Stenio Solinas il Giornale, 04/02/2005, 4 febbraio 2005
Come brilla nella memoria la pepita d’oro degli Anni Cinquanta, il Giornale, venerdì 4 febbraio 2005 Gli amarcord sono sempre infidi e i decenni, per chi li ha vissuti, non coincidono mai con quelli, a posteriori, da altri raccontati
Come brilla nella memoria la pepita d’oro degli Anni Cinquanta, il Giornale, venerdì 4 febbraio 2005 Gli amarcord sono sempre infidi e i decenni, per chi li ha vissuti, non coincidono mai con quelli, a posteriori, da altri raccontati. La mostra Annicinquanta. La nascita della creatività italiana, presentata oggi in conferenza stampa in Regione, ospiterà da marzo a luglio, a Palazzo Reale, settecento opere fra oggetti di design, abiti, fotografie, dipinti, sculture, immagini cinematografiche e televisive, e la tentazione di cavarsela con una serie di nomi, più o meno simbolici, sonnecchia nell’animo giornalistico di chi ha già dovuto sorbirsi i Favolosi Anni Sessanta, i Terribili Anni Settanta, i Riflussati Anni Ottanta e la rivoluzione mancata dei, va da sé, Incredibili Anni Novanta... Abbiamo già dato, viene voglia di dire, e l’elencare la Seicento e il Settebello (il treno, non il preservativo), i «tagli» di Fontana e i «sacchi» di Burri, il grattacielo Pirelli e il magnetofono Geloso, Telematch, Rintin tin e La dolce vita è esercizio stanco e routinier, un po’ come quei menù di ristorante che strizzano l’occhio al bel tempo che fu: giovedì gnocchi, sabato trippa... Essendoci nato, nei Cinquanta, dico, oltretutto a me quell’elenco risulta, più che indigesto, complicato, ne afferro alcuni nomi, me ne sfuggono altri: i Cinquanta di un bambino sono un’altra cosa rispetto a quelli di un grande o di uno storico, e però non lo sono meno, non risultano meno ricchi o meno significativi. Sono esistiti anch’essi e a ripensarli adesso sono l’unica pepita d’oro che ti porti dietro, l’età in cui tutto è una scoperta e ad ogni angolo c’è una rivelazione. Naturalmente, come per ogni periodo storico degno di questo nome, non sono rigidi, cronologicamente intendo: non cominciano il primo gennaio 1950 e non terminano il 31 dicembre 1959. I miei, per esempio, come cognizione di un’epoca arrivano al 1964, quando avevo 13 anni e vidi un film di Dino Risi che si chiamava Il giovedì. E partono intorno al 1958, quando andavo alle elementari e ne vidi un altro, di Franco Rossi, che si chiamava Amici per la pelle. Ancora prima ci sono spezzoni, sensazioni, immagini, brandelli di memoria, utili comunque a ricomporre un clima, un’idea, un sentimento; subito dopo c’è lo spartiacque dell’adolescenza che, nel cambiamento dell’età, ti permette di capire come intanto si sia modificata la realtà che ti circonda. Servono, il prima e il dopo, a darti meglio l’immagine del tutto, ma è in quell’intermezzo, in quel «durante», che d’improvviso ti ritrovi a vivere il tuo tempo. Visto con gli occhi di adesso Il giovedì è un film delicato, con un Walter Chiari mai così bravo al cinema, la storia di un padre separato, chiacchierone, inconcludente e inaffidabile, che in quel giorno della settimana vede il figlio, altrimenti affidato alle cure di una madre in carriera, energica, abile. Visto con gli occhi di un ragazzino di allora, è una storia di piazze e strade deserte, dove si giocava a pallone, di fontanelle dove sudati si andava a bere, delle prime macchine di lusso che vedevi, delle prime complicità con un genitore che goffamente cercava di non limitarsi a fare il padre ma a capire chi fosse quell’alieno che andava crescendogli a fianco... Era un’Italia, Roma, nella fattispecie, di una bellezza indicibile, dove in macchina si andava al mare in venti minuti, c’erano gli stabilimenti balneari ma non c’era ancora la folla, si vendevano le sigarette sciolte e un bambino poteva ragionevolmente pensare che nessuno gli avrebbe fatto del male. Un’Italia dove avevano cominciato a rigirare i soldi, ma i soldi non erano ancora l’unico valore riconosciuto, solitamente entrava in casa uno stipendio, le professioni statali avevano ancora un senso, l’insegnante, il militare, l’impiegato, e un decoro. Si avvertiva il mutamento, certo, e il Dino Versini del film, uomo di cambiali, di prestiti, di assegni a vuoto, era come quello zio o quell’amico di famiglia di cui si parlava, si sorrideva, a volte ci si indignava o ci si preoccupava: era un poveraccio, non un modello. E i geometri non erano ancora diventati architetti. Amici per la pelle è del 1955 ma, escludendo di averlo visto a quattro anni, va spostato più avanti, quando i cinema rionali e quelli parrocchiali avevano una programmazione lunga e continua, e in particolari occasioni (la