Cesare G. Romana il Giornale, 21/06/2004, 21 giugno 2004
Gainsbourg, un anarchico senza utopie, il Giornale, 21/06/2004 Suo padre, ebreo moscovita fuggito a Parigi dopo la débâcle dello zar, portò con sé la famiglia, l’opera omnia di Dostoievskij e un sogno: suonare Rachmaninov all’Opéra
Gainsbourg, un anarchico senza utopie, il Giornale, 21/06/2004 Suo padre, ebreo moscovita fuggito a Parigi dopo la débâcle dello zar, portò con sé la famiglia, l’opera omnia di Dostoievskij e un sogno: suonare Rachmaninov all’Opéra. Un fato malevolo lo confinò a strimpellare canzonette nei cabaret, e lui si vendicò imponendo ai figli lo studio dei pianoforte, e una mal digerita vocazione al concertismo. L’ultimogenito, Lucien, si vendicò a sua volta, snobbando Rachmaninov e strimpellando canzoni nei cabaret, a riscatto di un’infanzia condannata alla solitudine da un’aerofagia patologica: «Balie e governanti - svelerà nell’autobiografico Evgénie Solokov - ne erano atterrite. vero, una mi istruì sull’alfabeto cirillico, un’altra m’insegnò a suonare l’harmonium, ma le più fuggirono, inorridendo ai miei cinguettii di bebè emessi par derrière». Ad acuire la sua selvatichezza provvide l’occupazione nazista, che lo costrinse a girare con la stella di David cucita sul petto, «rischiando ogni giorno d’essere issato su un vagone piombato»: «Ho vinto una stella gialla», canterà anni dopo, con raggelante sarcasmo. E intanto mutò in Serge Gainsbourg, il nome e il cognome d’origine, Lucien Ginsborg, e a undici anni debuttò, travestito da diavolo, nel music-hall di Fréhel, regina della rive droite. Fu un pompiere in servizio ad offrirgli la prima Gitane della sua vita: l’ultima l’avrebbe fumata cinquantadue anni dopo, sul letto di morte, dopo aver cantato che «Dio è un fumatore di Avana / è stato lui a rivelarmi / che il tabacco porta in paradiso». Il teatro gli ispirò un amore lunatico, com’era nella sua indole. Passò alla pittura, deciso ad emulare l’estro frenetico di Delacroix, che si vantava di eseguire un ritratto nei pochi attimi in cui un suicida lascia il balcone per sfracellarsi sul selciato. Lo attrasse il dadaismo di Picabia, poi l’asserzione di Paul Klee, che «solo i bambini, i pazzi e i primitivi hanno ancora il potere di vedere». S’iscrisse all’Académie di Montmartre, quindi al liceo Condorcet. Fu apprezzata una sua copia del Perseo di Benvenuto Cellini, del quale lesse l’autobiografia e mutuò la sregolatezza. L’antisemitismo vigente nulla poté contro il nitore del suo talento, salvo il fatto che «la spontaneità dei miei schizzi fu presto irreggimentata dai pedagoghi, che non sapevano cosa farsene dei miei palloni cubici, dei conigli a scacchi, dei maiali blu e di altri embrioni fantastici». Eccelse ai corsi di nudo, finché i corpi delle modelle, gonfi o ossuti che fossero, non scatenarono la sua misoginia. Ma agevolarono in lui «una vera maestria nel disegno, inferiore soltanto a quella dei miei peti»: che imparò ad attribuire, per sottrarsi all’imbarazzo, a Mazeppa, il suo bulldog dai dolci occhi rosei e perennemente stupiti. L’espediente non gli evitò l’espulsione dall’accademia. Morto il padre, ne dilapidò l’eredità in bagordi e macchine d’epoca, si guadagnò da vivere insegnando disegno, facendo da baby sitter ai figli dei rifugiati israeliti, colorando le foto dei divi del cinema e suonando nei piano-bar. Passava d’alloggio in alloggio - Salvador Dalì fu tra i suoi anfitrioni - e d’amore in amore, corteggiatissimo nonostante il viso corrucciato e le orecchie a sventola. E tuttavia sprezzante, nei confronti delle amanti, fino a sancire che «è meglio la tua assenza della tua incoerenza»: come cantò per una di esse nei suoi primi dischi, affollati di controllori del tram che sognano il suicidio, battone che biascicano chewing gum durante l’amore, amanti persi «nella noia mortale che provo con te / tanto che d’amore in amore prendo una penna / e riempio di nero le A e le O del giornale». A scriver musica aveva cominciato nel ’54, celandosi dietro lo pseudonimo di Julien Grix, in omaggio all’eroe stendhaliano e al pittore cubista Juan Gris. Fece il pianista e il direttore d’orchestra, debuttò in radio e in una boite degli Champs