Cesare G.Romana Il Giornale, 16/05/2004, 16 maggio 2004
Il bambino Halliday s’aggrappò a James Dean per crescere, Il Giornale, 16/05/2004 Fu quando Saba, la sua tartaruga, morì nell’incendio di un’auto, che il futuro Johnny Hallyday, sei anni, si sentì solo al mondo come mai era stato
Il bambino Halliday s’aggrappò a James Dean per crescere, Il Giornale, 16/05/2004 Fu quando Saba, la sua tartaruga, morì nell’incendio di un’auto, che il futuro Johnny Hallyday, sei anni, si sentì solo al mondo come mai era stato. E il cagionevole equilibrio tra male di vivere e joye de vivre, inseguito fin dai primi vagiti, franò nell’angoscia di quel lutto. Era il ’49, a quattro anni dalla fine di Hitler, la Francia di Pétain reinventava il proprio destino, circolava un’euforia doverosa ma fu in Sans famille di Hector Malot che il piccolo Jean-Philippe Smet, così all’anagrafe, trovò una calzante testimonianza di sé: orfano di fatto, dopo che il padre Léon l’aveva abbandonato in fasce e così la madre Huguette, modella, convinta che quel figlio in fasce avrebbe intralciato la sua carriera. Strano uomo, quel Léon Smet: belga trapiantato a Parigi, attore, acrobata, cantante, clown. Ammirato da Cocteau e Barrault, ballerino al Théâtre de la Monnaie, maestro di Serge Reggiani, viveur con impulsi d’autodistruzione, in un cabaret di Saint-Germain aveva conosciuto Hugette Clerc, diciannove anni: bionda, eterea e bellissima. L’atelier d’un pittore, vicino alla Trinité, aveva ospitato la coppia, la nascita di Jean-Philippe, nel giugno ’43, aveva coronato quell’amore impulsivo. Poi l’incontro con una vecchia fiamma aveva tolto Léon alla nuova famiglia: il tempo di vendere la culla del figlioletto e poi via per le strade del mondo. Huguette aveva sbarcato il lunario posando per pittori e scultori, poi Chistian Dior le aveva offerto un avvenire da mannequin e così il futuro Johnny Hallyday aveva perso anche la madre. L’aveva accolto la sorella di Léon, Hélène: costei era una donna volitiva, vocata alla concretezza non meno che all’idealismo. Due figlie, Desta e Menen, le erano nate dalle nozze con Jacob Mar, un principe etiope imparentato con Negus, discendente della regina di Saba e amico di Lawrence d’Arabia. Costui apprezzò nel nipote «lo sguardo sognante dei guerrieri del deserto» e l’amò come un padre, offrendogli un’infanzia d’aristocratica povertà. Più che tra le sabbie del deserto, tuttavia, i sogni di Jean-Philippe viaggiavano in un altrove d’interminate praterie e di purosangue riottosi, nel Far West svelatogli dai fumetti. Quanto a Hélène, una zingara le aveva predetto che avrebbe avuto, in famiglia, una grande star, e così indusse le figlie a diventare ballerine, e insegnò al figlio adottivo il solfeggio e il canto. Il piccolo Smet visse dunque un’infanzia incompiuta, con due zii per genitori e due cugine per sorelle: amato, e tuttavia sradicato. Un gatto abissino, Mektoub, la tartaruga Saba e più avanti il cane Doudou furono i suoi veri fratelli: «Non sai chi è tuo padre, tua madre ti ha fatto con uno straniero di passaggio», lo deridevano i compagni di scuola. Quando la famiglia emigrò a Londra – le cugine avevano trovato un ingaggio all’International Ballet – Jean-Philippe verniciò con i propri escrementi le pareti della loro stanza d’albergo; «per essere riconosciuto, per esistere», annoterà anni dopo, nella sua autobiografia. La morte di Saba e Mektoub concluse anzi-tempo, per il piccolo Smet, l’età dei giochi. Cercò riparo nei sogni, ed elesse a modelli i grandi sradicati d’allora: Marlon Brando e soprattutto James Dean, dal quale mutuò l’atteggiarsi, «l’aria assorta e disperata, il sorriso avaro e triste, la silhouette d’adolescente, smarrito in un mondo d’adulti che non sognano più». Rubò alcuni dischi in negozio e lo stregò la voce di Elvis, poi nella desolazione di Brel credette d’intuire un’anima rock, e in Brassens immaginò il padre che gli era mancato: solido, protettivo, rassicurante. Finché incontrò Lee Ketcham, un cowboy dell’Oklahoma vissuto tra i pellerossa, nipote d’un vescovo, cantante d’operetta. Lee s’invaghì di Desta, cooptò le due sorelle nei suoi spettacoli e conquistò Jean-Philippe regalandogli un costume da gaucho. Infine gli suggerì lo pseudonimo che l’avrebbe reso famoso. Nel giugno ’56 la famiglia approdò a Copenhagen: Lee danzava sullo stile dei cosacchi, Desta e Menen ballavano il can-can, Jean-Philippe, tredici anni, cantò Davy Crockett vestito da cowboy, il fiato mozzato dalla paura. Il principe Jacob era morto, schiantato