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 2004  aprile 28 Mercoledì calendario

La malattia della Gioconda è un’esigenza intima della folla museofila, la Repubblica, 28/04/2004 Il conservatore capo Vincent Pomarède ci ripete che quell’impercettibile, pressoché invisibile deformazione della tavola di pioppo, meno di un millimetro, «è solo un’inquietudine che non bisogna né minimizzare né drammatizzare»

La malattia della Gioconda è un’esigenza intima della folla museofila, la Repubblica, 28/04/2004 Il conservatore capo Vincent Pomarède ci ripete che quell’impercettibile, pressoché invisibile deformazione della tavola di pioppo, meno di un millimetro, «è solo un’inquietudine che non bisogna né minimizzare né drammatizzare». E tuttavia l’immaginazione del popolo dei musei riesce subito a notare il cedimento della materia sulla guancia sinistra o se preferite il rigonfiamento sulla guancia destra, come fosse un brivido della Gioconda che all’illusione del movimento, del calore e della vita aggiunge la grazia indicibile di sembrare peritura. Così a cinque passi di distanza e dietro il vetro sul quale rimbalzano i flash si crede di vedere la nuova malattia della Gioconda con la stessa mistica morbosità con la quale si vedono senza vederle le lacrime delle Madonne che piangono. Il Conservatore ci spiega che sicuramente la Gioconda è un quadro sporco di cinque secoli, la sostanza gessosa e collosa che ricopre il pioppo convesso e sulla quale è stata stesa la pittura non è stabile, tanto più che Leonardo era uno sperimentatore e nessuno sa con precisione quali misture abbia usato. E il Conservatore aggiunge che il Louvre si è limitato a ordinare uno studio al Centro del Restauro e che la commissione di esperti non è stata ancora nominata. Eppure quell’inquietudine, in sole ventiquattro ore, è diventata in tutto il mondo la malattia della Gioconda, una segreta infermità, come se un cattivo umore si fosse rivelato nel sorriso più famoso del mondo e finalmente ne spiegasse il mistero, segnalasse un ingorgo di piacere e dispiacere, raccontasse una storia di autoinflizioni, il combattimento tra sofferenza e gioia. Eppure la Gioconda al Louvre più che esposta è nascosta, è un piccolo quadro che non si ha il diritto di guardare con calma e da vicino, il traffico dei visitatori, sottoposto al controllo delle guardie, è regolato con il senso unico, si intuisce che vernici e olii sono cupi o sbiaditi, persino gli occhi marrone di Lisa Gherardini o Isabella Gualanda o Pacifica Brandano sono diventati incerti, e in mezzo alla folla nessuno vede nulla ma tutti riconoscono l’idea che c’è già nella loro mente e che sta nelle mente di tutti, un’idea solida, precisa e definita che fa ancora piangere qualcuno, può farti sentire un iniziato alla voluttà estetica, un complice della grazia leonardesca, di una donna che sorride a bocca chiusa perché sogna una felicità assente, tanto che al Louvre raccontano di svenimenti, di ragazze dai nervi sofisticati, di un’americana di Lincoln, Nebraska, che sudata e tremante ripeteva nell’infermeria del Museo di avere, sin dalla più tenera età, messo la bellezza e il godimento artistico in cima alle proprie ambizioni. Al punto che i più lucidi e più severi vengono in questa bizzarra Salle des Etats del Louvre per guardare La Gioconda e finiscono col guardare quelli che guardano La Gioconda. Insomma molti, e non soltanto per distinguersi ironicamente dalla massa, scoprono che La Gioconda vera è la sopravvivenza degradata di un grande mito, che un capolavoro che vanamente aspira al segreto ispira la diffidenza, che il Museo moderno è una macchina guasta, una sconfitta dell’arte e trovano che le facce dei visitatori sono più interessanti di quel quadro che si dissolve graziosamente in troppe teorie, libri, prose ispirate, enigmi storiografici e spiritosaggini più o meno poetiche su Monna Lisa, sulla sua vera identità, sull’amore di Leonardo che Freud immaginava omosessuale... Invece già lunedì pomeriggio i turisti che più di ogni altro giorno si sporgevano sulle spalle di altri turisti, hanno creduto di vedere il nascente pericolo, la malattia è già diventata il nuovo mistero della Gioconda, ed è la soluzione al rompicapo che vanamente ha impegnato più di cento architetti: come mettere in mostra la Gioconda per attirare ancora più pubblico. Infatti è già raddoppiato il numero dei visitatori, tutti armati di macchina fotografica, tutti ben dritti sul pezzetto di mattonella che sono riusciti a conquistare, tutti presi e compresi nel pathos della distanza e tutti con l’atteggiamento di volere difendere dagli estranei quell’idea di donna lontana che respira aria condizionata sotto un vetro di protezione, e che non era mai stata meno eterna e più fragile, più vicina a essere umana. L’invisibile malattia del legno si è insomma trasformata nell’evasione da un reale noioso e perfettamente noto verso un mondo di nuovo immaginario. Questa non è più La Gioconda che è entrata in duemila messaggi pubblicitari, persino in quello dei purganti, non è più La Gioconda di Duchamp e neppure quella di Warhol, non è il simbolo dell’arte popolare e neppure il capolavoro fiorentino illustrato nelle monografie degli specialisti. Già «femme fatale», Monna Lisa è finalmente una donna che invecchia, il suo universo soffoca nell’armatura filosofica e scientifica che le abbiamo dato, il legno di cui è fatta si è dolcemente ribellato, la sua malattia è la vendetta della materia. Al Louvre dicono che La Gioconda è sempre stata trattata con meraviglia mista a timore, nessuno ha il diritto di maneggiare la tavola, di staccarla dal muro, è un feticcio anche per gli esperti e per i tecnici e infatti, con irriverenza, i dipendenti del museo chiamano la stanza della Gioconda «la sala del tempio» dove «ogni mattina si celebra la messa». E dicono ancora che, nonostante le polemiche, nessuno se la sente di mettere le mani del restauratore su quella faccia sacra e di passare alla storia come colui che ha rifatto il sorriso alla Gioconda. Solo una volta, nel 1958, i restauratori asportarono dei brufoli che segnalavano l’accumulo degli eccessi anagrafici e ci fu chi condannò l’operazione denunciando la chimica e la fisica che volevano prevalere sulla grazia serafica. Insomma solo Leonardo sapeva quello che voleva fare e noi non lo sappiamo e la strana farina che chiamiamo sporco e che si vorrebbe tirar via dal legno e dalla pittura è la polvere della nostra storia, polvere di spazio. Leonardo, dopo aver dipinto la Gioconda, scrisse che l’artista non è mai soddisfatto. Kafka quando stava per morire voleva che si bruciassero i suoi libri, e Dostoevskij negli ultimi mesi di vita sognava di scrivere il seguito dei Karamazov. Spesso gli artisti muoiono di cattivo umore pensando di non avere fatto nulla di buono, nulla che viva e corra insieme con il mondo. Ebbene forse Leonardo ha dipinto la bellezza cangiante che si adatta ai tempi. Forse voleva che la bellezza che capisce, prevede, tollera e consola, che la faccia di chi sta a guardare per cibarsi degli errori degli altri, la faccia inespressiva e rassicurante, sorridente e mai ridente un giorno si ammalasse e si deturpasse nella sofferenza, esibisse quella che Baudelaire chiamava la bellezza del diavolo. Forse voleva che il sorriso sfumasse in un piacere intenso tra l’estasi e l’orgasmo. Francesco Merlo