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 2004  maggio 20 Giovedì calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 24 MAGGIO 2004

Il caro-petrolio fa felici gli sceicchi e i governi europei.
La domanda mondiale di petrolio supera gli 80 milioni di barili il giorno. L’Europa ne importa 8,6 milioni: il 36 per cento arriva dalle ex repubbliche sovietiche, il 26 per cento dal Medio Oriente, il resto da Africa, Americhe ecc. L’Italia è al quinto posto tra i maggiori importatori: 1,6 milioni di barili al giorno, un terzo proviene dal Golfo Persico. I maggiori produttori sono Arabia Saudita, Russia, Stati Uniti, Iran, Cina (l’Iraq è tredicesimo). I più grandi consumatori sono Usa, Giappone, Cina (l’Italia è dodicesima). [1]

In questi giorni il prezzo del petrolio si aggira sui 40 dollari al barile. Si tratta del livello più alto degli ultimi 13 anni. Giancarlo Galli: «I problemi per l’economia mondiale sono enormi. Il caro-petrolio origina infatti inflazione, ripercuotendosi sui costi delle aziende e sui consumi privati (benzina, riscaldamento). S’è calcolato che 5 dollari di aumento del greggio automaticamente determinano una contrazione del Pil mondiale dello 0,5%. Orbene: tutte le previsioni di sviluppo impostate a inizio d’anno, facevano perno sul barile oscillante fra i 27 e i 30 dollari. Da qui lo spettro di un vistoso rallentamento della crescita». [2]

Per ora c’è ”preoccupazione”, non ”allarme rosso”. Galli: «Esaminando le quotazioni da 30 anni a questa parte, ci si accorge che i 40 dollari attuali sono lontanissimi dalla cifra - equivalente a 78 dollari di oggi, tenendo conto di svalutazione e inflazione - raggiunta negli anni 80 con la rivoluzione khomeinista in Iran». [2] Stefano Lepri: «Facendo i conti del prezzo del greggio in dollari, occorre ricordare che a causa del rialzo dell’euro in Europa abbiamo avvertito assai meno i rincari. Dall’inizio del 2002, in dollari il barile è più caro del 90%, in euro solo del 40%». [3]

Il rincaro attuale dipende da più fattori. Elena Polidori: «Primo tra tutti l’instabilità mediorientale, con i timori per una possibile interruzione delle forniture all’occidente dall’area più produttiva del mondo. Poi c’è la crisi irachena, con tutti i suoi risvolti. E per finire c’è anche preoccupazione sul fronte dei fondamentali del mercato petrolifero, ovvero sull’equilibrio tra domanda ed offerta: le stime sul ”bisogno” di petrolio crescono». [4]

Chi spinge in alto la domanda? James Burkhard, direttore del Cambridge Energy Research Associates (il principale think-tank Usa che si occupa di politiche petrolifere): «La Cina indubbiamente, che da quattro anni è responsabile da sola per il 40 per cento dell’aumento della domanda mondiale, e poi gli Stati Uniti. Ma la Cina è un caso a parte. La crescita della sua domanda supera percentualmente anche quella degli Stati Uniti, il fatto è che la sua economia sta letteralmente esplodendo. La crescita cinese ha poi un effetto a cascata su quella dei paesi circostanti. Assorbendo la maggioranza delle esportazioni del Sud-est asiatico finisce col far lievitare anche la domanda di greggio giapponese, sudcoreana e australiana». [5]

Quanto costa il terrore? Hossein Kazempour Ardebili, rappresentante iraniano nel consiglio direttivo dell’Opec, dice che la guerriglia scatenata in Iraq con la missione suicida al terminale petrolifero di Bassora costa 6 dollari al barile. [6] Blondet: «I traders, ossia i commercianti globali di greggio, calcolano a mezza bocca in un 15%, o fra 5 e 10 dollari al barile, il ”sovrapprezzo della paura”: il costo aggiuntivo determinato dal timore di un’instabilità del Medio Oriente. Per esempio - scenario da incubo - un attentato di bin Laden che interrompa il flusso saudita». [7]
L’Arabia Saudita è il più grande fornitore mondiale di petrolio. Riserve per 260 miliardi di barili, una produzione giornaliera pari all’11 per cento del consumo globale, ha un ruolo fondamentale nell’economia energetica del pianeta. Edward Morse, ex responsabile per l’energia al dipartimento di Stato (il massimo esperto mondiale di politiche petrolifere): «Se si verificasse a breve termine un altro grave attacco contro impianti sauditi le conseguenze sui prezzi sarebbero devastanti. Non è difficile immaginare un raddoppio del prezzo del barile. La cosa più grave è che i terroristi sembrano avere più consapevolezza di questa eventualità dei governanti europei e americani». [8]

