Michele Neri Vanity Fair, 03/06/2004, 3 giugno 2004
Google è Dio e decide se una cosa esiste oppure no, Vanity Fair, 03/06/2004 Tra i sei etti di alici spinate appena comperate e di cui non so che cosa fare e una soluzione, c’è di mezzo Google
Google è Dio e decide se una cosa esiste oppure no, Vanity Fair, 03/06/2004 Tra i sei etti di alici spinate appena comperate e di cui non so che cosa fare e una soluzione, c’è di mezzo Google. Accendo il computer, vado al sito www.google.it e nella casellina bianca sotto la testata arcobaleno, scrivo: ricetta spaghetti alici finocchietto. In 0,22 secondi risponde - attraverso una pagina del suo sito multidisciplinare - un gentile urbanista e gastronomo veneziano, il 74enne Edoardo Salzano, la cui ricetta compare sullo schermo in cima a tante altre. Due decimi di secondo, il tempo medio di una delle più belle storie da quando esiste internet. Forse una religione (qualcono si domanda se Google è Dio). Forse una fiaba a lieto fine (la prima società democratica della storia la cui missione è portare a tutti, subito e gratis l’informazione). O una forma invisibile di dittatura della conoscenza. Negli ultimi cinque anni, man mano che il web si dilatava, questo sito con una grafica talmente minimale da farlo sembrare un asceta nella Las Vegas internet s’imponeva fìno a diventare la nostra porta preferita per entrare in questa nuova dimensione. Un cucchiaino con cui raccogliere il mare. Se tutte le risposte sono oltre lo schermo, ci serve una guida. Veloce. Democratica. Completa. Google. Da motore di ricerca a enciclopedia epidermica, quella piccola casellina bianca è diventata il luogo preferito dove inserire la nostra richiesta di attenzione, vanità, controllo, paura, sicurezza, curiosità, amore. Per rispondere alla mia domanda, il motore di ricerca più importante di internet ha fatto lavorare diecimila computer (c’è chi parla di centomila, i dati non sono confermati) suddivisi tra dieci sedi mondiali. Hanno scandagliato un archivio elettronico - il più grande del mondo - composto a oggi di oltre 4 miliardi di pagine indicizzate e che occupa una memoria spaventosa (migliaia di terabyte). L’archivio è costantemente aggiornato la mia schiera inarrestabile di ragni (si chiamano spiders i programmi che scandagliano il mare invisibile di internet e tornano a galla con pagine e pagine copiate - indicizzate - dai siti trovati). Le mie alici, assieme ad altre 200 milioni di domande che ogni giorno raggiungono Google da cento Paesi e in una dozzina di lingue diverse, partecipano a un’avventura che sta per concludersi con una quotazione a Wall Street che porterà nelle casse della società californiana almeno 25 miliardi di euro. Google nasce quando due studenti neolaureati s’incontrano nell’estate del 1995 alla Stanford University. Mr Brin (Sergey Brin, famiglia emigrata dalla Russia quando lui aveva sei anni, laurea in matematica e computer science) ha il compito di spiegare come è fatto il campus di Stanford al neoarrivato Mr Page (Larry Page, da poco ingegnere laureato all’università del Michigan). Passano un weekend a litigare. Ma non troppo. Cominciano a studiare un nuovo motore di ricerca per internet. Occupano la stanza di studente di Page a Stanford in California. Hanno una piccola idea. Piccola e geniale al punto che oggi Google risolve più di tre quarti di tutte le ricerche nel web e to google è diventato sinonimo del verbo cercare. Nella migliore tradizione della Silicon Valley, la piccola idea segue i due giovani inventori dal dormitorio di Page a un garage, sempre a Stanford, e da questo via via alla sede attuale con duemila dipendenti di Mountain View, a sud di San Francisco. Attira negli anni i primi spiccioli di investimento (è stato uno dei fondatori della Sun, Andy Bechtolsheim, a insistere per dar loro un primo assegno di 100 mila dollari intestandolo a Google Inc. e costringendoli di fatto a creare una società per incassarlo), e poi milioni di dollari di investimento delle più accorte società di venture capital (ma Brin e Page si sono tenuti quasi un 40 per cento della società in due, che fa di