Varie, 20 gennaio 2006
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DE MEGNI Augusto Perugia 12 maggio 1980. Concorrente del Grande Fratello 2006. Già famoso per esser stato rapito da bambino • «[
DE MEGNI Augusto Perugia 12 maggio 1980. Concorrente del Grande Fratello 2006. Già famoso per esser stato rapito da bambino • «[...] il 3 ottobre 1990 legato, imbavagliato e portato via dall’Anonima sarda, tenuto prigioniero per 111 giorni e liberato dai Nocs con un blitz in una grotta di Volterra senza il pagamento del riscatto [...] La famiglia è una delle più conosciute di Perugia. Il nonno che si chiama come lui, Augusto De Megni, è stato proprietario del Banco di Perugia, uno snodo dell’economia cittadina, ha ricoperto incarichi di primo piano nella Massoneria di Rito Scozzese, ma poi, recentemente, ha avuto difficoltà finanziarie e alcune disavventure giudiziarie (ma anche diversi proscioglimenti) per l’accusa di usura [...] Il padre Dino è Direttore Generale del Pisa Calcio e opera nel settore della consulenza finanziaria. [...] gioca a calcio, portiere del Città di Castello, ha partecipato come modello ad alcune sfilate di moda, lavora nel mondo del mercato immobiliare, degli agenti pubblicitari. [...]» (Alvaro Fiorucci, ”la Repubblica” 20/1/2006) • «Un sequestro, dicono, non si scorda mai. Come il primo amore, ma questa è un’altra storia. Non si dimentica perché, naturalmente, ti segna la vita, la stravolge, la condiziona. La rende preziosa più di quanto non ti sia mai sembrato, o assolutamente insopportabile. In un rapimento sei tu il protagonista, e gli altri semplici comparse. Tutti gli altri: famiglia, amici, investigatori, magistrati, anche i banditi. Nell’autunno 1990 Augusto De Megni aveva 10 anni, il sorriso gioioso di un bambino baciato dalla sorte, un soprannome morbidoso, ”Puscio”, e non avrebbe mai pensato di diventare ”De Megni Augusto, oggetto di sequestro a scopo di estorsione”. Abitava a Perugia con la famiglia molto benestante e in quel tempo l’Umbria contendeva alla Toscana il discutibile privilegio di essere terra battuta dai cacciatori di uomini. O donne, o bambini, non faceva differenza. Bande di sardi, si diceva, e in effetti ce n’erano parecchi, alcuni investiti dalle indagini sui rapimenti, altri condannati, fu allora che sui muri apparve la scritta: ”Tornate nel Sardistan”. [...] Il piccolo lo presero in casa all’ora di cena, mercoledì 3 ottobre. Erano in quattro, passamontagna e pistola alla nuca del padre: ”Sta calmo, è tuo figlio che vogliamo”. Lo valutavano 20 miliardi di lire, la magistratura bloccò i beni e la speranza di un accordo. Ed ebbe ragione. Augusto pareva scomparso nel nulla, unica traccia, sul suo banco, una nave disegnata insieme con i compagni Claudio e Francesco: e l’impegno doveva essere stato grande, perché, raccontarono i due, ”lui sapeva disegnare solo squali”. Frequentava la quinta alla scuola ”XX giugno”, quando si seppe che lo avevano rapito, raccontò la maestra, Elisa Sisani, ”i bambini hanno pianto a lungo”. E Francesco disse: ”Augusto è il nostro capo, in tutte le scorribande durante la ricreazione, ci aiuta a organizzare i giochi, ne conosce tantissimi”. Ma quello nel quale lo avevano precipitato non lo conosceva. Quarantott’ore dopo il sequestro, le strade di Perugia furono percorse da migliaia di studenti con i cartelli: ”Augusto, ti rivogliamo con noi”. Centodieci giorni d’incubo, poi fu liberato: era l’epilogo dell’operazione ”Tempesta nel Volterrano” scatenata dai Nocs. Fu una cosa complicata. Il piccolo era stato tenuto in un anfratto di 5 metri quadrati, quando i banditi, tutti sardi, si accorsero di non aver scampo, tentarono una carta disperata: ”Non sparate o lo ammazziamo”. Poi la resa. Lui, il protagonista, apparve sul balcone della questura di Volterra, con il suo grande sorriso, in testa il berrettino con la scritta ”Polizia” e sotto la gente che applaudiva. Stupì tutti quando disse: ”Non sono feroci criminali come li descrivono tutti. Sono persone che fanno queste brutte cose perché non hanno altro modo per mantenere le loro famiglie”. A suo modo, anche lui era caduto nella sindrome di Stoccolma, per cui il sequestrato si attacca al sequestratore. Quanto dura, questa sindrome? C’è chi dice tutta la vita. [...]» (Vincenzo Tessandori, ”La Stampa” 20/1/2006).