Giancarlo Dotto L’espresso, 20/05/2004, 20 maggio 2004
Solo il calcio sa svegliare quel timidone del principe, L’espresso, 20/05/2004 Se lo mangiano con gli occhi gli ultras monegaschi il loro leader, Sua Altezza, il non sempre Serenissimo ma certo Timidissimo Principe Alberto di Monaco, erede al trono, che balla e zompa come un derviscio nel palco reale del Louis II, ogni volta che la squadra del cuore bastona i madrileni o umilia i londinesi e aggiunge pezzi di favola alla favola che da queste parti è permanente
Solo il calcio sa svegliare quel timidone del principe, L’espresso, 20/05/2004 Se lo mangiano con gli occhi gli ultras monegaschi il loro leader, Sua Altezza, il non sempre Serenissimo ma certo Timidissimo Principe Alberto di Monaco, erede al trono, che balla e zompa come un derviscio nel palco reale del Louis II, ogni volta che la squadra del cuore bastona i madrileni o umilia i londinesi e aggiunge pezzi di favola alla favola che da queste parti è permanente. Balla e zompa per due, anche per il più statico papà Ranieri, 80 anni e acciacchi sparsi, che esulta più interiore con la poco principesca sciarpa biancorossa che qualcuno gli ha messo al principesco collo. Quando si tratta di calcio, Alberto non bada all’etichetta. Ha baciato con enfasi un grasso e sudato Maradona venuto a Montecarlo a posare l’impronta del suo piede mancino al ”Walk of Fame” del calcio mondiale e non ha paura, ancora oggi, di mettersi in mutande quando si tratta di tirare due calci, da capitano si capisce, nel suo team amatoriale, i Barbajuan, vecchie glorie messe insieme per sollazzare la vanità bipede del principe, sfidanti eletti i piloti Schumacher e Fisichella. Chi lo vede giura che, da calciatore, il principe non è meno verosimile del suo amico Gheddafi jr, Al Saadi, che qui è di casa, soprattutto di discoteca, quando non ha gli attacchi di appendicite e i crampi di acido lattico. Non disdegna neppure il bagno di folla, Alberto, anzi lo pregusta, se sarà, d’impugnare la Coppa con le Grandi Orecchie a Gelsenkirchen, mercoledi 26 maggio contro il Porto, la prima volta nella storia del Monaco. Che delle due molto improbabili finaliste era la più improbabile, almeno secondo i bookmakers che la quotavano 80 a 1 a settembre. La febbre c’è, ma non si vede. Per toccarla con mano bisogna strappare il cellophane che avvolge i confini di questo mondo a sé, dove ti senti un teppista se ti scappa uno sternuto appena più rumoroso. Bisogna entrare nella fitta concitazione delle case e dei locali, là dove si prepara nei minimi dettagli la spedizione verso quel mistero geografico e concettuale che è la Ruhr. Un esercito in marcia. Un sostegno popolare senza precedenti. «Non si era mai vista a Montecarlo la gente lungo le strade ad aspettare il pullman dei giocatori», si commuove Raymond Gnutti, presidente veterano dei supporter monegaschi. Sono tollerate nel Principato manifestazioni di folla lievemente scomposte solo in occasione del Gran Premio di Formula Uno. Per il resto, il tifo esibito al di fuori dello stadio resta una bestemmia nella calligrafia di questo set finto per milionari veri, dove i meno abbienti possono comunque comprarsi una Bentley di seconda mano per 300 mila euro, tra quelle esposte lungo la Plage, dove se pesti la cacca di un cane sai che si tratta di un cane da almeno 10 mila euro, ma se ti azzardi a fare per strada un’intervista senza autorizzazione c’è la polizia che piomba tre secondi dopo, con il foglio di via in mano. Ci sono voluti prima l’esagerato 8 a 3 al Deportivo e poi le imprese blasfeme con il Real Madrid con il ”Chelski” dello zar Abramovitch, 37 mila 132 inglesi zittiti allo Stanford Bridge, per liberare la trasgressione del tifo e fare di Montecarlo un paesone da schiamazzo e sagra, berline molto plebee, scooter, trombe e clacson, tra la Rocca e la Condamine, lungo rue Grimaldi e la piazza del Casinò, davanti all’austero Rascasse, il bar degli inglesi ricchi, ultras scamiciati confusi alle Ferrari rosse e alle top model stanziali che qui sfilano a passo felpato dal tramonto in poi, fantasmi del glamour che sbucano all’improvviso e ti lasciano senza fiato a ogni angolo. Nella mischia del tifo si aggiungono gli italiani di qui, monegaschi di residenza o di adozione, quelli che senza calcio non ci sanno stare. Max, il concierge del Mirabeau, torinese e tifoso del Monaco; Alfredo, romano, che serve le amatriciane ai tavoli del suo Sfizio con la maglia del Monaco addosso. I più fegatosi vengono dalla provincia, da Menton o da Nizza. Sono quelli che allo stadio gridano «Daghe Munagu», il dialetto dei vecchi di una volta e di una costa, quando era più ligure che francese. Hanno cominciato, se non ad amarlo, almeno a rispettarlo il Monaco, persino i francesi che da sempre biascicano veleno contro questo club considerato, con i suoi vantaggi fiscali e lo statuto speciale, un fenomeno a parte nel loro football. L’associazione