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 2004  maggio 17 Lunedì calendario

E se negli occhi di Nick Berg fosse riflesso il nemico?, Corriere della Sera, 17/05/2004 «Nulla di ciò che l’America ha fatto giustifica la spaventosa crudeltà dell’esecuzione di Nicholas Berg; e d’altra parte la sua morte non vale a diminuire in nulla la vergogna dell’America e la responsabilità dell’amministrazione Bush per il brutale trattamento inflitto ai prigionieri»

E se negli occhi di Nick Berg fosse riflesso il nemico?, Corriere della Sera, 17/05/2004 «Nulla di ciò che l’America ha fatto giustifica la spaventosa crudeltà dell’esecuzione di Nicholas Berg; e d’altra parte la sua morte non vale a diminuire in nulla la vergogna dell’America e la responsabilità dell’amministrazione Bush per il brutale trattamento inflitto ai prigionieri». Queste sagge parole del ”New York Times” ci ricordano che in Iraq come altrove le colpe degli uni non lavano quelle degli altri, che ognuno deve rispondere delle proprie senza cercare attenuanti in quelle dell’avversario. Ma stabilire che le responsabilità non possono elidersi in una sorta di macabro «pari e patta» significa forse che anche i due orrori sono uguali? Nel senso non già della gravità ma di un analogo peso e rilevanza storico-culturale, di una carica ideologica di analoga ampiezza e profondità? A me sembra di no. Mi sembra, cioè, che la tortura del carcere di Abu Ghraib e lo sgozzamento-decapitazione di Nicholas Berg siano storicamente e culturalmente due cose diversissime, che dunque implicano valutazioni diverse. Impegnati in operazioni militari non convenzionali tutti gli eserciti del mondo, di ieri e di oggi, con il consenso più o meno tacito, o addirittura l’istigazione del proprio governo, hanno fatto ricorso alla tortura dei prigionieri per estorcere informazioni. Lo hanno fatto i russi, i francesi, i giapponesi, i tedeschi, gli italiani, gli spagnoli, gli americani ecc. Anche perché talvolta la tortura, per quanto sia orribile ammetterlo, funziona: la battaglia di Algeri, ad esempio, nella seconda metà degli anni Cinquanta, fu vinta dai paras del colonnello Massu ricorrendo per l’appunto alla tortura; dopo un po’, fiaccato dalle confessioni estorte ai suoi militanti, l’Fln decise di interrompere gli attentati dinamitardi contro obiettivi civili. Non da oggi, però, tutti i nostri codici vietano espressamente la tortura, e l’opinione pubblica occidentale è venuta sviluppando un rifiuto assoluto per simili metodi. Chi (governo o militare) viene scoperto a praticarla deve fronteggiare la riprovazione universale e va incontro a guai giudiziari seri. Come sta capitando precisamente a un certo numero di militari americani e, politicamente, all’amministrazione Bush. Con lo sgozzamento-decapitazione di civili inermi praticato dal terrorismo islamico siamo, invece, in una dimensione del tutto diversa. A differenza della tortura, qui la sofferenza fisica è inflitta al prigioniero a prescindere da qualunque possibile utilità per i suoi uccisori. Non gli viene addebitata nessuna azione specifica, nessuna colpa, non è sospettato di nulla: viene macellato semplicemente per ciò che egli è: un ebreo e/o un americano. Colpisce la forte analogia con il nazismo: anche gli hitleriani consideravano alcune categorie di individui passibili di morte semplicemente per la loro supposta natura razziale. Un’ulteriore analogia sta nella riduzione della vittima a non-uomo attraverso il modo usato per ucciderla: il gas, lo squarciamento della gola ne fanno un insetto, un capro, un animale insomma. Lo sgozzamento-decapitazione costituisce dunque un vero e proprio messaggio culturale intriso di ideologia. Proprio per questo esso si rivolge esplicitamente a un pubblico. Non per nulla l’esecuzione viene ripresa e il video mira ad avere la massima diffusione: a differenza - ancora una volta evidentissima - della tortura, alla quale, invece, i suoi autori non cercano mai di dare pubblicità (le foto di Abu Ghraib erano per esclusivo uso personale). per questo che diventa importante, anzi decisivo, il tipo di reazione che i fatti in questione suscitano nei destinatari. Il presidente della Camera Casini mi pare sia stato tra i pochissimi a osservare come dall’insieme del mondo arabo non sia venuta pressoché alcuna reazione di scandalo e di orrore di fronte allo sgozzamento-decapitazione di Nicholas Berg. Il pubblico islamico, i governi e le autorità religiose musulmane hanno mostrato una sostanziale e sorprendente indifferenza. Che risposta diversa, invece, nel pubblico occidentale alla notizia e alle immagini delle torture americane: qui proteste e condanne a non finire, lì nulla o quasi. Come non pensare che forse c’entri qualcosa una specificità culturale? Come non pensare appunto che l’esecuzione di Berg, per la sua natura simbolica, per l’ideologia che rivelano i suoi esecutori, per le reazioni che non suscita in coloro a cui essi si rivolgono, evoca in modo evidente l’esistenza di una cultura diversa che ci dichiara la sua radicale ostilità?  questa la vera ragione, io credo, del diverso trattamento delle immagini delle torture e dell’uccisione di Berg che - quasi spontaneamente direi, più che per malizioso calcolo - i giornali e i media specie italiani hanno applicato pubblicando senza problemi le prime e per lo più evitando di far vedere le seconde. Il fatto è che le prime mostrano ciò che gli americani (alcuni americani) hanno fatto; le altre, invece, ciò che il mondo islamico può essere (non, si badi, è: può essere). Alle immagini delle torture sappiamo come reagire: sappiamo cos’è la tortura, come e perché ci si arriva, e sappiamo soprattutto cosa dobbiamo pensarne: non possiamo che essere contrari. Invece di una cultura in cui per odio ideologico si arriva a praticare lo sgozzamento-decapitazione di un innocente inerme senza che al suo interno si levi un coro indignato di proteste, di questo non sappiamo cosa pensare. Capiamo, sentiamo prima di capire, che il giudizio non può certo riguardare solo i singoli assassini, che in ballo è sicuramente un dato generale che riguarda «noi» e «loro», la nostra e la loro cultura. Ma il guaio è che la nostra stessa cultura attuale ci obbliga a pensare che non è legittimo esprimere giudizi di valore che in qualunque modo riguardino le culture, tanto meno usare termini antichi come civiltà e barbarie. La barbarie della nostra cultura (che ha nome nazismo, comunismo e tanti altri ancora) quella sì sappiamo riconoscerla e ci sentiamo anche autorizzati a nominarla, ma la barbarie che affonda le radici nelle altre culture no, in questo caso abbiamo paura di essere presi per razzisti nemici del multiculturalismo. per questo che censuriamo le immagini dello sgozzamento-decapitazione di Nicholas Berg: perché non vogliamo essere costretti a pensare ciò a cui immediatamente, invece, quelle immagini ci fanno pensare. E che forse, sospettiamo, non è altro che la verità. Ernesto Galli della Loggia