fiera di Roma, quella di Milano, la festa della Repubblica) la televisione proiettava film alla mattina. un’altra storia di bambini, ma i grandi questa volta sono completamente sullo sfondo, una di quelle storie struggenti di amicizie che tutti a quell’età abbiamo avuto, che sembrano indistruttibili e che poi per stupidità, sbadataggine, gelosia, invidia all’improvviso si rompono, e niente sarà più come prima, ma ti lasciano dentro una ferita che il tempo trasformerà in malinconica, dolce cicatrice. Visto con gli occhi di un critico d’oggi è un film interclassista, il rapporto tra il figlio di un diplomatico e il figlio di un piccolo artigiano, ma essendo il primo interpretato dal figlio del comandante Junio Valerio Borghese, la dice lunga sulla composizione politico-sociale di un Paese che si era buttato alle spalle il fascismo, ma non aveva ancora istituzionalizzato l’antifascismo. Visto con gli occhi del bambino di allora è una storia di segreti e di giuramenti, di grembiuli scolastici e di pudichi innamoramenti, dei primi pantaloni lunghi e dei primi tentativi di pettinarsi con la riga, di orari rigidi per il pranzo e per la cena e di ricreazioni scolastiche, di campi da gioco scalcinati e di palestre all’aperto, in maglietta, niente tute, griffes, mode. Era un’Italia, anche qui, nella fattispecie, Roma, dove la maestosità dei monumenti conviveva ancora con le botteghe, il latte era venduto in bottiglie di vetro, le strade si chiamavano «consolari», si prendeva la Flaminia, si imboccava la Cassia e l’Appia e così si attraversavano le regioni. Si andava al ristorante, raramente, e quasi sempre di domenica, il fuoriporta di una città a cui la periferia non aveva ancora mangiato la campagna, bieta e cicoria da cogliere, oppure le lumache dopo i giorni di pioggia... Si andava a letto presto e presto ci si alzava, le cartelle, le tracolle, le merende, le partite di pallone o di figurine, a battimuro, prima che suonasse la campanella dell’ingresso... Tutti indossavano una divisa, i portieri, i bidelli, i netturbini, i tecnici, c’erano i pennini con l’inchiostro nei banchi, le mani erano sempre macchiate di nero, di blu, le ginocchia sempre sbucciate... Il lato femminile di quell’Italia infantile era popolato di mamme, di donne di servizio e di ragazzine. Non era asessuato, era candido, non includeva la donna, si limitava ad ammirarla, oscillava fra un orizzonte domestico e un orizzonte scolastico. La Michelle Mercier che fa la moglie separata nel Giovedì, il ritratto-fotografia della madre morta di Amici per la pelle, sono le immagini intraviste nel salotto di casa, qualche istante prima di volare a letto dopo aver salutato, di amiche di famiglia, di invitate a una cena, abiti lunghi, sigarette con il bocchino, gioielli, rumori di bicchieri, risate e «come ti sei fatto grande», e «chissà quante fidanzate hai»... un altro mondo, irreale, il mondo dei grandi: quello vero è fatto dalle compagne di classe, dalla bambina intravista in spiaggia, accompagnata per mano, di attese dolorose, incontri fortunati, giuramenti eterni e già dimenticati. La mia Italia dei Cinquanta è racchiusa in questo segmento, struggente nella sua semplicità, fecondo nella pienezza delle cose che offriva. Si giocava per strada, o nei giardinetti di fronte, e tua madre ti chiamava a casa dalla finestra, il giornalino di Capitan Miki costava 15 lire, c’erano i gelati da venti... Era ancora un Paese civile, per molti aspetti parco, con un senso dell’ordine sopravvissuto alla sconfitta bellica, con un faticoso benessere figlio di sacrifici, di lavoro e di una certa idea di sobrietà. L’interclassismo di Amici per la pelle più che in un giudizio o un pregiudizio ideologico del regista affonda le sue radici nel gran rivolgimento che il secondo conflitto mondiale aveva portato, borghesi, operai e contadini tutti nella stessa barca, l’esperienza della guerra, della fame, della ricostruzione a fare da collante, la successiva emigrazione da Sud a Nord a diluirlo e a renderci per un po’ stupidamente odiosi. Il mitigato disprezzo di censo che separa moglie e marito nel Giovedì, anticipa l’espandersi di una nuova classe sociale che fa della riuscita economica l’unico tratto distintivo dell’accettazione e del rifiuto, inglobando «i pescecani» e mettendo all’angolo «i poveri cristi» da stipendio fisso... Ma tutto è ancora in fieri, tutto deve ancora avvenire. In attesa di «rapallizzare» le coste, di cementificare il paesaggio, l’Italia offre a chi la guarda un’impressione di armonia che di lì a non molto scomparirà per sempre. L’armonia perduta di un Paese che non aveva ancora perso la propria identità. Stenio Solinas