sportiva Monaco è da 80 anni il tuffo al cuore della famiglia Grimaldi. «Una famiglia allargata», come la chiama il suo primo supporter e patron, Albert, Le Prince Héréditaire per definizione e probabile condanna. Sarà forse, se sarà, l’impresa del Monaco a farlo uscire questo eterno ragazzo, non meno eterno erede, a 46 anni, dalla penombra mediatica in cui lo costringono da sempre le due ingombranti sorelle, Caroline e Stéphanie, che continuano a prendersi le copertine dei giornali, anche se è lui, il fratello, a darsi un gran daffare, dentro e fuori lo smoking, tra viaggi, funerali, cerimonie, presunte mogli e tutto quanto non basta per zittire i rumori che accreditano ora la sua omosessualità, ora la sua santità, ora la sudditanza psicologica nei confronti del padre e di Caroline, che resta la preferita di Ranieri e, qualcuno dice, anche la sua erede in pectore. Aspettando che sia il suo giocattolo preferito a rendergli giustizia, ”Albert le patient” pazienta, come tutti gli eredi al trono che per esistere davvero debbono aspettare che a smettere di esistere sia il genitore incoronato. Cresce, invecchia, cerca moglie e cerca soprattutto di smentirlo questo padre padrone che di questo suo figlio, tutto sussurri e rossori, dice da sempre che è un ragazzo d’oro ma «troppo gentile» e «incapace di dire no», un limite inaccettabile per uno chiamato a gestire una fiaba così impegnativa come quella del Principato. Sta di fatto che Alberto stupisce se stesso, il padre e il mondo, uscendo allo scoperto come stratega e randellatore quando si tratta di salvare il club già retrocesso dalle istituzioni francesi del calcio e affogato nei debiti, 53 milioni di euro quelli ufficiali. Prima mossa, la liquidazione del dinosauro, Jean Louis Campora, amico di famiglia e presidente da 28 anni del Monaco. Al suo posto Pierre Svara, 46 anni, esperto di amministrazione e finanza, che è riuscito nell’impresa di ridurre i costi e tenere il club competitivo. Seconda mossa, decisiva, il coinvolgimento di nuovi investitori. Michel Pastor su tutti, l’imprenditore che ha ricostruito da cima a fondo Montecarlo negli ultimi trent’anni, una fortuna stimata tra le quattro, cinque più importanti d’Europa. è lui l’uomo forte della Monaco Football Investissement, la new company che ha salvato il club dal fallimento, sborsando subito 30 milioni di euro, e che ha da poco rilevato la maggioranza delle quote. Ci sono anche les italiens nel miracolo del Monaco calcio. I capitali di Marco Piccinini, socio insieme a Pastor e a Adnan Houdrouge della Mfi, banchiere con interessi a Monaco e già team manager della Ferrari in Formula Uno. Le mani di Flavio Roma, il portiere nato e cresciuto a Cinecittà, scartato dal calcio italiano e amato dalle gazzette francesi che con lui si lasciano andare a sfrenati calembour, a partire dall’abusatssimo ”Roma Capital”. Nella sua caccia a copertina e investitori, Prince Albert ha trovato due alleati fondamentali. Didier Deschamps, l’allenatore, un basco ferrigno, quando di più lontano dai profili snob di Montecarlo, con quel suo inseparabile soprabito di pelle nera da serial killer e la cresta elettrificata dal gel, ma che sa coccolare e strigliare e ha importato soprattutto da Torino la «cultura della vittoria». Uno che non ci ha pensato due volte a sfrattare dalla rosa campioni logori o capricciosi, a partire da Marco Simone, l’emblema degli sprechi e della gestione dissennata di Campora, con il suo contratto da 300 mila euro netti al mese. L’altro talismano del principe è Fernando Morientes, ”il Moro”, adulato qui come un semidio che parla la lingua di Cervantes e resta appeso in aria a trasformare palloni volanti in orgasmi da stadio. Viene dai lombi nobili del Real, che continua a pagare il 70 per cento del suo ingaggio annuale, 4,5 milioni di euro l’anno, ma ora se lo vuole riprendere. Tutti gli altri, a partire da Jerome Rothen e Ludovic Giuly, i più amati dalla gente, hanno dovuto leggere il giorno dopo le pagine speciali del ”Monaco-Matin” e guardare la televisione per convincersi di aver davvero battuto prima Galàcticos e poi i Blues. In finale di Champions, dieci mesi dopo aver sfiorato la bancarotta. Alberto intanto non si ferma. Annuncia nuovi sponsor e nuovi investimenti. Anche perché i debiti del Monaco, accumulati tra il 2000 e il 2003, restano ingenti. Non basta una stagione per smaltirli e ci sono sempre al varco i controlli della Direction Nationale de Contròle de Gestion, i cani da guardia delle finanze nel calcio. cresciuta del 40 per cento l’affluenza allo stadio di Fontvieille, costruito sotto il palazzo rosa dei principi. Una sciccheria, tre livelli, piscina, campi di squash e basket, sauna, da 18 mila 500 posti contro le 80 mila richieste degli ultimi eventi. La grande frustrazione di non aver potuto capitalizzare i match della vita. E un rimpianto. In quel palco regale manca solo lei, Grace Kelly. Giancarlo Dotto