Gabriele Romagnoli la Repubblica, 06/05/2004, 6 maggio 2004
L’Iraq di oggi somiglia al Libano anni Ottanta, la Repubblica, 06/05/2004 Beirut. Era già tutto successo: la guerra, l’occupazione straniera, le milizie religiose, gli attentati
L’Iraq di oggi somiglia al Libano anni Ottanta, la Repubblica, 06/05/2004 Beirut. Era già tutto successo: la guerra, l’occupazione straniera, le milizie religiose, gli attentati. E poi, inevitabilmente, gli stranieri presi in ostaggio, i filmati, i comunicati, i ricatti, le torture, i lieti fini e quelli tragici. La fine è ignota, il percorso no. Basta tornare al Libano degli Anni Ottanta. Basta rileggersi le cronache di allora, sfogliare il libro di Robert Fisk Pity the nation e ascoltare i racconti di chi c’era. Salgo su un taxi per andare da un’amica che può testimoniare: l’autista mi dice di essere stato rapito due volte, da bande diverse; la mia ospite mi parla di quando presero suo padre, ma fu un sequestro lampo, grazie all’intercessione dell’attuale presidente Lahud; non fece in tempo a interessarsene neppure l’Associated Press, nella cui sede avevano appeso al muro la «Lista»: nome, professione, breve biografia, data e luogo del rapimento, contatti successivi. Se qualcuno era rilasciato, lo cancellavano. Se era ucciso, lo cancellavano. I nuovi erano aggiunti sul fondo. L’ordine alfabetico era stato tenuto solo all’inizio, poi la Lista era diventata troppo lunga. In testa c’era sempre Anderson Terry, americano. Di quella redazione era stato il capo. Il suo fu il sequestro più lungo (oltre sei anni). Mentre lui era imprigionato, sua figlia nasceva, suo padre e suo fratello morivano, altri ostaggi venivano ammazzati, qualcuno era liberato e non gli era concesso di saperlo per poter concretamente sperare. Era già tutto successo in quegli anni e in quel Libano che, molto più del Vietnam, fu inutile palestra di un futuro chiamato Iraq: passo per passo. La strategia. Proprio Terry Anderson, insieme con Robert Fisk, intervistò il 27 ottobre del 1983 un uomo di nome Hussein Mussawi. Ex vice-presidente della milizia sciita Amal, espulso per motivi politici, sarebbe poi confluito nel movimento rivale, Hezbollah. Mussawi disse che era dovere di ogni musulmano ripagare il male con il male e colpire tutti gli stranieri che avevano ucciso musulmani, distrutto la loro casa o occupato la loro terra. Poi aggiunse questa frase: «Se tutti gli amanti della pace nel mondo davvero vogliono vivere senza problemi con i musulmani, la loro sola e unica possibilità è far pressione sui governi perché ritirino le forze di occupazione». La differenza. Nel linguaggio della comunicazione durante la guerra in Libano gli occidentali rapiti dalle milizie erano chiamati «ostaggi», mentre gli sciiti imprigionati dagli israeliani nel sud del Paese erano semplicemente prigionieri. Circolarono accuse di torture nei confronti degli uni e degli altri. Vennero comprovate. «Prigionieri» rilasciati confermarono l’uso di apparecchi elettrici applicati ai genitali, di uomini e donne. Lo stesso fecero molti «ostaggi». Alcuni tra i reporter cominciarono a dubitare della sfumatura linguistica. Terry Anderson scrisse una circolare ai suoi reporter proibendo l’uso del termine «terroristi». Poi venne rapito. Nel comunicato successivo al suo sequestro si sosteneva che tutti gli stranieri sarebbero stati considerati «spie», senza distinzione. La trattativa. Chiesero la liberazione di 17 combattenti islamici detenuti in Kuwait per attentati contro ambasciate occidentali. Inviarono filmati in cui i prigionieri comparivano in abiti locali, con le barbe lunghe. Nel primo, Terry Anderson non aveva più gli occhiali. «Stanno libanizzandolo», commentarono i suoi amici. In foto successive portava lenti appartenute a William Buckley, il capo della Cia a Beirut, rapito e ucciso sotto tortura, che lui stesso aveva portato, cadavere, alla sepoltura. Ci furono inutili tentativi di comprare gli ostaggi. La famiglia del bibliotecario americano Peter Kilburn raccolse migliaia di dollari per farlo uscire da 17 mesi di isolamento, ma gli agenti libici offrirono di più e acquistarono il diritto di giustiziarlo. Ci furono foto