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 2004  maggio 06 Giovedì calendario

Jackie Kennedy, la first lady che voleva portare Versailles in America, Sette, 06/05/2004 Alla signora piaceva spendere

Jackie Kennedy, la first lady che voleva portare Versailles in America, Sette, 06/05/2004 Alla signora piaceva spendere. In un anno Jacqueline Bouvier Kennedy sperperò in abiti, scarpe, gioielli e altre amenità, 121.461 dollari (al valore attuale circa 750.000 dollari, ossia 630.250 euro). Il primo marito, che poteva permettersi di devolvere lo stipendio da presidente - 100.000 dollari - in beneficenza, ne era scandalizzato. Il secondo, che nei miliardi navigava, orripilato. Onassis arrivò ad assoldare una squadra di detective: scoprirono che la signora portava un vestito pochi giorni e poi lo rivendeva ai negozi di vintage. In un anno intascò 700 mila dollari, reinvestiti in azioni a suo nome. Chi teneva il conto degli scontrini, come l’Fbi dell’ambiguo Edgar Hoover, aveva in caldo l’arma del ricatto. Jackie, regina di un regno senza corona né tempo, faceva spallucce alle critiche e continuò a dilapidare. «Non era malata di shopping, però sceglieva sempre cose molto costose», racconta l’amica Tony Bradlee. Memorie di un’icona di stile, con poche eredi. La prima first lady, e per ora l’unica, che fissò gli standard di eleganza della donna moderna. L’immagine vivente di un’America in cui tutto è possibile, come prometteva la Nuova Frontiera del marito John Kennedy. Dieci anni dopo la sua morte, a 64 per un tumore linfatico, il mito è ancora intatto anche se a tratti sfiora i toni di una soap opera infinita. Sugli scaffali americani si affollano le ultime biografie sul mondo segreto dei Kennedy. Si scopre che Jacqueline era una splendida vicina di casa (Che cosa ci ha insegnato Jackie di Tína Flaherty), come ha vissuto i suoi ultimi giorni di vita (nel morboso Addio, Jackie di Edward Klein), oppure che la signorina nessuno Carolyn Bessett, aspirante nuova regina di Camelot, tradiva l’erede John jr con un fotomodello (L’altro uomo: una storia d’amore di Michael Bergin), ci svelano i vizi privati dei rampolli del clan (I figli di Camelot di Laurence Leamer) o che il presidente sciupafemmine in realtà sotto le lenzuola era tutt’altro che un leone (Grace and Power di Sally Bedell Smith). Quest’ultimo tomo, 608 pagine di cui l’americano ”Vanity Fair” ha pubblicato ampi stralci, è il più ricco di dettagli intimi. Jackie e Jack, soprannome di John, portarono una brezza d’aria fresca nei saloni impolverati della Casa Bianca. «Qui le finestre non sono state aperte da anni», commentò lei entrando nella nuova dimora. In poco tempo riunirono attorno a sé una corte brillante e molto fedele: intellettuali, giornalisti, attori, scrittori, diplomatici, jet setter internazionali. «In un anno davano almeno dieci party da 2.000 persone e moltissimi piccoli party da 150», racconta Pierre Salinger, portavoce del presidente, nel libro di memorie With Kennedy. Come mai prima d’allora, Washington si divise fra gli «in» e gli «out». «Jackie voleva portare Versailles in America», commentò lo stilista Oleg Cassini. E suo modello era il salotto di Madame de Maintenon, poi sposa di re Luigi XIV. Aveva un’enorme ambizione di potere, ma tutto mondano e sociale, non politico come Eleanor Roosevelt prima e Hillary Clinton dopo di lei. Ambitissimo era un suo invito alle tavolate rotonde da otto-dieci commensali, informali e spesso molto gay, attorno a cui si chiacchierava amabilmente di politica e cultura, tra fiumi di champagne e brevi recite di Shakespeare. Lei supervisionava tutto: la scelta di cibo, fiori, musica, disposizione dei posti. «Memorabili le cene danzanti con i grandi vassoi pieni di drink esotici come il Cuba libre», racconta Sally Bedell Smith. «Le cene di Stato, invece, stabilivano nuove norme di eccellenza culinaria, con menù scritti per la prima volta in francese». Tra tante, è entrata negli annali di storia la serata in onore di 49 premi Nobel: Jackie, in un lungo abito di jersey grigio chiaro, coniugò abilmente l’informalità di casa con la solennità di un gala, mentre John si librò sui convitati con una delle sue frasi a effetto: «Questa è la