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 2004  maggio 14 Venerdì calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 17 MAGGIO 2004

L’India è in un vicolo cieco (con o senza l’Italiana).
Le elezioni indiane sono sempre un grande spettacolo politico. Tre settimane di operazioni di voto e di scrutinio, 670 milioni di elettori, 700 mila seggi. [1] Le ultime, è notizia di giovedì, sono state vinte dal Partito del Congresso: i 147 seggi conquistati gli garantiscono la maggioranza relativa, sommando quelli degli alleati (tra gli altri i marxisti del Cpm e il Partito comunista) si arriva a 278, sei in più di quelli necessari per guidare un parlamento di 543 membri. Alleanza democratica nazionale, la coalizione guidata dagli ultrareligiosi hindu del Bharatiya Janata party (Bjp), è scesa da 302 a 184 seggi e dovrà lasciare la guida del Paese. [2] Si tratta di una grande sorpresa: il premier Vajpayee aveva deciso di sciogliere il Parlamento e convocare elezioni anticipate (il suo mandato scadeva a ottobre) convinto di ottenere la maggioranza assoluta. [3]
Il Partito del Congresso è guidato da Sonia Gandhi, nata Maino a Orbassano (Torino) il 9 dicembre 1947. Claudio Gallo: «La sua gioventù - in una normale famiglia piemontese, il padre imprenditore - prende una svolta inconsueta a Cambridge nel 1965, con l’incontro di un giovane indiano schivo, dai modi cortesi e le polo di cachemire. Rajiv Gandhi, rampollo della dinastia Nehru-Gandhi, anche lui in Inghilterra per perfezionare l’inglese. [...] Rajiv era pilota di aerei e detestava la politica: era suo fratello Sanjai il prescelto dalla dinastia. Si sposarono nel 1968, quando Indira era primo ministro. Il primo segno che il destino stava rabbuiandosi fu la morte in un incidente aereo di Sanjai nel 1980». [4]
Quattro anni dopo, Indira Gandhi fu assassinata dalle sue guardie del corpo sikh. Fu la punizione per l’operazione ”Bluestar”, l’irruzione dell’esercito indiano nel Tempio d’Oro di Amristar, il luogo più sacro alla loro religione. Gallo: «Toccava a Rajiv, che prese il posto della madre alla guida del governo. La vita lieta degli anni dopo Cambridge si era sbriciolata: Rajiv era spesso via per gli impegni politici e la loro casa al 10 di Jampath a Delhi pullulava di guardie del corpo. La malasorte dei Gandhi attese paziente altri undici anni, fino al cruciale 1991, quando Rajiv fu ammazzato nel Tamil Nadu da una ragazza in bicicletta che gli offrì una corona di fiori. Era una tigre tamil, una fanatica guerrigliera singalese, imbottita di esplosivo». [4]
Dopo anni di silenzioso dolore, Sonia fu richiamata a gran voce dal Congresso sulla ribalta politica. Gallo: «Il partito non riusciva a vivere senza simboli e lei, con i due figli ancora troppo giovani, era l’erede della dinastia che aveva costruito l’India indipendente. Diventò leader del partito nel 1998 e nel ’99 fu eletta per la prima volta in Parlamento». [4]
La dinastia non è morta, Sonia l’ha salvata. Danilo Taino: «La dinastia politica della famiglia numero uno dell’India era iniziata con il secolo scorso, con Motilal Nehru, un esponente nazionalista, ma prese il volo con suo figlio, Jawaharlal, il Pandit Nehru, collaboratore del Mahatma Gandhi, primo capo del governo il 15 agosto ’47, data dell’indipendenza indiana, primo ministro per 17 anni, nella guerra con il Pakistan (’48) come nella guerra con la Cina (’62). Alla morte di Nehru, nel ’64, fu la figlia Indira, sposata Gandhi (nessuna relazione), a prendere in mano le redini di un partito che la riteneva di facile manipolazione. Si dimostrò, in realtà, uno dei politici più formidabili del Ventesimo Secolo; nonostante molte scelte politiche discutibili, fece del Congresso un’istituzione; e trasformò definitivamente la famiglia in una dinastia politica, odiata e adorata in tutto il subcontinente. [...] questa storia straordinaria che [...] Sonia ha salvato. Se sarà lei la nuova dea della politica indiana, oppure se il suo sarà solo un ruolo di ponte in attesa che i figli Rahul e Priyanka siano pronti per il potere vero, si vedrà». [5]
Una frase che non bisognerebbe scrivere: l’India potrebbe avere un premier italiano. Blondet: «Sonia Maino per prima ha accuratamente cancellato la sua origine (da tempo immemorabile rifiuta interviste a giornali italiani, parla hindi, veste il sari e si segna sulla fronte la tikka, il neo rosso degli indù), per cucirsi con ferrea tenacia una indianità assoluta. I suoi avversari politici non mancano mai di chiamarla ”l’Italiana”. Come spiegare a chi non conosce l’India, il gigantesco continente di Shiva, come suona là quell’aggettivo? ”Italiano”, o comunque ”straniero” (mlekka in hindi) è sinonimo di impuro. Per antonomasia lo ”straniero” non essendo nato in una casta, è estraneo all’ordine sacro, al dharma; la sua presenza è contaminante». [6] Gallo: «Anche il partito che la implorò di schierarsi le ha spesso riservato la malevolenza e l’invidia di vecchi e nuovi mandarini, timorosi di essere messi in ombra dall’’italiana”». [4]