e video dei morti, anche di quelli (come il francese Michel Seura) che lo erano stati per cause naturali (cancro) durante la detenzione. Fu una controllata altalena di false speranze e rinnovate paure in cui far oscillare i governi occidentali e le famiglie dei sequestrati. La moglie di Terry Anderson, dopo quattro anni di attesa, chiese a Robert Fisk: «Pensi che quando uscirà mi amerà ancora?». Scaramantica, non disse mai «se». La fermezza. Nell’ottobre del 1985 vennero sequestrati tre diplomatici sovietici. La reponsabilità fu attribuita a un gruppo fondamentalista sunnita che cercava di ricattare così il Cremlino per influire sulla Siria e fermarne l’intervento militare intorno a Tripoli. Del complesso e poco diplomatico gioco fece le spese uno dei tre, Arkady Katkov, il cui corpo fu fatto ritrovare tra i rifiuti a Beirut. Quel che successe dopo non fu mai ufficialmente confermato. Si seppe soltanto che i sovietici avevano chiesto «appoggio» ad «amici». Si disse che gli amici erano i drusi e che questi individuarono i sequestratori e rapirono il fratello di uno di loro. Poi spedirono alla famiglia una busta con un suo dito. E un’altra ancora. I due sovietici furono liberati, illesi. Il silenzio stampa. Anche se nessuno lo chiedeva, a un certo punto la stampa incominciò a disinteressarsi dei casi dei rapiti. Ce n’erano troppi, le vicende si assomigliavano un po’ tutte, le redazioni centrali reclamavano «storie», qualcosa che restasse impresso nella mente dei lettori. Fu così che andò in prima pagina Coco. Nel febbraio del 1987 drusi e palestinesi armati fecero irruzione all’Hotel Commodore, saccheggiarono tutto quel che poterono, derubarono chi c’era, qualcuno fu ferito. Scomparve, anche, il pappagallo dell’albergo: Coco, appunto. Un giornalista inglese, riparato a Nicosia, ci montò su un caso. Offrì 500 dollari per la restituzione dell’«ostaggio». Scrisse che il pennuto sapeva imitare con la sua voce il fragore delle granate. L’appello volò di testata in testata. A lungo offuscò ogni umano destino. L’eccezione. Per sopravvivere, una banale (a quel punto) storia di uomini doveva essere davvero diversa. O coinvolgere un giornalista. Quella di Keenan & McCarthy aveva entrambe le caratteristiche. Brian Keenan era un irlandese di Belfast, di famiglia operaia, robusto, squadrato, professione insegnante. Stanco della guerra che devastava la sua città aveva cercato un lavoro all’estero. Era finito all’Università americana di Beirut, prima della tempesta. Il suo sequestro era una ”storia”. Una televisione inglese mandò a occuparsene John McCarthy, un giovane reporter raffinato, di buona famiglia. Quando gli americani bombardarono la Libia decise di tornare a casa prima che fosse troppo tardi. Lo era già. La sua auto fu bloccata sulla strada dell’aeroporto. Lo prelevarono e chiusero in una cella dove c’era già un prigioniero: Brian Keenan. Passarono insieme oltre quattro anni. La storia di quell’amicizia tra un inglese e un irlandese, opposti per estrazione sociale e convinzioni di vita, è da poco diventata un film, Blind Flight. Keenan, che l’ha scritto, è venuto a presentarlo a Beirut. Non ha nascosto che, sì, è, anche, una «love story». Il finale. Terry Waite venne, inviato dall’arcivescovo di Canterbury, per liberare Anderson. Finì lui stesso ostaggio, ma fu poi liberato. Alec Collett, inglese, che lavorava per l’Onu e aveva fatto l’errore di mostrare a un posto di blocco il passaporto di «scorta», quello con il timbro israeliano, fu mostrato cadavere in un filmato. Terry Anderson si ritrovò sulla via di Damasco, solo, una mattina di dicembre del 1991. Hussein Mussawi oggi cura la campagna elettorale di Hezbollah per le elezioni di domenica. Anche se molti fanno interessanti collegamenti tra il suo gruppo e quel che accade in Iraq, lui dice di aver tagliato col passato e non concede più interviste. La sua stretegia funzionò, all’epoca? «Beirut Addio» scrisse a caratteri cubitali sul muro del comando di Ouzai un soldato italiano prima di andarsene perché la missione umanitaria era stata dichiarata conclusa e il Libano poteva «fiduciosamente» essere riconsegnato a chi l’abitava. Gabriele Romagnoli