Elysées conobbe Boris Vian, che sul ”Canard enchaîné” inneggiò al nuovo talento: «Se abbaiate contro le false canzoni e i falsi della canzone - scrisse – comprate questo disco». Alludeva a Le poinçonnier de lilas, primo successo di Serge. Un critico vi scoprì che «Gainsbourg usa le parole per strappar loro la maschera, e dietro la maschera c’è il vuoto»: d’altronde «meglio non pensare a niente che non pensare affatto / niente è assai meglio di tutto», aveva decretato Serge, imprigionando il proprio destino in un ossimoro, quello d’un anarchico senz’ombra di utopie. E non rinunciando a bollare, sì, le ipocrisie dei perbenisti, la corruzione dei potenti, le devastazioni del nazismo elencate in Rock around the bunker, ma nella certezza che contro l’eclisse dell’etica non c’è redenzione: «Quando ho finito le mie otto ore - scrisse da nihilista assoluto - non mi restano, per sognare, che gli orribili fiori della carta da parati». Né l’amore gli offrì scampo: Je t’aime... moi non plus, il suo brano più noto, apparve ai più, con i suoi sospiri orgasmatici, un tributo alla forza vivificante dell’eros. Fu, invece, la constatazione che l’ossessione sessuale non è che un ripetitivo agitarsi, ché «l’amour phisique est sans issue». Trovò tuttavia in Jane Birkin la passione più grande della sua disamorata esistenza: giunta dopo due mogli, due paternità e altrettanti divorzi, e dopo l’effimera liaison con Brigitte Bardot, per la quale quella canzone fu scritta, per essere poi interpretata a due voci con Jane. Con l’epopea dei grandi chansonniers ebbe un rapporto da guastatore: praticò il jazz, precorse la world music, s’adattò allo yé yé pur di demolire l’illusione, letteraria e teatrale, di cui s’era alimentata la grande chanson française. E per fare soldi: «Se scrivo dodici capolavori e li metto in un disco - confidò - due di essi avranno successo, gli altri saranno ignorati. Se scrivo dodici canzoni per altrettanti interpreti, i successi saranno dodici». Dionne Warwick, Donna Summer, France Gall, Petula Clark, Dalida, Juliette Gréco, Brigitte Bardot furono tra le interpreti d’un canzoniere che aggregava humour nero, levità strafottente, vicende di depressione, malattie, droga. E il cui autore si definiva, con tetra civetteria, «fiero, maldestro, violento» e ancora «ladruncolo, gran falsario, depresso forsennato». Si costruì una tematica imponendosi un’esistenza spericolata: vodka e champagne per prima colazione, cinque pacchetti di Gitanes al giorno, notti passate per strada a fraternizzare con gli spazzini, o nei commissariati in cerca di ladri, spacciatori e puttane cui rubare il segreto del non vivere. Invitato a recitare in uno sceneggiato sulla Rivoluzione francese, pretese per sé il ruolo dei marchese di Sade. In un varietà televisivo bruciò una banconota da cinquecento franchi, prima d’intonare la Marsigliese a ritmo di reggae. Bissò lo scandaloso successo di Jé t’aime.. moi non plus registrando, con la figlia Charlotte, una sulfurea Lemon incest. I grandi maledetti del jazz, Charlie Parker, Thelonius Monk, Miles Davis alimentarono il «cubismo ritmico» e la tensione perversa della sua musica, ma fu Charles Baudelaire il definitivo modello. Refrattario alla fede dei suoi avi, e per nulla imbevuto di religione dell’uomo, Gainsbourg trovò nei Fleurs du mal un appropriato vangelo. Fece sua la metafora baudelairiana del Trismegisto, «Satana culla il nostro spirito incantato / sul guanciale del Male / ogni giorno scendiamo d’un passo verso l’inferno / senza orrore», e concordò col poeta nel delegare alla morte, che «ogni giorno scende, fiume invisibile, nei nostri polmoni», l’approdo liberatorio al nulla. Che lo soccorse nel 1991: quando il fegato cirrotico, i polmoni ingrommati, il cuore disinnescato e ribelle lo condussero pietosamente alla fine. lecito intuire il sollievo con cui Serge Gainsbourg, dal disilluso dandy ch’era stato, s’abbandonò a quel Niente inseguito per tutti i sessantatré anni della sua vita. «La seule solution c’étai de mourir», aveva cantato del resto, con Brigitte Bardot, in Bonnie et Clyde. Nella bara ottenne che gli mettessero un pacchetto di Gitanes e una bottiglia di whisky. Cesare G. Romana