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 2004  maggio 08 Sabato calendario

Nuova Kabul, nuovo censore: il talebano sbarbato, Ventiquattro, 08/05/2004 A passo veloce le donne di Kabul si avviano alle loro occupazioni

Nuova Kabul, nuovo censore: il talebano sbarbato, Ventiquattro, 08/05/2004 A passo veloce le donne di Kabul si avviano alle loro occupazioni. Velate dalla testa ai piedi somigliano a fantasmi blu fluttuanti. Alcune azzardano scarpe con il tacco alto, altre fanno scorgere sotto il burqa l’orlo dei pantaloni. Ma sono davvero poche quelle che osano uscire soltanto con il foulard o il velo: e queste affrontano la strada rapide come le figure di una pellicola accelerata. Passano davanti ai soldati di guardia ai ministeri nascondendo lo sguardo a occhi severi che li scrutano sotto il kepì. Uomini e ragazzi fendono le piazze suonando all’impazzata i campanelli delle biciclette, gridano, ridono, si abbracciano, alzano la voce nelle contrattazioni del bazar. Lo spazio pubblico appartiene agli uomini: la strada, il mercato, sono cosa loro, non delle donne di Kabul. Taiba, una giovane istruita e piena d’energia, lavora per l’organizzazione ”Terres des Hommes”. Il suo compito è di fare visita a tutte le donne a cui è impedito di uscire di casa. Da qualche tempo Taiba ha ripreso a indossare il burqa, e per una buona ragione: sui muri di Kabul sono comparsi scritte e manifesti che avvertono le donne di mostrarsi in pubblico velate dalla testa ai piedi. Chi sono questi nuovi guardiani della morale? Si firmano ”mujaheddin dell’Afghanistan” ma è difficile dire chi si nasconde dietro questa definizione generica. Possono essere gli abitanti di un quartiere, oppure le milizie schierate agli angoli delle vie o, ancora, le ”forze di sicurezza”, formate dagli ex combattenti nella guerra contro i russi calati dal Nord. Ma una cosa è certa: le donne afghane che mostrano il foro volto in pubblico si espongono a insulti e minacce. Nella capitale, e ancora di più nelle altre città afghane, le piccole libertà conquistate dopo la caduta dei regime dei talebani sono di nuovo messe in discussione. Anche il Governo dei presidente Hamid Karzai è responsabile di questa situazione: per compiacere i donatori occidentali ufficialmente afferma di difendere i diritti dell’altro sesso ma gli ultra-conservatori stanno facendo valere il loro punto di vista per imporre alle donne «la morale dei costumi». Il famigerato ministero per la Promozione della virtù e la soppressione dei vizi istituito dai talebani ha trovato un erede nel Dipartimento delle istruzioni islamiche che, da più di un anno, ha il compito di ricordare alle donne come ci si veste secondo la legge coranica. I dipendenti del Dipartimento avvicinano per strada quelle che secondo i loro parametri non sono correttamente vestite e le esortano con qualche rudezza ad adeguarsi al codice. Al setaccio della morale passano mantelli, gonne, foulard e maquillage: niente di tutto questo, naturalmente, corrisponde al codice e i guardiani si spingono a chiedere l’intervento della famiglia o del marito per ricondurle sulla retta via. Non c’è da stupirsi che molte donne, per evitare fastidi, fuori e a casa, siano tornate al burqa. «Questi sono i nuovi talebani dal volto sorridente», dice con tono sconsolato Rina Amiri, che collabora alla missione d’assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama). Ma qual è la differenza tra il passato e il presente? «I vecchi talebani per imporre il loro codice non esitavano a usare la frusta e il bastone», dice Rina Amiri. Ma le donne afghane dell’Onu non pensano che in questo ritorno della morale islamica e dei costumi tradizionali ci sia un piano concertato: ritengono che, più in generale, si stia manifestando una mobilitazione delle forze conservatrici sempre presenti, e a volte dominanti, nella società. «In Afghanistan - sottolinea Rina Amiri - la condizione femminile ha sempre rappresentato un campo di battaglia: conservatori e progressisti si impadroniscono dell’argomento che poi diventa strumento di lotta politica». Eppure per le donne di Kabul dopo la caduta dei talebani si sono aperti nuovi spazi: sono tornate a lavorare e a studiare, molte hanno la libertà di uscire, di frequentare corsi di musica o d’arte. Sotto i talebani le ragazze, dopo una rozza infarinatura alle scuole primarie, se volevano continuare gli studi erano costrette a seguire in casa corsi clandestini. Adesso per loro, come per gli uomini ovviamente, ci sono possibilità di informazione e comunicazione prima impensabili: Internet center a basso costo, telefonini (che funzionano solo a Kabul), antenne satellitari per la tv, che un tempo era un oggetto proibito, conservato nelle cantine come un soprammobile inutile, simbolo di un’era perduta. A Kabul, insieme con i giornali, sono tornati sugli scaffali anche i libri, di ogni genere. Non si può dimenticare che in una fredda giornata del novembre 1999 la città fu illuminata per molte ore da un immane falò: la polizia religiosa dei talebani bruciò in un rogo tutti i volumi con immagini di esseri viventi, che fossero uomini o animali. Ai talebani non piaceva chi amava le immagini, i libri, la scultura, la musica, il ballo, i film e il libero pensiero. Per questo, oggi le donne che nei laboratori tornano a decorare, dipingere o soltanto ad apprezzare l’antica cultura afghana, un incrocio di flussi millenari, non solo vivono un’esperienza personale fondamentale ma rappresentano anche una parte importante della ricostruzione, civile e culturale. In un mondo cupo, in bianco e nero, sono tornati almeno i colori dell’anima. Ma se l’abbigliamento delle donne è il barometro dell’atmosfera che si respira a Kabul, un fattore ancora più importante dei burqa è la sicurezza. Le lotte feroci tra i capi dei clan e l’assenza totale del potere centrale nelle province hanno un riflesso drammatico sulla vita delle donne afghane e delle minoranze. Fuori dalla capitale nessuno rispetta le leggi del Governo e le donne vengono minacciate anche quando rivendicano i loro diritti fondamentali. A Herat, dove il capo è Ismail Khan, che si fa chiamare l’Emiro dei sud-ovest, la lista dei divieti è lunga. Sono proibiti i concerti e l’alcol, le porte dei cinema della città sono sbarrate e rimangono in vigore le proibizioni dell’era talebana. Le donne non possono partecipare a corsi privati in cui gli insegnanti sono uomini; è vietato, a tutti, invitare stranieri a casa. E se le ragazze sono tornate al lavoro, quasi nessuna ha abbandonato il chadri, cioè il burqa. La presenza delle organizzazioni internazionali, quando non è utile a battere cassa, è vista male: le autorità locali non esitano a imputare agli stranieri «l’aumento dei prezzi e la corruzione dei costumi». In realtà la ricostruzione dell’Afghanistan è cominciata da un pezzo ma non ha superato i confini di Kabul. In una situazione economica precaria, dove continuano i combattimenti ed è ripresa in grande stile la coltura dell’oppio, manca la sicurezza e gli afghani vivono secondo i metodi antichi: per sopravvivere la maggior parte delle famiglie povere ricorre alla tradizione della dote, dando in spose le figlie più giovani per incassare denaro. In molte regioni i talebani sono stati rimpiazzati dai capi locali, in altre sono rimasti al loro posto spuntando le barbe e cambiando i turbanti. «Sono gli stessi di prima ma hanno cambiato cappello», commenta con amara ironia Rina Amiri. Alberto Negri