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 2004  maggio 13 Giovedì calendario

Che fine hanno fatto i GI d’una volta? Corriere della Sera, 13/05/2004 No, non c’erano torturatori tra i soldati americani che il 4 giugno del 1944, risalendo la via Appia, entrarono finalmente a Roma, prima capitale liberata nell’Europa dell’Asse

Che fine hanno fatto i GI d’una volta? Corriere della Sera, 13/05/2004 No, non c’erano torturatori tra i soldati americani che il 4 giugno del 1944, risalendo la via Appia, entrarono finalmente a Roma, prima capitale liberata nell’Europa dell’Asse. Quei soldati portavano, è vero, le stesse insegne degli attuali sgherri della prigione di Abu Ghraib, ma era, il loro, un altro esercito. Scontato il disgusto per quanto accaduto in Iraq, è anche su questa diversità che forse dovrebbe fermarsi oggi la nostra attenzione: per capirne i motivi e dunque per capire che cosa sta diventando oggi, in Occidente, lo strumento militare, e quale sia, di conseguenza, il probabile destino che incombe su tutto ciò che esso tradizionalmente incarnava. Di quell’esercito che sessant’anni fa ci portò alla libertà, e di cui tra poche settimane ricorderemo l’arrivo, ci colpirono subito tre cose: il tratto disinibito e cordiale dei suoi uomini, senza distinzione di rango; la prodigiosa ricchezza dell’intendenza, vera cornucopia di ogni bendiddio (dalle uova in polvere alla penicillina alle calze di nylon); e infine la quantità di occasioni culturali e d’intrattenimento che facevano da contorno alla sua presenza: i film, i libri, i giornali, le trasmissioni radio, i cicli di conferenze, i circoli per soldati, ai quali anche la popolazione del Paese vinto (spesso anzi essa per prima) ebbe immediato e largo accesso. Per noi l’America fu subito ognuna di quelle tre cose, e tale essa è rimasta e forse rimarrà per sempre, inafferrabile e struggente come il richiamo della libertà. Ma di quelle tre cose, così vive nella nostra memoria e legate alla presenza dell’esercito a stelle e strisce, in Iraq non abbiamo visto neppure la più pallida ombra. Neppure i primi giorni abbiamo visto per le vie di Bagdad soldati che non fossero in assetto di guerra, banchetti coperti di pacchetti di sigarette americane o ragazzini con la bocca sporca di cioccolato made in Usa. Neppure nei primi giorni ci è giunta l’eco d’una conferenza, di uno spettacolo cinematografico organizzati da una rediviva Psychological Warfare Branch. Abbiamo l’impressione che sia un altro esercito da quello che conoscevamo l’esercito degli Stati Uniti che si trova laggiù: sembra un esercito fatto solo per il combattimento, per vincere la guerra e basta, che ha rinunciato, non sa o non può più essere, lo specchio del suo grande Paese. Gli esperti ci dicono che ormai la sua intendenza è ridotta a ben poca cosa perché tutto è dato in appalto in outsourcing, che il numero dei suoi effettivi deve essere ridotto all’osso perché in un esercito di mestiere ogni uomo costa molto e d’altra parte l’opinione pubblica non sopporta un numero eccessivo di soldati sotto le armi, che un esercito del genere non può permettersi certo di reclutare professori universitari o bibliotecari da adibire a conferenze o alla circolazione di giornali. così, non lo metto in dubbio, e la tendenza riguarda più o meno tutto l’Occidente. Ma è proprio così, per l’appunto, rinunciando alla leva, trattando le forze armate come una qualunque azienda che ”produce sicurezza” al minimo costo possibile, teorizzando di conseguenza la guerra come pura tecnica di impiego della forza, è in questo modo che lo strumento militare rischia nei nostri Paesi di perdere, insieme alla rappresentatività nazionale, anche la propria anima. Rischia, come sta succedendo agli eredi di Omaha Beach e di Guadalcanal, di consegnare il proprio onore nelle mani di aguzzini semianalfabeti guidati da gelidi esperti di intelligence. E magari, per suprema beffa, di essere alla fine sconfitto dopo aver vinto tutte le battaglie. Ernesto Galli Della Loggia