Ai terroristi basterebbe colpire la rete di oleodotti. Francesco Manacorda: «L’Arabia Saudita è considerata una sorta di ”banca centrale” del petrolio, visto che con i suoi due milioni di barili quotidiani di produzione interamente destinata a riserve è il paese che più di ogni altro può agire per equilibrare temporanei squilibri di domanda e offerta». [6] Vincent Lauerman, analista del Canadian Energy Research Institute: «Un nuovo attacco terroristico agli impianti petroliferi dell’Arabia Saudita potrebbe portare i prezzi fino a 50 dollari al barile. Il destino del petrolio è purtroppo nei piani del terrorismo. E in questi casi non sarebbero i fondamentali del mercato energetico a condizionare i prezzi, ma il semplice fattore psicologico». [8]

Al Qaeda ha una nuova strategia (vecchia di sei anni). Enrico Cisnetto: «Gli attacchi che ormai si susseguono sugli impianti estrattivi e di trasporto tra l’Iraq e l’Arabia Saudita dimostrano la volontà di far crescere le quotazioni, e d’altra parte la reazione dei mercati ammette che l’Occidente non ha modo d’impedirlo da solo. Bin Laden ha dunque individuato il nostro vero punto debole. Non a caso in un video di sei anni fa lui stesso dichiarava di voler portare il prezzo del greggio a 144 dollari al barile». [9] Marco De Martino: «Il fatto che gli americani abbiano potuto per decenni comprare petrolio a basso prezzo dai paesi del Golfo rappresenta, secondo il leader di Al Qaeda, ”il più grande furto della storia dell’umanità”». [10]

Sembra di essere tornati nel 1973. Anche allora la crescita della domanda di petrolio aveva reso il sistema particolarmente vulnerabile a uno shock improvviso. De Martino: «Nell’ultimo anno i consumi sono cresciuti a una velocità tale da sorprendere i pianificatori della International energy agency costretti a rivedere le proprie previsioni al rialzo per ben cinque volte in meno di sei mesi. Lo scorso novembre si pensava che quest’anno la domanda sarebbe cresciuta di un milione di barili, ora si sa che l’aumento è stato di almeno 2 milioni di barili». Morse: «Allora a spezzare l’equilibrio fu la guerra di Yom Kippur, che portò poi all’embargo. Ora a complicare le cose c’è il fatto che esiste la volontà di colpire il settore». [10]

Fino a quanto può salire il prezzo del petrolio? Blondet: «Negli ambienti bene informati, si parla di 70 dollari a barile. Oltre quella cifra, c’è il temuto punto di rottura: il motore dell’economia mondiale perde giri, consuma meno, e addio profitti». [7] Galapagos: «Di fatto, tutti estraggono e esportano al limite della loro capacità produttiva. Con l’eccezione di Arabia Saudita e Emirati arabi che potrebbero produrre complessivamente un paio di milioni di barili in più. E, in effetti, l’Arabia Saudita sta firmando contratti per fornire molto più petrolio di quanto previsto dalla sua quota Opec. Insomma, siamo vicino alla possibilità di espansione dell’offerta. Perché produrre più petrolio non è come aprire un rubinetto, ma servono investimenti costosissimi dell’ordine dei miliardi e miliardi di dollari». [11]

The end of cheap oil. La fine del petrolio a buon mercato, così titola in copertina l’ultimo ”National Geographic”. Robert K. Kaufmann (Boston University) spiega che prima o poi l’offerta mondiale dell’oro nero raggiungerà il suo picco. Tutto sta vedere quando. David Greene (Oak Ridge National Laboratory) punta sul 2016, ma aggiunge che fuori dal Medio Oriente il tetto verrà toccato già nel 2006. Gli Stati Uniti raggiunsero il loro massimo negli anni Settanta, ma si salvarono con le importazioni. Quando il problema diventerà mondiale, ci sarà poco da fare. Si potranno usare diversi metodi d’estrazione, ma questo avrà dei costi, ambientali ed economici. [12]

Il petrolio sta per finire. Lo dicevano già nel 1860. Burkhard: «Si pensava che non ce ne fosse al di fuori della Pennsylvania, dove stava nascendo l’industria petrolifera. Anche nel 1919 il governo statunitense fu messo sottosopra dal timore che i giacimenti di petrolio si potessero esaurire. A quell’epoca gli Stati Uniti producevano quasi un milione di barili il giorno, oggi ne producono oltre nove. una paura che emerge ciclicamente, particolarmente quando aumentano i prezzi. Noi siamo invece convinti che la produzione possa incrementare fino all’anno 2020. La questione centrale non è l’esistenza di nuovi giacimenti, ma piuttosto la capacità dell’industria petrolifera di investire saggiamente i propri capitali per trivellare nei Paesi dove questi giacimenti si trovano». [5]

Il problema energetico ha risvolti geopolitici. Galapagos: «Bush ha dichiarato che gli Usa hanno diritto a tutta l’energia di cui hanno bisogno. Per averla l’impero si comporta da impero: la guerra irachena (là dove sono localizzati i più grandi giacimenti di petrolio), l’Afghanistan (i corridoi del petrolio), la politica spregiudicata verso la Nigeria, l’atteggiamento ambiguo in Venezuela, per limitarci ai casi più eclatanti, sono il segnale di cosa intenda Bush con lo slogan ”esportare la democrazia”». [11] Lepri: «La guerra in Iraq era stata preceduta da una veemente battaglia delle idee: si tratta di una guerra per il petrolio o no? A tredici mesi dalla presa di Baghdad, la conclusione può essere salomonica: lo fosse o non lo fosse, per il petrolio è andata male». [11]

