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 2004  giugno 23 Mercoledì calendario

Bisogna saper perdere (i Rokets spiegati al Cav.), La Stampa, 23/06/2004 Con un piccolo ritocco personalizzato, anche i proverbi si adattano al presidente Berlusconi

Bisogna saper perdere (i Rokets spiegati al Cav.), La Stampa, 23/06/2004 Con un piccolo ritocco personalizzato, anche i proverbi si adattano al presidente Berlusconi. Così, mai come nel suo caso, la vittoria ha sempre un solo padre: lui. Mentre la sconfitta, tempo una settimana, comincia a diventare orfana. sempre colpa di qualcun altro. «Mi assumo la responsabilità» aveva scritto in una nota il Cavaliere lunedì scorso di fronte ai numeri della batosta elettorale. Il Tg1 della notte ne aveva dato conto mostrando immagini di repertorio; si vedeva Berlusconi passeggiare tranquillo e assennato, oppure sorridente in una conferenza stampa a Palazzo Chigi, come se stesse commentando la débâcle con la massima serenità. Ecco un leader sportivo, veniva da pensare al povero telespettatore, ecco un uomo che non fugge dai suoi doveri nella buona come nella cattiva fortuna. Bene: era un classico miraggio televisivo, un trucchetto mediatico, un giochino di specchi neppure troppo innocuo, ma pazienza. Nella realtà Berlusconi era ed è ancora imbufalito, tant’è vero che quella sua generica assunzione di responsabilità appare oggi drasticamente ridimensionata. Se Forza Italia ha perso, infatti, è colpa di un evento che a lui proprio non si può imputare: i brogli, che da tempo immemorabile vengono effettuati da quei cattivacci della sinistra. Questo il messaggio. Molto elementare, ai limiti dell’infantile. Ora, esistono molti modi di perdere le elezioni. Essendo la politica divenuta un grande spettacolo, per certi versi bisogna saperle perdere al meglio. Da adulti, possibilmente. Il pubblico gradisce assai le sconfitte, e lo sbandamento del leader che ha perso è da sempre una grande risorsa narrativa, non di rado il primo segno della riscossa. Anche per questo il finto fair play messo in scena dal Tg1 poteva funzionare. Ma aveva appunto il problema di essere finto, e in certi momenti invece la verità paga. Fra tutti i vinti della storia repubblicana il più altisonante risulta senza dubbio Giuseppe Saragat, che nel 1953 suggellò la sconfitta della legge truffa con un’espressione - «destino cinico e baro» - che ancora oggi suona come un capolavoro di rabbia letteraria. Saragat del resto leggeva e citava, sempre in tedesco, Goethe. Ma questo non gli impedì, alle elezioni politiche 1968, quando era al Quirinale e la lista Psi-Psdi ebbe uno scarso consenso, di abbandonarsi nei suoi uffici a un accesso d’ira molto meno letteraria, sembra prendendo a calci un televisore. Così almeno scrive nelle sue memorie uno che lo conobbe e lo frequentò a lungo, Venerio Cattani; e se pure pare una scena da cartoni animati, è anche vero che restò a lungo confinata nella categoria dei retroscena inconfessabili. L’anno prima, a Sanremo, i Rokets avevano lanciato un motivetto che faceva: «Bisogna saper perdere!». E giù una doppia schitarrata, blòm blòm, modulata a ritmo con un doppio passetto di traverso. E poi: «Non sempre si può vincere!», e di nuovo blòm blòm. L’ovvia constatazione vale dunque anche in politica. Il dubbio è che, una volta persi otto o nove punti percentuali, sia come minimo azzardato deviare l’attenzione su quanto di irregolare potrebbe essere avvenuto nei seggi. O almeno: De Mita, nel 1983, si guardò bene dal farlo e l’omissione torna certamente a suo merito. C’è una storica foto che lo ritrae, la notte dei risultati, accasciato su di un divano, da solo, gli occhi chiusi e la mano sulla fronte come solo dopo una tremenda mazzata. Nei giorni seguenti, anzi, favorì un intenso pellegrinaggio di giornalisti nella sua casa di Nusco. E prima di invitarli generosamente alla sua tavola, fra vino rosso e delizie irpine, li accoglieva in salotto con il bloc-notes in mano. Voleva sapere da loro perché aveva perso. Non era facile rispondergli, ma la buona volontà ce la metteva tutta. Chissà cosa pensa il Cavaliere di un simile metodo. In quegli anni i rappresentanti di lista del Pci indossavano un bracciale con il simbolo del partito. E tutto lascia pensare che, di fronte alla scheda dubbia, fossero molto più tosti degli odierni diessini. D’altra parte anche gli scrutatori democristiani non erano esattamente dei novellini, né degli stinchi di santo. Nel 1987 vennero fuori inganni incredibili sulle preferenze nel collegio Napoli-Caserta, ma soprattutto i dc erano scientificamente in grado - c’è uno straordinario libro che lo documenta (firmato con lo pseudonimo Algido Lunnai, Manuale dell’aspirante deputato, Ed. Associate, 1992) - di sapere e quindi di controllare, nome per nome, come avessero votato tutte le varie clientele. E insomma, il sospetto è che a lungo sulle schede bianche scattasse una sorta di meccanismo consociativo per cui i dc si facevano i loro magheggi di corrente, mentre i comunisti monolitici favorivano il Partito. Però a Nenni e poi a Craxi non sarebbe mai venuto in testa di addossare le loro sconfitte ai brogli. E questo contribuiva a preservarne il decoro. La storia abbonda di dignitosissimi sconfitti. De Gasperi si ammalava, Berlinguer s’incupiva, Forlani sembrava perfino allegro, Andreotti non s’è mai capito bene. Solo Fanfani la prendeva malissimo, faceva scene turche, una volta si diffuse la voce che stava per rinchiudersi in convento, come del resto aveva fatto Dossetti. Anche in questo Berlusconi segna più che una novità, una rottura. E non solo perché - come si potrebbe agevolmente documentare - il Cavaliere usa l’argomento brogli anche in via preventiva, cioè per mobilitare i suoi verso la vittoria. Se poi vince, non ne parla più. Il punto vero di discontinuità è che da esponente ben evoluto di un potere che ha recuperato, aggiornandole, forme espressive molto antiche, Berlusconi ha un rapporto assai complicato con la sconfitta. Questa non rientra nei suoi schemi, viola il suo ordine mentale, in ogni caso gli è del tutto estranea, né lui vuol farci amicizia. C’è sempre qualcosa di esterno che la determina: il ribaltone, l’avviso di garanzia, Bossi, Scalfaro, l’invidia, il masochismo degli alleati, i ministri che non sanno comunicare e ora i brogli. Se non suonasse troppo impegnativo si potrebbe dire che Berlusconi non ammette sconfitta. Sarebbe come ammettere di sbagliare: lo fanno tutti. L’errore infatti è democratico, mentre spesso le scuse sono solo i capricci del re. Filippo Ceccarelli