dall’alcol, la famiglia girò la Germania, il Portogallo, la Spagna, la Scandinavia, l’Italia. A Genova vissero vendendo programmi in teatrini angiportuali, a Roma, in un café chantant, li applaudì Orson Welles, l’Aga Khan li invitò al proprio tavolo e Farouk, il deposto re d’Egitto, offrì loro champagne: tuttavia, per mangiare, Johnny si tuffava ogni notte nella fontana di Trevi, per rubarvi le monete gettate dai turisti. Arrestato, il soggiorno in guardina inverò, nel suo vissuto solitario, una quartina di William Blake: «In ogni grido di bambino che urla atterrito/ in ogni voce, in ogni divieto/ sento un rumore di manette/ forgiate dallo spirito». Quarant’anni dopo avrebbe posto quei versi a epigrafe di Déraciné, suo libro autobiografico. Mesi dopo, tornata la famiglia a Parigi, Hallyday fece la comparsa in un film di Clouzot, i Diabolici, e conobbe Simone Signoret, Michel Serrault, Henri Salvador. Conquistò tutti raccontando la sua vita da picaro e arricchendola d’avventure inventate: la bugia fu il primo banco di prova per il suo talento di teatrante. L’esordio canoro avvenne, sul finire degli anni Cinquanta, all’Astor di boulevard Montmartre: stretto in un abito viola, Johnny attaccò Tutti frutti rotolandosi per terra, in un turbine di fischi. I giornali parlarono di «isteria da baraccone», «caricatura dei peggiori rocker americani», «commedia burlesca». Ma Maurice Chevalier, Charles Trenet e Roland Petit lo acclamarono, e quei consensi fecero dire ad Halliday, anni dopo: «Fu allora che cominciai a colmare il mio passivo d’amore». Il primo disco uscì nel ’60, anno fatidico: Kennedy era asceso alla Casa bianca, Kerouac trionfava con On the road, il mondo del rock’n’roll piangeva Eddie Cochran. Johnny si presentò ai discografici spacciandosi per cowboy dell’Oklahoma, incise la sua Laissez les filles e a pochi giorni dall’uscita, sulla metropolitana, sentì alcuni ragazzi cantarla. ”Paris Match” gli dedicò la copertina e un servizio di sei pagine, ai concerti – lui vestito di nero o di color ciclamino, la chitarra rosa salmone – gli applausi cominciarono a prevalere sui fischi. Due anni dopo, a diciannove anni, il nuovo divo cantava di fronte alla famiglia Kennedy, familiarizzava con Ray Charles, Quincy Jones, John Wayne e Sugar Robinson, trionfava all’Olimpia dove, in prima fila, una donna diafana ed estasiata l’applaudiva: era Marlene Dietrich. A nulla valse la crociata della stampa, che bollò Hallyday come «cowboy di paccotiglia», capace di «grida frenetiche e grossolane vociferazioni» (’Paris Jour”). Ma Elsa Triolet, la compagna di Louis Aragon, lo difese con qualche sovrappiù di enfasi: «La rabbia che suscita – scrisse – è la stessa con cui si tentò d’annientare Majakovskij». E Aznavour scorse in lui «un bambino spaventato, l’opposto di quello che sembra», e lo propose per un film di Mar Allégret, Les parisiens. Solo Claude, la prima ragazza di Johnny, non condivise quel successo: lo lasciò, persuasa dai suoi che «il rock’n’roll è un mestiere senza futuro». Fu la conferma che neppure la popolarità avrebbe eliso il suo destino di sradicato. Ma lo confortò una confidenza di Keith Richards: «Questa è un’epoca magica, sono riuscito a trasformare i miei fantasmi d’adolescente in un modo di vivere». E Johnny visse l’avverarsi dei suoi sogni con l’avidità d’un naufrago. Le folle in tumulto, le donne che gli si offrivano, le cariche di polizia che agitavano i suoi turbolenti concerti furono il segno d’una fama insperata. Ebbe amori fuggevoli e tuttavia fecondi: Linda, una prostituta incontrata in un bar di Pigalle, gli offrì un legame tenerissimo e franco, che segnò la sua vita. Poi Sylvie Vartan, altro idolo dei giovanissimi, lo confortò dell’inutile amore per Catherine Deneuve, e divenne la sua prima moglie. I grandi del rock gli s’inchinarono, gli intellettuali lessero in lui il fascino del buon selvaggio, illetterato e istintivo, la cui musica metteva a soqquadro le platee e indignava i bigotti. Neppure i maestri del cinema sfuggirono al fascino di quel viso che sommava la sfrontatezza d’un James Dean e la suprema melanconia d’un Yves Montand. Dopo Clouzot e Allégret toccò a Hossein, Lelouch, Godard, Costa Gavras assicurarsi il suo talento d’istrione. Come, da noi, Celentano aveva attratto l’interesse di Germi e Fellini, per Hallyday prese l’avvio una vicenda cinematografica che fluì parallela alla sua leggenda di rockstar. Ne fu ennesima conferma, l’altr’anno, L’uomo del treno, di e con Jean Rochefort, gran successo. Cesare G.Romana