«Si perde e si vince, così è la vita», dice ora Atal Bihari Vajpayee, primo ministro uscente. Raimondo Bultrini: «Il Bjp paga 5 anni di politica economica orientata su una limitata fascia di popolazione già benestante, una classe media che corrisponde al cinque per cento del totale e che ha goduto quasi interamente del processo di modernizzazione in atto nei settori dell’alta tecnologia specialmente informatica e nell’industria. Con il motto elettorale ”India splendente” e l’enfasi sull’India ”Superpotenza”, l’Alleanza del Bjp ha di fatto dimenticato i trecento milioni di poveri che vivono sotto il livello di sussistenza». [2]
Dal 2000 il Paese cresce ogni anno dell’8 per cento. Bruno Crimi: «Circa 250 milioni di persone, un quarto della popolazione, hanno un livello di vita paragonabile, se non a quello dell’Europa dei Quindici, almeno a quello dei dieci paesi che dal 1° maggio fanno parte della Ue. Di questi indiani almeno 50 milioni, il 5 per cento della popolazione, hanno capacità economiche medio-alte o alte, mandano i figli a studiare all’estero, abitano in case costosissime, con una pletora di domestici, vetture di lusso, vacanze d’élite». [7]
Non tutto brilla. L’economista Priful Bidwai: «Questo è un paese il cui reddito pro capite non arriva ancora a 500 dollari, che ha incredibili e vastissime sacche di povertà e che si trova al 127mo posto nell’Indice dello sviluppo umano Onu, un dato che prende in esame il livello di sviluppo delle campagne, l’analfabetismo, il lavoro. Questo è un paese il cui governo non si prende cura di un terzo dei bambini che dovrebbero andare a scuola e non ci vanno anche perché le scuole mancano. Un paese in cui il 40 per cento dei cittadini è analfabeta. Un paese in cui le popolazioni delle aree tribali, 150 milioni di persone, vengono lasciate nel più totale abbandono, con strutture simili a quelle di tre secoli fa». [7]
Le più antiche rivalità indiane sono riemerse in queste elezioni. Rushdie: «La borghesia urbana ha votato in maggioranza a favore del governo, mentre le masse indiane impoverite, specialmente i poveri delle campagne, in gran parte hanno votato contro. La battaglia per la centralità nel dibattito sul futuro del paese è sempre stata, in certo modo, una battaglia tra la città e la campagna: da un lato l’India urbanizzata e industrializzata, privilegiata sia dal socialisteggiante Nehru, sia dagli architetti liberisti dell’India Shining, la nuova India dove una classe capitalista di grande successo ha trasformato il vertice dell’economia; dall’altro lato, l’India contadina dei telai casalinghi, amata dal Mahatma Gandhi». [8]
Il divario tra ricchi e poveri non è mai sembrato grande come oggi. Rushdie: «Non è un caso che l’alleanza di governo abbia perso pesantemente negli stati dell’Andhra Pradesh e del Tamil Nadu, proprio quelli che hanno fatto gli occhi dolci a giganti dell’informatica come Microsoft per convincerli ad aprire bottega da loro, trasformando sonnacchiose ”seconde città” come Madras, Bangalore e Hyderabad in centri del boom tecnologico: perché, mentre i ricchi s’arricchivano, le fortune dei poveri, come i contadini dell’Andhra Pradesh, declinavano anno dopo anno». [8]
Una rivoluzione è in atto. Mimmo Càndito: «La produzione mondiale si sposta verso l’Asia, l’outsourcing (il trasferimento dei sistemi industriali) è una parola che traccia ormai un percorso a senso unico, una strada che dalle antiche metropoli della civiltà tecnologica porta oggi i flussi del lavoro verso le nuove capitali del tempo postindustriale: Pechino, Shanghai, ma anche Bangalore, Hyderabad, Chennai. [...] Era cominciata una decina d’anni fa, forse anche più, quando molte società e industrie dell’Occidente avevano scoperto i vantaggi di poter utilizzare il basso costo del lavoro in India senza dover spostare laggiù i propri centri operativi, e questo grazie alle straordinarie possibilità di collegamento in tempo reale offerto dalle tecnologie elettroniche: così, per esempio, quando ci si collegava con il centralino d’una compagnia aerea internazionale - la prima, pare, fu la Swissair - si parlava con un operatore che, in realtà, non stava lavorando per noi da Zurigo o Ginevra ma da Bangalore, nel Sud dell’India». [9]
