Emanuela Audisio la Repubblica, 29/04/2004, 29 aprile 2004
Senna era vincente perché credeva in Dio (e viceversa), la Repubblica, 29/04/2004 San Paolo. Lula stava tenendo un comizio elettorale
Senna era vincente perché credeva in Dio (e viceversa), la Repubblica, 29/04/2004 San Paolo. Lula stava tenendo un comizio elettorale. Senna spinge la macchina un po’ a destra. Emerson Fittipaldi stava provando la formula Indy sul circuito del Michigan. Senna inizia a preparare la tangente. Lo scrittore Paulo Coehlo stava partecipando a un ricevimento in Portogallo. La macchina di Senna sobbalza. Il regista Walter Noreira Salles stava filmando a Lisbona. Senna va dritto contro il muro. Il musicista Nado Reis dei ”Titas” stava rientrando in volo da Buenos Aires. Senna rimbalza, ha uno spasmo. Rubens Barrichello a casa in Inghilterra stava guardando quel Gran Premio. Imola, primo maggio. La macchina di Senna, di traverso sulla pista. La testa sale leggermente, poi cade di nuovo. Non è volato nessun pezzo. Non c’è stato fuoco. Il telecronista della Globo, Galvao Bueno ammutolisce. Il suo collega, Reginaldo Leme, gli mette una mano sulla gamba. un loro segno in codice. Tutti aspettano. Che Ayrton scenda, slacci la cintura e si tolga il casco. «Sono solo un po’ intontito». Senna non si era mai rotto un osso. Ma il pilota è fermo. La testa reclinata. Il Brasile inchiodato. Senna giace. Il Brasile sviene. Era morto sul colpo anche James Dean nel ’55. Incornato dal volante. Sulla statale per Salinas. Ma lui era la Gioventù Bruciata dell’America. Senna invece era il Brasile che non voleva bruciarsi. Se lo ricordano tutti quel giorno, come gli americani quando fu ucciso Kennedy. Si ricordano dov’erano, cosa stavano facendo. Lula annullò il comizio. Fittipaldi si fermò ai box. Coelho lasciò il ricevimento. Salles dal dolore si perse nella città. Reis volò in stato di choc. Barrichello si attaccò al telefono e ripeté sei volte: «Ditemi che non è vero». Era domenica. Il tg brasiliano diede la notizia all’ora di pranzo. Perfetta nella sua immensità. «Si è rotto lo specchio dove ci vedevamo nel primo mondo». Veniva a mancare il capofamiglia, a 34 anni. Il Pelè bianco. Lasciava 150 milioni di orfani. Bernie Ecclestone, presidente della Fia, a Imola diede tardi l’annuncio. Con perfetto cinismo. Dicendo a Leonardo, fratello di Ayrton: «Aspettiamo la fine della corsa per dare la notizia della morte». Il Brasile sta ancora lì. In quella curva del tempo. Fermo. Nella buca della memoria. Senna era la sua diversità. Bianco, ricco, veloce. Bello, non zoppo come Garrincha. Ayrton un’aquila, Manè il passerrotto. Guidava bene sotto la pioggia, Ayrton. Mai visto la saudade giocare così tra le gocce. «Un pesce spada nero che tagliava l’acqua». Un perfezionista. Come ricorda un meccanico della Lotus: «A Senna non potevi nascondere niente. Sapeva leggere le performance. Se aveva un dubbio sul cambio te lo faceva smontare tutto». Un vincente. Non come la sciagurata nazionale di calcio che in quel decennio lì fu messa in ginocchio: nell’82 dall’Italia, nell’86 dalla Francia, nel ’90 dall’Argentina. Ayrton amava correre, con qualsiasi cosa: kart, macchine, moto d’acqua, elicottero, aereo. Spingeva sempre al limite. Alla fine dell’84 ebbe una paralisi facciale. Per colpa della tensione, di un nervo infiammato. Metà del suo viso smise di muoversi. Per curarsi chiamò il fisioterapista Haruo Nishimura lo stesso di Joao Batista Figureido, allora presidente della Repubblica. La sua metà: la macchina. «Passava ore girandole intorno, guardandola». Si era costruito il fisico, senza