loro, con circa 4 miliardi di dollari potenziali a testa, due ragazzi piuttosto in alto nella classifica di ”Forbes” dei più ricchi al mondo). «L’idea piccola piccola», spiega Stefano Ceri, professore di database al Politecnico di Milano e docente a Stanford quando Brin era un giovanissimo studente che arrivava a lezione in monopattino, «è questa: l’importanza che ha un sito o una pagina di un sito (quindi il suo uscire per primo tra i risultati della ricerca) deriva dal fatto di essere stato più linkato da altri siti. Gli altri motori non funzionano su questo principio, danno più importanza al sito in cui la parola ricercata compare più volte. Per noi informatici era chiaro da subito che Google aveva l’idea giusta per diventare ”il” motore di ricerca». Ceri parla del principio del Pagerank, la classifica con cui escono le pagine e che si può spiegare anche così. «Immaginiamo di voler comperare un impianto stereo. Potrei chiedere ai miei amici qual è il migliore. Alcuni di loro mi diranno il nome di qualche marca, altri invece mi diranno che non sanno consigliarmi ma sanno che il tale amico, Marco, sa tutto sugli impianti stereo. Se quando poi parlo con Marco, mi dice che il suo amico Giorgio ne sa ancora di più, capisco che Giorgio ne sa veramente tantissimo». Il segreto di Google è simile: invece di trovare chi sa di più sugli stereo, cerca di farmi vedere le pagine web più «importanti», nel senso che sono state «linkate» (come dire, suggerite) più volte e da più fonti. Page e Brin hanno trasformato la ricerca in un meccanismo molto ben conosciuto e di grande immediatezza: una gara di popolarità. Google non dice la verità, dice cosa gli altri pensano sia la verità. Per dare la ricetta migliore per le alici non ha messo in cima alle risposte il sito dove le parole che cercavo comparivano più volte, ma il sito in cui si dà risposta alla mia domanda e che è stato giudicato affidabile da più persone al punto di averlo linkato al proprio sito. Negli anni il tempo medio di una ricerca è sceso di dieci volte, da tre secondi a due decimi di secondo, ormai oltre la soglia fisica dell’attesa. La crescita di Google è avvenuta in armonia con il karma della homepage del sito. Una quarantina di parole in tutto, sempre le stesse per essere caricate in fretta sul monitor a qualsiasi condizione di connettività. Il successo economico di Google, pur generato dagli introiti pubblicitari, non ha tradito il piacere di utilizzo degli utenti. La pubblicità è confinata in un piccolo spazio alla destra della pagina. Niente banner, fotografie, effetti speciali. Se nessuno clicca sull’annuncio pubblicitario, non importa quanto ha pagato il cliente, significa che non interessa ai navigatori e quindi viene declassato di posizione. Gli investitori ora sono oltre centomila, ma per i primi diciotto mesi Google non ha incassato nemmeno una lira di pubblicità. I soldi li faceva vendendo il proprio motore ai grandi portali del web. Anche dal punto di vista dell’immagine, la crescita della company non sembra aver tradito le origini studentesche. Davanti alla sede centrale sono parcheggiate Volvo e Subaru scassate. Pallavolo in cortile, massaggi per tutti. Il cuoco della mensa in passato ha lavorato per i Grateful Dead. Brin e Page lavorano fino a notte e cenano in ufficio e nel 2003 la loro dichiarazione dei redditi non superava i 350 mila euro anche se la società ne guadagnava mille volte di più. Hanno conservato la loro fisionomia distinta, Page l’ingegnere 31enne, Brin il creativo di 30 anni con la passione delle acrobazie al trapezio. La rivoluzione vera l’hanno fatta gli utenti. Noi. Con Google abbiamo sviluppato un sesto senso, quello della ricerca. Un senso di cui sottovalutavamo l’importanza prima che comparisse la soluzione più comoda. Che cosa stiamo cercando? Non solo informazioni (la velocità della luce, la capitale della Lettonia, i titoli dei romanzi di Barbara Cartland, orari, date, ingredienti). Google è diventato un dizionario, un massaggiatore dell’ego (verificare se si hanno più citazioni dell’amico, concorrente, collega: selfgoogle), un detective (storie