic, manie, costumi e malcostumi italici. E se poi gli viene da sputarci sopra non sarà solo colpa sua. Arbasino è uno di quelli che stanno alla finestra e guardano da dietro le persiane socchiuse. Vede, annota, capisce, legge tutto, sa tutto. Ma finge di non aver visto, di non sapere, di non capire. E si rifugia nell’apologia dei tempi andati. «Ah quando a Milano alla Scala dirigeva Fürtwängler, ah quando di libri si parlava con Moravia, Parise e Alicata». Poi però bombarda i giornali di letterine, o piccoli rap, aforismi, battute e ragionamenti episodici che danno la misura del suo distacco dal mondo e al tempo stesso della sua attualità. Queste incursioni assomigliano a spezzoni di un blob, alle descrizioni frammentarie del nostalgico che non riesce più ad abbracciare e comprendere la realtà nel suo complesso e reagisce con frecciate sporadiche. Arbasino nega. «No, non è una questione di misure. Non esistono forme minori o maggiori di letteratura. Il rap non è meno degno del romanzo. Se guardo ai grandi compositori - da Beethoven a Mendelssohn da Schumann a Brahms - hanno scritto alcune sinfonie e un’infinità di lieder, Beethoven le chiamava bagattelle. Io guardo a loro, al grande compositore. E non è che Chopin per il fatto che componeva più lieder che sinfonie si considerasse meno di Mendelssohn. Da noi le bagattelle sono considerate forme minori perché c’è questa stupida gerarchia imposta dei generi. I cosiddetti interventi politici e civili non solo non piacciono più ai giornali, ma sono una forma che rischia di apparire di un illuminismo démodé. Mi sembra più efficace, invece di editoriali o elzeviri - che rischiano di diventare prediche delle quali il lettore si stufa dopo cinque righe - fare queste interventi in poche righe in diverse testate». A sentire i suoi sfoghi, a leggere i suoi rap, sembra che per Arbasino il mondo si sia fermato alla soglia degli anni Settanta. Eppure non è vero. Lui osserva sornione l’Italia sprofondata, socialmente immobile, culturalmente imbarbarita, un paesaggio popolato di zombi, come da titolo di uno dei suoi ultimi libri. Lui vola alto, si tiene al di sopra delle parti e forse è uno dei pochi scrittori italiani che riesce a mettere d’accordo la destra e la sinistra. Fu deputato per il Pri, uno dei più presenzialisti. Ora con la politica ha chiuso. «Se il livello è questo... Io ho già dato». Scrive indistintamente sul ”Foglio” e su ”Repubblica” e quando anni fa Giuliano Ferrara tentò con una lunga intervista su ”Panorama” di fargli fare una sorta di outing politico (a destra, ovviamente), non riuscì ad estorcergli che un lungo sfogo contro il politicamente corretto, la volgarità dei nostri tempi, le sculettanti divette televisive, i calciatori, presentatori, cantanti e sarti che si intrufolano nei luoghi della cultura e, indovinate, la solita tirata nostalgica tanto che Ferrara lo lascia sfogare per due pagine infilando un solo commento: «Ormai Arbasino geme da sé, senza aiuti». Ma non c’è da credergli neppure quando dice che non legge un libro di narrativa italiana di qualità da anni. Da quando? «Oh bella, sarebbe come chiedermi l’ultima volta che ho fatto un bagno nel mare di Ostia. Non l’annoto certo sul diario». De Carlo, Baricco, Mazzantini, Faletti, Camilleri, le dicono niente questi nomi? Silenzio. Del dibattito culturale sulla critica letteraria che l’è morta perché va dietro ai bestseller cosa pensa? «Questi discorsi sono cominciati negli Stati Uniti negli anni Quaranta e Cinquanta. Sulla ”Partisan Review” già si facevano queste domande. Ma io mi sono sempre detto: se io abbandono una avviata carriera di giurista internazionale e di barone universitario per seguire un hobby che è la letteratura, apro per caso un McDonald’s? Uno che ama cucinare apre un McDonald’s o fa un Cipriani? Bene, io mi sono fatto un piccolo Harry’s bar, pochi tavoli e pochi clienti». Il ragionamento non fa una piega, e infatti Arbasino è uno degli scrittori più di nicchia della scuderia Adelphi. E dei meno ristampati. Anche perché quando rimette mano a un libro tra limature e riscritture ne fa ogni volta una nuova stesura. Detto questo e tornando al bestseller e alla situazione italiana, Arbasino ribatte sul suo solito tasto, sull’amarcord dei bei tempi andati, sull’esaltazione dello scomparso «critico titolare, Emilio Cecchi, Paolo Milano e Geno Pampaloni che tutte le settimane davano un giudizio chiarissimo e definitivo su un romanzo». Mentre oggi uno è lì, domani è là, in balia delle sirene degli uffici stampa, delle mode. E alla fine vengono fuori critiche illeggibili e inattendibili. « come recensire gli hamburger di McDonald’s o le mutande del prêt-à-porter. Si scrive che ne hanno vendute moltissime, sono molto più belle quelle di quest’anno di quelle dell’anno scorso. Ma non è detto che siano bei vestiti. E soprattutto non è detto che ho voglia di comprarmeli io. Comprateveli voi». E l’Arbasino sdegnato racconta le sue serate tra bella gente e persone interessanti, buona musica, pranzi, concerti. Quando va a dormire legge fior di cataloghi d’arte, «pesanti sette chili, che mi interessano certo di più della letteratura di consumo o della fiction». Ci sarà da credergli? Crediamogli. «Inutile ormai in Italia raccontare i tipi sociali. Il burocrate, la signora dei salotti, il portaborse non sono più interessanti. Piace moltissimo la narrativa intimistica e familiare - siamo o no il Paese della famiglia? -. piena l’Italia di vecchie zie che dicevano in casa nostra soltanto dispiaceri e disgrazie. Con questi temi si fanno fior di bestseller, ma purtroppo a me manca quella certa voglia di leggerli». Niente altro? Ormai lo sfogo avanza a ruota libera. «Siccome leggere bestseller di narrativa per me è un job voglio essere ricompensato adeguatamente per il mio parere. A ore, come da tariffario dell’Ordine degli avvocati, più il venti per cento di imposte varie. Non per vanità o perché io valuti il mio tempo prezioso. Ma poiché non è un piacere ma un lavoro professionale, deve essere ricompensato come tale». E quando gli chiedi se la società letteraria è morta o siamo semplicemente noi che non riusciamo più a capire dove stia di casa, Arbasino prosegue nella sua tirata sui tempi andati. «Al cinema Fellini e Antonioni. A Milano abitavano Montale, Quasimodo, Buzzati, Soldati, Emanuelli, Carlo Bo. Poi i più giovani che erano Testori, Ottieri e gente così. Gli editori a parte i vecchi Rizzoli e Mondadori erano Garzanti, Longanesi, Feltrinelli e Bompiani. Tra Firenze e Roma trovavi Longhi, Brandi, Palazzeschi, Montale, Moravia, Comisso, Contini. E poi uscivano ottime novità di Parise, Bassani, Pasolini, Morante, Calvino, Landolfi, Manganelli». Personaggi così oggi non ci sono o non si riescono a individuare? «Beh, che non si riescano ad individuare in un’epoca di mass media che te li sparano addosso dalla mattina alla sera mi sembra strano. è come se non riuscissi a individuare la spiaggia di Fregene. Casomai Fregene era una cosa, adesso è un’altra ma non che non la trovi». Ma questa Italia è davvero così brutta? «Io sono un antropologo e come tale non sono né ottimista né pessimista. Osservo». Caterina Soffici