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 2004  aprile 26 Lunedì calendario

Rifare l’Iraq senza gli iracheni? La storia lo sconsiglia, Corriere della Sera, 26/04/2004 Paul Bremer, governatore americano dell’Iraq, si è accorto di avere fatto negli ultimi dodici mesi una politica sbagliata

Rifare l’Iraq senza gli iracheni? La storia lo sconsiglia, Corriere della Sera, 26/04/2004 Paul Bremer, governatore americano dell’Iraq, si è accorto di avere fatto negli ultimi dodici mesi una politica sbagliata. Aveva deciso di trattare i militanti del partito Baath come complici del regime di Saddam e di metterli al bando. Quattrocentomila iscritti al partito (molti di essi maestri, professori, ingegneri, primari d’ospedale, pubblici funzionari) avevano perduto così il loro incarico e il loro stipendio. Bremer aveva preso questa decisione, probabilmente, perché questo gli suggerivano gli esuli iracheni che viaggiavano con l’intendenza dell’esercito americano e volevano saldare, tornando in patria, qualche vecchio conto. Ma ha capito, dopo le ultime insurrezioni, di avere provocato alla sua amministrazione e al suo Paese un doppio danno. In primo luogo si è privato del capitale di esperienze e competenze che molti di essi avevano accumulato nell’amministrazione dello Stato iracheno. E in secondo luogo ha considerevolmente ingrossato le file dei malcontenti. Nulla di nuovo. Bremer non è il primo occupante che comprende di avere commesso un errore e lo corregge saggiamente dopo averne sofferto le conseguenze.  curioso tuttavia che il governatore non si sia accorto di avere fatto più o meno ciò che il governo militare americano fece in Germania alla fine della Seconda guerra mondiale. Quando entrarono in territorio tedesco nell’autunno del 1944, i vincitori dovettero immediatamente affrontare i problemi della sopravvivenza delle popolazioni civili: acqua, luce, gas, vettovagliamento, medicinali, servizi ospedalieri. Qualche comandante chiese consiglio ai vescovi e finì per insediare nell’ufficio del borgomastro la stessa persona che aveva esercitato quelle funzioni sino a qualche giorno prima. E il borgomastro, beninteso, richiamò in servizio i suoi vecchi collaboratori. Ma nei mesi seguenti, soprattutto dopo la fine delle operazioni militari, prevalse la tesi che gli iscritti al partito nazionalsocialista dovessero venire radiati dalle posizioni di autorità che avevano avuto durante il regime. La dannazione del nemico, per un certo periodo, fu pressoché totale. Vennero arrestati e incarcerati persino gli alti ufficiali con cui gli Alleati, poco tempo prima, avevano negoziato la resa della Wehrmacht: l’ammiraglio Karl Doenitz in Germania, il generale Karl Wolff in Italia. Fu deciso che le truppe di occupazione non avrebbero «fraternizzato» con la popolazione civile. Gli iscritti al partito vennero sottoposti a un esame individuale e poterono tornare al lavoro soltanto dopo avere ottenuto un certificato di buona condotta che i tedeschi, ironicamente, chiamarono Persilschein (’Persil”, allora, era il nome di un famoso detergente). In Sicilia, sia detto per inciso, furono meno severi e nessun colonnello americano pretese di vedere la fedina penale dei mafiosi che facilitavano la sua avanzata. Poi, gradualmente, gli americani e gli inglesi si accorsero che l’amministrazione della Germania senza i tedeschi era una missione impossibile. Uno alla volta i nazisti, che non si erano macchiati di particolari colpe, uscirono dall’ombra e ripresero possesso dei loro uffici. Gli scienziati ebbero diritto a un trattamento di riguardo. Werner von Braun, ideatore dei razzi V2 con cui la Germania aveva colpito Londra alla fine del guerra, fu chiamato negli Stati Uniti dove collaborò al programma spaziale americano e progettò il missile Jupiter C. Negli stessi anni, molti suoi colleghi del centro di Peenemünde fecero le stesse cose in Unione Sovietica. La Cia fu ancora più spregiudicata. Non appena apparve chiaro che il nemico, d’ora in poi, sarebbe stato l’Unione Sovietica, i servizi americani reclutarono molti esponenti dell’apparato nazista che conoscevano bene l’Europa Orientale. Qualche giorno fa, da un profilo biografico di Karl Hass, pubblicato in occasione della sua morte, ho scoperto che persino il vecchio amico di Erich Priebke fu assoldato dagli americani negli Anni Cinquanta per qualche missione segreta in Germania orientale. Anche i bolscevichi, dopo la presa del potere nel 1917, dovettero adattarsi a utilizzare per qualche tempo i ci-devant (così venivano chiamati, dopo la Rivoluzione francese, i nobili dell’Antico Regime). Come sarebbero riusciti a far funzionare, tra l’altro, il ministero degli Esteri? Come sarebbero riusciti a scoprire l’archivio segreto della cancelleria imperiale dove erano custoditi gli accordi stipulati con le grandi potenze e, soprattutto, le ricevute dei pagamenti fatti alla stampa francese prima della guerra per facilitare la collocazione dei Buoni del Tesoro russi alla Borsa di Parigi? I ci-devant continuarono a lavorare per il nuovo regime sino alla fine degli Anni Venti. Quando andò a Mosca nel 1929, Paolo Vita-Finzi, allora console nel Caucaso, ne conobbe uno particolarmente simpatico. Si