miracolose di persone che ritrovano i veri parenti e di derubati che recuperano la refurtiva in pochi minuti), scherzo politico (scrivere incapace nella casella e poi cliccare il comando mi sento fortunato che serve a collegare il navigatore direttamente al primo sito prodotto dai risultati), strumento di controllo quasi paranoico (sapere tutto su chi si sta per vedere a cena, assumere, amare). Tanto internet non dimentica, tutta la nostra vita è lì dentro per sempre. In fondo, è anche un gioco. Provate Google Smackdown: Inter o Milan, Arcuri o Cucinotta. Chi ha più risultati, vince. Il motore sente tutti i giorni il polso del pianeta. E la sua curiosità. Il servizio Zeitgeist (si trova nella pagina Centro Stampa a cui si accede cliccando su Tutto su Google) pubblica per i principali Paesi la classifica dei temi e personaggi in testa alle ricerche. Italia, marzo: primo il ”Grande Fratello”, seguito da Trenitalia. In Google we trust. Al punto che quando, nello scorso novembre, sono state cambiate alcune regole del ranking, molti negozi, piccole società che prosperavano grazie al fatto di essere in cima agli indirizzi, scomparsi dalla top ten sono anche scomparsi dal mercato. Panico. Finora Google non ha messo in vendita la posizione tra i risultati delle ricerche (anche se per alcuni argomenti ci sono i collegamenti sponsorizzati, messi in evidenza rispetto agli altri risultati). un potere immenso, che per ora è stato usato con benevolenza democratica. In questi anni Google ha imparato molto su di noi. Cosa cerchiamo, quando, cosa non cerchiamo. E su Google non ci limitiamo a cercare. a disposizione il primo notiziario internazionale tutto artificiale, Google News (i soliti ragni compongono un giornale aspirando le notizie qua e là in rete). Per addolcire la quotazione in Borsa, è stata annunciata Gmail, un servizio di posta elettronica con un giga di spazio gratuito, un campo di calcio in confronto ai fazzoletti offerti dagli altri provider. Tra le evoluzioni allo studio degli ingegneri di Mountain View, si passa dall’ipotesi vicina di una ricerca fatta al telefono per poi vedere i risultati on line a quella più avveniristica di quando Google conoscerà così bene i propri utenti da potergli chiedere: che cosa voleva dire mia moglie quando mi ha detto quella cosa? Parola di Craig Silverstein, responsabile tecnico. Riuscirà la bianca anticamera della conoscenza a mantenere la supremazia assoluta nelle ricerche? Concorrenti agguerriti in ordine sparso: Yahoo! forte della sua gigantesca community. Microsoft che prepara un suo motore. La Cina, seconda comunità on line del mondo. E un cinese più degli altri: Zhou Hongyi, direttore del motore di ricerca 3721.com. «Il mio lavoro consiste nel prendere a calci Google». Ma Google si è già radicato in noi. Assomiglia al telefonino che con la sua presenza ha generato nuovi bisogni e comportamenti. Questo sito dal suono gutturale (deriva da «googol», coniato dal matematico Edward Kasner per indicare un numero immenso, 1 seguito da 100 zeri) determina che cosa esiste e cosa non esiste in internet. E questo è già un potere enorme. Ma sono sempre di più quelli che cominciano a dire che se qualcosa non c’è in Google non esiste. Eppure sono gli stessi Mr Page e Mr Brin ad ammettere per primi che Google non è ancora un prodotto perfetto (un tempo se mettevi Jews, ebrei, nel campo di ricerca per primo usciva un sito antisemita; se cercavi la storia del bambino annegato in una lavatrice la pagina si riempiva di negozi di elettrodomestici). E, ancora, nella sua immensa memoria, Google contiene solo le pagine di internet accessibili ai suoi ragni aspiratori. Sono le pagine gratuite, i siti a pagamento non vengono presi in considerazione. Fidarsi soltanto di Google significa fermare l’orologio della conoscenza al 1995, perché la maggioranza delle pagine di internet sono state scritte dopo quella data. Come se l’orologio della conoscenza fosse stato rimesso a zero meno di dieci anni fa. Un refresh che non fa perdere nulla a chi cerca Britney Spears. A Montaigne va meno bene. Ma per le mie alici bastava. Michele Neri