L’outsourcing cresce in India a un tasso di quasi il 50 per cento. Càndito: «Oggi un ospedale americano che fa compiere delle analisi cliniche su un suo paziente invia alle 5 del pomeriggio - quando uffici e laboratori in America chiudono i battenti - i dati di quelle cartelle in un centro di software di Bangalore, sfruttando la differenza di fuso orario. Nella notte americana, ma giorno in India, i tecnici e gli strumenti elettronici di Bangalore completano il loro lavoro, e trasferiscono i dati per via elettronica in Usa; alle 9 del mattino, quando il laboratorio dell’ospedale americano riapre, il medico avrà a disposizione immediata i dati sulla salute del paziente. L’ospedale avrà risparmiato una montagna di dollari, e in India un laboratorio di software avrà avuto un incremento di bilancio». [9]
Bangalore è una città di storia antica, con vecchie case e grandi distese di verde. Càndito: «Ma l’India è un continente senza fine, dove i tre quarti della popolazione campano ancora di terra e agricoltura. E se Bangalore celebra i flussi affascinanti della nuova ricchezza, il mondo contadino che gli sta d’attorno ha un reddito che ancora è di 400 dollari l’anno, meno della metà di quello cinese, una inezia misera di quello americano. L’outsourcing produce ricchezza ma comincia anche a generare problemi (di concorrenza, di organizzazione), in un ecosistema segnato da squilibri drammatici, di povertà medioevale accanto a forme consumistiche da società affluente». [9]
Su un miliardo di indiani, due terzi vivono nelle campagne. Maurizio Ricci: «Rispetto a dieci anni fa, la situazione è migliorata: allora un indiano su tre galleggiava sul tormento quotidiano della fame, oggi siamo ad uno su quattro. Ma il prezzo è un aumento delle ineguaglianze: in questi anni, la capacità di spesa delle famiglie contadine degli stati poveri del Nord e dell’Est è rimasta uguale, mentre è cresciuta del 20-30 per cento nelle città degli stati ricchi del Sud e dell’Ovest». [10]
Il settore high tech cresce ogni anno del 30 per cento. Ricci: «L’industria informatica indiana brilla di luce viva, ma occupa oggi, in tutto, 770 mila persone. L’associazione di categoria, la Nasscom, prevede 2 milioni di addetti nel 2008, più 2 milioni di occupati indiretti: una goccia, nel mare di una forza lavoro di 450 milioni di persone. Se le prospettive della tecnologia indiana, insomma, sono brillanti, il nodo sta, però, altrove». [10]
L’India deve crescere almeno dell’8 per cento l’anno. Glielo impongono i ritmi a cui cresce la sua popolazione. Le stime prevedono che nei prossimi 30 anni la media sarà del 5. Ricci: «Per mettere in moto il pesante elefante indiano, il punto numero uno, come dimostra l’impatto del monsone, è l’agricoltura. L’imperativo, insomma, è aumentare la produttività dell’agricoltura. Ma questo significa alleggerire l’enorme popolazione che grava sulle campagne. Per mandarla dove? L’anomalia indiana è, paradossalmente, nella modernità che sta assumendo la sua economia. Quest’anno, per la prima volta, il settore dei servizi ha scavalcato il 50 per cento dell’economia: agricoltura e industria si spartiscono a metà il resto. un inedito nella storia dello sviluppo e non è necessariamente una buona notizia. Per l’ortodossia economica, questo nocciolo ultramoderno di high tech e industrie snelle all’interno del corpaccione di una economia prigioniera di un’agricoltura arretrata, è un vicolo cieco». [10]
La Borsa di Bombay non ha gradito il successo del Congresso. Ripresasi dallo stupore per il verdetto delle urne, venerdì ha perso il 6 per cento. Taino: « subito arrivato il momento, insomma, in cui a votare sono i mercati: e per ora vanno dalla parte opposta degli elettori. A far passare un brivido nella spina dorsale di ogni investitore è stata una dichiarazione di Prakash Karat, un membro importante del Partito Comunista indiano, una delle formazioni che saranno decisive nel sostegno al governo che il partito del Congresso e Sonia stanno cercando di formare. ”Il ministero delle privatizzazioni - ha detto Karat - non è più necessario”». Il Congresso, per parte sua, sostiene che continuerà a privatizzare, ma ”selettivamente”, cioè vendendo solo le imprese pubbliche che non fanno profitti. [11]
L’India è a un incrocio importante. Goldman Sachs aveva sostenuto, in uno studio, che la crescita indiana fondata sull’hi-tech, aveva per molti versi basi più solide di quella cinese, troppo legata alla manifattura e poco ai servizi. La società di consulenza, At Kearney, aveva messo l’India in testa alla classifica dei luoghi in cui, per un’impresa occidentale, è più conveniente decentrare le attività. Taino: «Ora, queste certezze scricchiolano». [11]