chiamava Florenskij, era capo del cerimoniale del commissariato per gli Affari esteri e aveva perduto nella rivoluzione tutti i suoi familiari, fucilati dalle guardie rosse. Quando qualcuno si sorprendeva di vederlo al servizio del regime rispondeva tranquillamente: se tutta la sua famiglia finisse sotto il tram lei rinuncerebbe forse a servirsene? Un caso particolare, che meriterebbe di essere studiato attentamente, fu quello italiano dopo la costituzione del Regno. Con molto coraggio il governo di Torino decise di onorare il debito pubblico di tutti gli Stati pre-unitari. Occorreva decidere, tuttavia, che cosa fare dei loro ufficiali, magistrati, pubblici funzionari. Sul modo in cui affrontare il problema dei militari i piemontesi non ebbero dubbi: meglio un colonnello napoletano o un tenente appena diplomato dall’Accademia militare austriaca piuttosto che una testa calda garibaldina. Fu così che l’Esercito italiano in Tripolitania, nel 1911, fu comandato dal generale Carlo Caneva che nel 1866 aveva combattuto in un reggimento imperiale contro i prussiani. Per i magistrati, invece, la linea adottata fu il risultato di pressioni, raccomandazioni, petizioni. Lo sappiamo, tra l’altro, perché Francesco Crispi conobbe la sua futura moglie, Filomena Barbagallo, quando il padre di lei, magistrato pugliese, andò a Torino per chiedere di essere ammesso negli organici della magistratura nazionale. Ma il caso più interessante, e per certi aspetti ancora misterioso, è quello della Marina napoletana. Quando Garibaldi decise di invadere la Sicilia nel maggio 1860, Cavour gli mise alle costole due navi della Marina sarda e raccomandò al loro comandante, l’ammiraglio Carlo Persano, di mantenere i contatti con le navi borboniche. Al suo ingresso nel porto di Milazzo Persano ne trovò quattro: la Fulminante, il Guiscardo, l’ Ettore Fieramosca e il Tancredi, al comando del brigadiere Vincenzo Sanlazar. Cominciò un balletto diplomatico con scambi di cortesie, alla fine del quale la piccola flotta napoletana caricò la guarnigione di Milazzo e tolse il disturbo. Le trattative ricominciarono in settembre nelle acque di Napoli mentre si attendeva da un momento all’altro l’ingresso di Garibaldi. Persano informò Cavour che il governo napoletano, d’accordo con l’Austria, voleva «mandare la flotta in crociera» per sottrarla alle grinfie dei piemontesi. Cavour gli chiese di evitarlo e di portare con sé, spostandosi verso le Marche, «un paio almeno di legni napoletani». Aggiunse: «Il concorso della Marina napoletana avrebbe un effetto morale immenso e gioverebbe all’ annessione più che un pronunciamento». Persano lo tranquillizzò: «Ciò che più preme per ora di avere è la Flotta; e questa sarà nostra, a qualunque costo». Sulla natura e sull’entità di quel «costo» si continuò a discutere per molto tempo. Il buon uso del nemico è spesso favorito dalla sua buona volontà. La storia d’Europa è piena di uomini per tutte le stagioni, perfettamente in grado di servire con eguale competenza regimi diversi. Charles-Marie di Talleyrand Périgord, vescovo di Autun e duca di Benevento, fu ministro degli Esteri di Barras, del generale Buonaparte, dell’ imperatore Napoleone e di Luigi XVIII. E, dopo avere favorito l’avvento al potere del ramo cadetto degli Orléans, fu ambasciatore di Luigi Filippo a Londra. Joseph Fouché, duca di Otranto, fu ministro di Polizia del Direttorio, di Napoleone e per un breve periodo di Luigi XVIII. Jean-Baptiste-Jules Bernadotte fu maresciallo dell’Impero grazie a Napoleone e, con un rapido salto mortale, Re di Svezia col nome di Carlo XIV. Michel Ney, duca di Elchingen e principe della Moscova, fu maresciallo dell’Impero con Napoleone, pari di Francia con Luigi XVIII e fedele alleato di Napoleone a Waterloo. Benjamin Constant aderì al regime buonapartista del 18 Brumaio, fu esule all’epoca dell’Impero, scrisse per Napoleone la Costituzione dell’Impero restaurato durante i Cento giorni, fu presidente del Consiglio di Stato sotto Luigi Filippo. Liborio Romano fu ministro dell’Interno dell’ultimo re borbonico a Napoli, deputato del Regno d’Italia a Torino dal 1861 al 1865. Maurice Papon fu segretario generale della prefettura della Gironda durante il regime di Vichy, prefetto di Parigi con il generale De Gaulle, ministro delle Finanze con Valéry Giscard d’Estaing. René Bousquet fu prefetto e capo della polizia a Vichy, ma grande amico di François Mitterrand sino alla fine della sua vita. Non tutti morirono serenamente nel loro letto. Ney venne condannato a morte e fucilato per tradimento. Papon, dopo un lungo processo, è agli arresti domiciliari. Bousquet è stato ucciso nel 1993. Ma tutti fecero con grande competenza il loro mestiere e hanno diritto a una pagina in una grande opera pubblicata a Parigi nel 1815 e da allora più volte aggiornata. Si chiama il Dictionnaire des girouettes, il dizionario delle banderuole, ed è uno straordinario monumento all’ubiquità politica. Forse il più grave errore degli americani in Iraq è stato quello di non comprendere che il migliore ministro degli Esteri del Paese liberato sarebbe stato Tarek Aziz. Aveva servito bene Saddam Hussein. Avrebbe servito altrettanto bene George W. Bush. Sergio Romano