Astrit Dakli il manifesto, 18/06/2004, 18 giugno 2004
Il volo abortito di Mikhail Khodorkovsky, il manifesto, 18/06/2004 Vestito dimessamente in jeans e giubbino di pelle, seduto tranquillo dietro le sbarre della sua gabbia, con mamma e papà a scrutarlo ansiosi dai banchi del pubblico nel piccolo e affollatissimo tribunale distrettuale di Meshchanskij, Mikhail Borisovic Khodorkovskij mostra di essere l’uomo più ricco di Russia e uno dei più ricchi del mondo solo per il fatto di avere otto avvocati schierati a difenderlo, contro un solo procuratore a sostenere l’accusa nel processo più atteso e controverso che Mosca ricordi da decenni e che occuperà senz’altro le cronache estive dalla capitale russa
Il volo abortito di Mikhail Khodorkovsky, il manifesto, 18/06/2004 Vestito dimessamente in jeans e giubbino di pelle, seduto tranquillo dietro le sbarre della sua gabbia, con mamma e papà a scrutarlo ansiosi dai banchi del pubblico nel piccolo e affollatissimo tribunale distrettuale di Meshchanskij, Mikhail Borisovic Khodorkovskij mostra di essere l’uomo più ricco di Russia e uno dei più ricchi del mondo solo per il fatto di avere otto avvocati schierati a difenderlo, contro un solo procuratore a sostenere l’accusa nel processo più atteso e controverso che Mosca ricordi da decenni e che occuperà senz’altro le cronache estive dalla capitale russa. Otto avvocati - ovviamente i migliori reperibili in Russia - che però probabilmente non basteranno ad evitare una condanna, come non sono bastati né loro né l’enorme montagna di soldi di cui l’eccellente imputato dispone a garantirgli la libertà su cauzione: il processo è politico e in causa non sono le illegalità che Khodorkovsky ha compiuto nella sua fulminante carriera capitalista, ma il rapporto stesso fra denaro e politica. «La politica è il versante più lucrativo degli affari», disse Khodorkovsky nel ’97 alla ”Nezavisimaja Gazeta”, al culmine dell’era eltsiniana. Sette anni dopo, si rende conto che è anche il versante più rischioso: scrive, dal carcere, sul «generale disgusto che provoca il sempre più largo abisso tra gli imperiosi liberali e il resto del paese»; e su se stesso, «complice dei misfatti e delle bugie di quei liberali». Per Mikhail Borisovic, l’arresto non dev’esser stata una cosa sorprendente e inconcepibile. Forse inattesa in quel preciso momento - l’alba del 23 ottobre scorso, all’atterraggio del suo aereo privato nell’aeroporto di Tolmachevo, in Siberia - ma certo messa nel conto delle possibilità fin dall’inizio dell’avventura: da quell’ormai remoto 1986 quando, fresco di laurea in chimica e con la copertura del Komsomol (l’Unione della gioventù comunista di cui era un leader universitario) sfruttò al volo le prime aperture al «mercato» concesse da un altro e più famoso Mikhail e aprì un caffé privato a Mosca. Gorbaciov aveva appena detto «si può fare»: e Khodorkovsky batte tutti in velocità e lo fa. Non è così semplice: la perestrojka è in embrione, gran parte del Pcus vuole azzerarla sul nascere - e in carcere ci si finisce ancora facilmente, se non si hanno le spalle coperte. Mikhail Borisovic le ha coperte dal Komsomol, ma il suo obiettivo non è certo servire il caffé a qualche audace in cerca di novità: con la quasi legittimità che gli garantisce il locale, continuando a presentarsi a doganieri e poliziotti come rappresentante della potente organizzazione giovanile (esentata dal pagamento delle tasse!) comincia subito a importare alcolici e beni di consumo vari - alla grande, se già nell’88, quando ha solo 25 anni e il comunismo sembra incrollabile, il suo giro d’affari supera i 10 milioni di dollari all’anno. Lui stesso ammetterà più tardi di aver usato le sue connessioni di partito per «risolvere alcuni problemi con la polizia riguardo il mio business». La scalata successiva all’olimpo della super-ricchezza è rapidissima: il giovane Khodorkovky continua con il suo sistema, sfruttare immediatamente e al massimo grado gli spiragli - o le voragini - che lo stato via via apre. Lo racconta lui stesso al ”Wahington Post”: «Quando studiavo, ho trovato la possibilità di guadagnare qualcosa extra lavorando in un cantiere. Quando mi sono laureato, ho aperto un caffé per giovani. Poi nell’Urss diventò possibile commerciare, e mi sono messo a commerciare in computer e cognac. Quindi la Russia liberalizzò il commercio di valuta, e ci siamo messi anche in quello, perché rendeva, ma senza abbandonare computer e cognac. Poi lo stato ci ha permesso di fondare banche e così abbiamo fatto, concedendo prestiti. Infine ha deciso di vendere le industrie, e così ne abbiamo comprate una cinquantina...». La fondazione della banca Menatep, nel 1989, è una pietra miliare dell’avventura: costruita vendendone le azioni al pubblico (migliaia di cittadini verranno rovinati, ma la banca esiste e prospera ancora) la banca arricchisce spaventosamente servendo lo stato. Prestiti e soprattutto speculazioni sul denaro depositato dai ministeri e destinato a pagare salari pubblici: sono ancora una volta le connessioni politiche di Khodorkovsky, attraverso il Komsomol e le lunghe ramificazioni della burocrazia universitaria comunista, a garantire alla banca Menatep il favore di ministri e direttori generali e con esso la condizione di «fornitore privilegiato». Una curiosità, che spiega molte cose: il termine Menatep non ha niente a che fare col denaro ma è l’acronimo russo per «Programma tecnico-scientifico intersettoriale». L’ex studente di chimica sa come trattare i suoi polli. Passano alcuni anni, oscuri e violenti, durante e subito dopo l’esplosione dell’Urss e del Pcus. Mikhail Borisovic parla poco e agisce molto: nel ’95 la holding industriale di Menatep possiede già più di trenta aziende con 140mila dipendenti e un fatturato di oltre un miliardo di dollari (che per l’economia russa è una cifra stratosferica). Si è appena impadronita delle miniere di apatite (fosforo) del nord, le migliori del mondo, con un’operazione di puro gangsterismo: la compagnia Apatit era stata privatizzata all’inizio del ’94, con le azioni distribuite tra i 15.000 dipendenti; pochi mesi dopo la produzione si era praticamente fermata e i salari non venivano più pagati: due intere città, con 60.000 abitanti, completamente dipendenti dalla Apatit nella remota penisola di Kola, erano finite alla disperazione, quando alla fine dell’anno si era presentato Khodorkovsky, con l’offerta di 150 rubli per ogni azione. Appena rastrellata la maggioranza delle azioni, la Apatit era tornata miracolosamente a lavorare a pieno regime - e adesso, dieci anni dopo, i dipendenti ed ex azionisti sono perfino contenti di esser stati vittime di un’estorsione a mano armata: i salari sono ottimi e tutto va bene (per inciso, è su un aspetto laterale di questa vicenda, per via di certe tasse non pagate, che la procura generale sta oggi processando Khodorkovsky). Alla collezione mancava comunque ancora il pezzo forte, quello che porterà Mikhail Borisovic sulla ribalta internazionale. E per l’ennesima volta sono le amicizie con i suoi ex colleghi del Komsomol, ora diventati tutti giovani dirigenti politici ”liberali”, a farglielo conquistare. Quindici giorni prima di essere privatizzata, la seconda compagnia petrolifera russa viene acquistata dalla banca Menatep, senza asta pubblica, per una cifra irrisoria: 450 milioni di dollari nella versione ufficiale, 159 nella realtà. In quello stesso ’95 la Yukos fa profitti per 4 miliardi di dollari. Ci sono altri grossi azionisti, dentro Yukos, compresi degli stranieri (il tycoon americano Kenneth Dart e la stessa Amoco-Bp, che ha appena investito 300 milioni di dollari in ricerche petrolifere) ma vengono presto spazzati via con metodi poco ortodossi. Tre anni dopo la Menatep, svuotata della sua holding e indebitata oltre ogni dire con banche estere, viene lasciata andare alla malora con tutti i suoi ingenui azionisti - si salverà solo la sua branca pietroburghese, che di azionisti non ne ha (salvo Khodorkovsky e alcuni suoi fedeli) ma possiede mezza Russia del nord, compresa la Apatit. Anche quest’ultimo misfatto viene compiuto con il sostegno di amici al governo: il crack finanziario russo dell’agosto ’98 serve a coprire l’enorme imbroglio a carico di azionisti e risparmiatori compiuto dalla Menatep e da un altro paio di banche. Tutto facile, per Mikhail Borisovic? Non tanto, tutto sommato. ancora lui stesso a spiegarlo in un’altra intervista: «Abbiamo preso rischi tremendi con il nostro rapporto con le autorità del tempo. Se i comunisti avessero vinto le elezioni, avremmo pagato non solo con tutti i nostri averi ma con la vita. E allo stesso modo avremmo pagato con la vita se non fossimo riusciti a gestire tutte quelle imprese, in mezzo a un sacco di banditi disposti a ucciderti». Gli ultimi anni sono quelli della «perbenizzazione». L’impero di Khodorkovsky vuol acquisire credibilità, avendo già tutta la ricchezza possibile: ma è questa l’operazione più pericolosa. «Prima del 2000 - dice all’inizio dell’anno scorso - pensavo che responsabilità sociale e successo negli affari fossero questioni indipendenti. Ora so che non è così». Difende la trasparenza dei bilanci, assume iniziative filantropiche. Accusa Vladimir Putin di gestire il paese in modo autoritario e poco democratico; si candida persino a prendere il suo posto. Un po’ troppo, no? per non finire dove aveva sempre temuto di dover prima o poi finire. Astrit Dakli