L’Occidente deve rinsaldare i rapporti con i paesi arabi moderati. Cisnetto: «Se in pochi, tra i paesi islamici, potevano condividere i metodi di ”esportazione della democrazia” di George Bush, molti di loro devono riconoscere che sono vittime e bersagli di questa nuova strategia tanto quanto l’Occidente. Anche se il prezzo del greggio sale, i paesi produttori più colpiti non ne potranno usufruire se crescono i costi di sicurezza e si riduce la loro capacità estrattiva. Quindi i margini per negoziare ci sono, lo stesso cartello dell’Opec ha imparato da tempo a puntare più su un flusso costante di vendite che sulle impennate speculative del prezzo». [9]

Usa e Cina guardano altrove. Federico Sallusti: «Si rivolgono ai produttori africani, cercando di chiudere accordi commerciali di rifornimento di greggio. Notizia recente è la conclusione di un accordo fra Usa ed Angola per rinnovare la concessione (alla Chevron-Texaco) di un sito petrolifero capace di 400 mila barili al giorno. Segnatamente, il presidente angolano Dos Santos ha ricevuto la benedizione di Bush alla propria ricandidatura alle prossime elezioni, mentre il paese africano sta negoziando con Fmi e banca mondiale il sostegno alla ricostruzione post guerra civile». [12]

C’è chi dal rincaro ci guadagna, ovviamente. Blondet: «Le famose Sorelle: Exxon, BP, Shell, Total Chevron. Basta dir questo: le multinazionali del greggio dispongono di giacimenti in cui l’estrazione costa 3-5 dollari il barile. Ogni rincaro sul mercato accresce per loro una vistosa ”cresta” di profitti. Inoltre, diventano convenienti campi petroliferi il cui costo di estrazione era, prima, proibitivo. Le grandi compagnie stanno facendo cassa al ritmo di miliardi di dollari, ricostituendo capitali, e approfittando per ingigantirsi ancor più». [7]

Le compagnie petrolifere nel 2003 hanno quasi decuplicato gli utili. Secondo la Foundation for Taxpayer and Consumer Rights (Ftcr) di Santa Barbara i profitti delle cinque maggiori compagnie petrolifere sarebbero aumentati l’anno scorso del 926 per cento. Wesley Ralston, analista della Howard Weil Labouisse: «Le case petrolifere stanno avendo un anno fenomenale. E c’è spazio per una crescita addizionale di un altro 10-15 per cento». Nei primi due mesi del 2004 il Crack Spread, la differenza tra il costo del materiale greggio e quello al quale si piazza il raffinato, s’è attestato in media sui 7 dollari il barile contro i 3,75 degli ultimi 5 anni. Andrew Fairbanks, analista della Merrill Lynch: «Dopo vent’anni di ritorni insoddisfacenti l’industria petrolifera è entrata in un ciclo di crescita di portata secolare». Jamie Court, presidente della Ftcr: «Quando i profitti giungono alle stelle in sincronia coi prezzi al consumo, la manipolazione dei prezzi è l’unica spiegazione». [13]

Nel «gioco petrolifero» c’è un elemento che con astuta ipocrisia noi occidentali evitiamo di citare. Galli: «Quei 40 dollari al barile che hanno fatto suonare il campanello d’allarme, cosa rappresentano rispetto al prezzo finale pagato da aziende e consumatori? Ben poco, visto che i vari balzelli successivi lo riducono attorno a un 15-18 per cento. E il resto? Il resto va alle Compagnie petrolifere, con raffinazione e distribuzione. In parte comprensibile, considerando le spese per la ricerca. Ma il grosso della torta, e va detto, finisce agli Stati. Al più al meno, naturalmente: in Usa, le imposte incidono mediamente per il 30 per cento sul prezzo finale; in Italia, per la benzina, oltre i tre quarti». [2] Mario Deaglio: «Dal caro-petrolio i governi europei guadagnano più degli sceicchi: siccome il petrolio in Europa è supertassato, per ogni euro che gli aumenti portano nelle casse dei Paesi produttori e delle compagnie petrolifere, i governi europei registrano, in assenza di correttivi, un aumento delle entrate di 3-4 euro». [14]

Sono davvero esosi i produttori? O non sono da mettere in discussione anche le politiche dei nostri Stati? Galli: «Basterebbe ricondurre alla ragionevolezza il prelievo fiscale e gli allarmi in parte rientrerebbero. Invece, innanzi alla sostanziale incapacità dell’Occidente a mettere sotto controllo i propri comportamenti - pubblici (le imposte) e privati (i consumi) - si risponde con spregiudicate operazioni di politica estera. Non a caso, nelle Cancellerie, si vocifera d’un accordo sottobanco Usa-Russia per sottrarre alla galassia arabo-islamista il quasi monopolio petrolifero e nel contempo porre a disposizione dell’Occidente le immense risorse dell’ex impero sovietico. A patto di poter transitare con gli oleodotti in Cecenia e Georgia. Avremo così la Pax petroli». [2]