più straordinaria collezione di talenti, e di sapere umano, che si è mai riunita alla Casa Bianca, a eccezione di quando Thomas Jefferson cenava solo». Sintetizza l’amica stilista e principessa Irene Galitzine: «Dai Kennedy si respirava un’atmosfera divertente, spensierata, alla Scott Fitzgerald». Jackie brillava, perché era intelligente, a volte manipolatrice, aveva quel qualcosa di impalpabile che la rendeva diversa, con quel suo accento molto «upper-class New York». Incantò grandi come il sovietico Kruscev, il rigoroso generale De Gaulle, il primo ministro indiano Jawaharlal Nehru, che andò a trovare da sola, commentando: «Non parlammo mai di cose serie... Jack mi ha sempre detto che un uomo impegnato alla fine della giornata non vuole parlare del problema del Kashmir». Soprattutto ammaliò folle di gente comune. E Kennedy era orgoglioso: «Mi presento, io sono quello che accompagna Jacqueline», disse a Parigi. Sua moglie fu tra le prime a capire il potere dell’immagine e della moda, aprendo la strada a Lady Di e Rania di Giordania. Con lei anche la Casa Bianca, aiutata dalle prime tv a colori, smise di essere triste e in bianco e nero. Appena entrata, chiamò l’arredatrice di fiducia della New York bene, la signorina Henri Parish II, e si mise al lavoro su ogni più piccolo dettaglio: per il «grande restauro» riuscì a spillare all’erario 190.000 dollari - cifra enorme all’epoca - e mobili di valore incalcolabile a ricchi collezionisti come Henri Francis du Pont, con cui scambiò più di 100 lettere in tre anni. John, che di arte e arredamento sapeva ben poco, si fece contagiare dalla passione della moglie, da quelle sue «strane robe», e le fece trovare infiocchettate due sedie appartenute al presidente Monroe. I fotografi amavano la first lady più fotogenica della storia e lei flirtava con l’obiettivo, mascherando di profilo o di tre quarti la mascella importante. «Tutto questo parlare su cosa indosso o come porto i capelli mi diverte e preoccupa. Cos’ha a che fare la mia pettinatura con l’abilità di mio marito?», protestò in campagna elettorale. Capì in fretta le regole. L’immagine è il messaggio: un leader nuovo per una Nuova Frontiera, una first lady informal-chic per un nuovo stile americano. Lei scelse il couturier allora quarantasettenne Oleg Cassini. Ogni abito era una photo-opportunity. Quello da sera in satin color avorio indossato per il gala di inaugurazione nel gennaio 1961 come la tunichetta senza maniche con cui si presentò in chiesa una domenica di Pasqua. Ancora più importanti i dettagli: guanti da sera lunghi fino alle ascelle, tre fili di perle (spesso false), occhialoni neri e sandali intrecciati alla Capri style, che fecero storcere il naso a molti benpensanti. Tutte volevano vestire come lei, seguendo i suoi consigli di bellezza: l’acqua di colonia spruzzata sulla spazzola per capelli, la cipria stesa sulle labbra prima e dopo il rossetto, la crema mischiata al rimmel per rendere le ciglia più folte. E occhio al peso: se metteva su qualche chilo, Jackie digiunava per un giorno e mangiava soltanto frutta per un po’. Severa e contraddittoria, con un nascosto fondo di nevrosi, intanto si mordicchiava le unghie e fumava senza tregua, L&M con filtro, anche in gravidanza. «Ma all’epoca non si sapeva che facessero tanto male», la giustifica l’amica Vivian Crespi. Tra gli invitati ai party c’era spesso qualche amante del presidente. La lista è lunga, e ormai conosciuta: attrici famose come Angie Dickinson, Marilyn Monroe, Jane Mansfield, ma anche stagiste diciottenni, pupe della malavita, prostitute d’alto bordo e presunte amiche della moglie. Qualcuna rifiutò. Si dice che venne respinto da Sofia Loren, Shirley Mac Laine, Marlene Dietrich. Tony Bradlee, amica di Jackie, rivela un imbarazzante fuga durante una crociera: «Mi diede la caccia per tutta la barca, mi mise all’angolo nel bagno delle donne, le sue mani andavano dappertutto». Jackie sapeva e taceva. Era stata educata nell’arte della sopportazione coniugale fin dai tempi del college Vassar, esclusiva e snobissima scuola tutta femminile per l’Alta società della costa orientale: «Studiavamo matrimonio», confidò. Però una volta, al costernato giornalista straniero in visita