diventare grasso. Era alto 1,75. In dieci anni Senna cambiò le sue misure. Peso: da 58 a 70 kg. Torace: da 86,4 a 101,4. Cosce da 44,6 a 51,6. Circonferenza braccia : da 23,2 a 34,6 centimetri. La media della frequenza cardiaca di un pilota durante una gara di F1 è di 190 battiti al minuto. Senna nell’88 era riuscito ad abbassare a 150 questa media. I suoi battiti erano normalmente solo 60, come quelli di Pelé. Correva almeno 10 km tutti i giorni ed era in grado di percorrere 22 km in 90 minuti. Rafforzava braccia e addominali in sedute specifiche con i suoi allenatori: il brasiliano Nuno Cobra e l’austriaco Josef Leberer. Per questo era il dio della pioggia. Aveva fermezza. Come ricorda John Watson, che aveva sostituito Lauda alla McLaren, e che vide Senna passargli accanto alle prove di qualificazione per Brands Hatch. «Ho assistito a una cosa che non avevo mai visto e che nessuno aveva fatto prima in una macchina da corsa. Era come se Senna avesse quattro mani e quattro gambe. Frenò, scalò la marcia, girò il volante e accelerò. La macchina sembrò muoversi su un filo. Il tutto durò forse due secondi. La macchina si tuffò nella curva con una padronanza che mi fece spalancare gli occhi. Ayrton aveva premuto tutto l’acceleratore e aveva ripreso la pista. Senza perdere la pressione del turbo». Watson tornò nel box della Lotus e disse: «Ho appena visto una cosa». «Lo so», rispose il direttore Warr. Piquet detestava i tratti del circuito da percorrere a bassa velocità. Senna li sfruttava per sentire la macchina. Ayrton era pignolo, metodico, competitivo. «Sapeva in quale curva consumava più combustibile», spiega un meccanico. Prost, suo nemico, nell’89 lo liquidò con le parole: «Ayrton pensa di non poter morire perché crede in Dio». Sì, Senna era religioso. Come tutto il Brasile. Non solo, Ayrton vedeva Dio e non si vergognava di dirlo. Confermò di aver avuto varie visioni. «Gesù era all’arrivo. Una figura grande, con gli abiti di sempre, avvolta da un fascio di luce». Quando a Montecarlo, prima del tunnel, urtò contro il guard-rail dichiarò: «Quello non era solo un errore di guida. Era la conseguenza di una lotta interiore che mi paralizzava e mi rendeva vulnerabile. Avevo un’apertura verso Dio ed un’altra verso il diavolo. Ma Dio stava lì ad aspettarmi». Senna era timido. Ma non si vergognava di sentire. Pianse dentro il casco a Suzuka, in Giappone. « stata una pressione enorme». Sfilò sulla pista con la bandiera del Brasile nell’85 per commemorare Tancredo Neves, primo presidente eletto dalla gente dopo tanti anni di dittatura, ma morto prima di poter esercitare il suo mandato. Pianse quel venerdì a Imola quando il suo amico Barrichello ebbe l’incidente. Senna era il Brasile democratico e moderno, che lottava per il lavoro, contro l’inflazione. Tre titoli mondiali, 161 Gp vinti, 65 pole position, record ancora valido. Senna non era il figlio di un Brasile disperato, fannullone, sconfitto. Lo capirono anche in Australia dove sul muro accanto alla scritta «Good-bye John Lennon» comparve «Farewell Ayrton Senna». Due miti, uccisi dalla voglia di dire sempre sì. Dieci anni dopo, per chi non crede, Senna è la tomba numero 11 al cimitero di Morumby. Cinque vasi di margherite, una bandiera del Brasile, la semplice lapide: «Nulla mi può separare dall’amore di Dio». Una tomba essenziale, dai sentimenti rapidi. Per chi crede, invece, Senna è la fondazione che ogni anno salva quattro milioni di bambini dall’analfabetismo. Ayrton Senna do Brasil lo sapeva: vincere è studiare, capire, arrivare al traguardo. In fretta. Emanuela Audisio