alla Casa Bianca indicò l’amante di turno, una segretaria. E alla cognata Joan, moglie di Ted, consigliò: «Tutti i Kennedy sono uguali, non farti sopraffare». Nessuno finora aveva alzato il velo sui suoi incontri intimi con John, «amante frettoloso che crollava subito a dormire». Lo racconta oggi a Sally Bedell Smith un medico e amico di famiglia: «Chiese se poteva chiamarmi di tanto in tanto per una opinione indipendente. Voleva che sapessi che non era ingenua o sorda, come pensava molta gente alla Casa Bianca, sapeva dei tradimenti del marito. Fece molti nomi di donne, quella che la preoccupava di più era Marilyn Monroe». E poi la confessione sul sesso, la paura di non essere all’altezza. Frank Finnerty, cardiologo, le diede molti consigli per rendere più gradevole l’alcova indugiando sui preliminari. Insieme decisero un approccio per parlarne con John senza che lui si sentisse ferito nella sua mascolinità. La coppia ne parlò a cena, e quando JFK le chiese come faceva a sapere tante cose, Jackie, in linea con la morale puritana del tempo, rispose che un prete in confessionale le aveva suggerito di consultare un’ostetrica che a sua volta le aveva dato dei libri... «Kennedy fu impressionato dell’interesse della moglie per il sesso». Lo scrittore Truman Capote, scrittore gay e intimo della first lady, spiegò: «Su Jackie corsero molte voci, ma gli scandali non avevano fondamento. Gran parte delle sue presunte passioni non erano che fughe dalla realtà. Teneva un elenco di amanti mentali, sui quali giganteggiava André Malraux (scrittore e ministro francese della Cultura, ndr), seguito dal dottore Christian Barnard, Alistair Cooke, Cary Grant, il generale Maxwell Taylor e Rudy Nureyev. Poi le piacevano: il principe Filippo e John Glenn, Gianni Agnelli era una possibilità menzionata con frequenza. Erano tutte finzioni». L’idea di farsi qualche avventura, a detta dell’amica Tony Bradlee, le venne pure in mente, «ma non penso lo fece davvero». Flirt platonici furono anche quelli con due ”brutti” di Washington: il segretario alla Difesa McNamara con cui leggeva poesie nell’intimità, e l’ambasciatore all’Onu Adlai Stevenson, che per età poteva essere suo padre. Si vantò con l’amica Nancy Tuckerman di non aver fatto nessuna delle «99 cose che dovevo fare come First lady». Tra un party e una partita a tennis con il suo agente segreto preferito, Clint Hill, voleva soprattutto stare coi figli Caroline e John. Andava a trovarli all’asilo, creato all’ultimo piano della Casa Bianca, oppure li portava in giro per la città o al circo con la sua Pontiac station wagon, camuffandosi sotto sciarpone e impermeabili per non farsi riconoscere. «Jack si mise in ginocchio, pregandola di non andare», svela Sally Bedell Smith. Inutilmente. Come in tante altre occasioni, John Kennedy si piegò ai voleri della moglie e nell’agosto 1963 lasciò che si imbarcasse sullo yacht di Aristotele Onassis per una crociera con la sorella Lee Radziwill che da qualche tempo era l’amante dell’armatore greco. John, svela l’ultima biografia, pensava già al dopo-presidenza. «Meditava di farsi nominare ambasciatore in Italia, perché a Jackie sarebbe piaciuto». Non ce la fece, la tragedia arrivò prima a Dallas. E il 20 ottobre 1968 Jackie sposò Onassis, vestita da un nuovo stilista di fiducia, l’italiano Valentino Garavani. Di fatto, l’America perdonò Jackie, colpevole di aver tradito la memoria di un’intera nazione, solo dopo la morte del ”Pirata”. Lei si mise a convivere con un ricco mercante di diamanti, Maurice Tempelsman, in un lussuoso attico a New York, sull’esclusiva Quinta strada. La andò a trovare anche Hillary Clinton, in cerca di consigli: «L’appartamento straripava di libri. Erano accatastati ovunque: sopra e sotto i tavoli, di fianco a divani e sedie. Ho provato a copiare l’effetto con tutti i libri che possediamo Bill e io ma com’era prevedibile i nostri non sono mai sembrati così eleganti», confida nella sua autobiografia. Il giorno della sua morte, 19 maggio 1994, la folla sotto le sue finestre paralizzò il traffico dell’Upper Manhattan mentre Tiffany, Cartier, Chanel e le grandi boutique del centro bardavano le vetrine a lutto. Non era mai successo prima. Sara Gandolfi