Massimo Riva, ཿla Repubblica 25/4/2004; [2] Paolo Griseri, ཿla Repubblica 20/4/2004; [3] Giancarlo Galli, ཿAvvenire 25/4/2004; [4] Pietro Ichino, ཿCorriere della Sera 25/4/2004; [5] Stefano Livadiotti, Maurizio Maggi, ཿL’espresso 6/5/2004; [6] Giacom, 25 aprile 2004
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 3 MAGGIO 2004
Fiat, operai e sindacati: Melfi è una guerra tra poveri. Fino a un paio di settimane fa le cose per la Fiat sembravano andare un po’ meglio. Poi, il caso Melfi ha fatto strage degli ottimisti. [1] successo che la fabbrica integrata in provincia di Potenza, lo stabilimento dove il conflitto tradizionale sembrava impossibile, è improvvisamente salita sulle barricate: gli operai, stufi di dover lavorare più dei colleghi per meno soldi, hanno preso a scioperare. In poco tempo i picchetti hanno bloccato il flusso di componenti verso le altre fabbriche del gruppo, che hanno dovuto interrompere la produzione (migliaia di auto perse). Intanto, mentre le forze dell’ordine manganellavano (a malincuore) i lavoratori, il fronte sindacale si spaccava: da una parte i duri della Fiom, dall’altra Cisl, Uil, Fim, Uilm, disponibili alla trattativa e contrari ai picchetti, in mezzo la Cgil. [2]
La Fiat è abituata al conflitto sindacal-politico. Giancarlo Galli: «Come negli anni Venti (occupazione delle fabbriche), negli anni Cinquanta (riconversione industriale), negli anni Settanta-Ottanta (con Enrico Berlinguer ai cancelli di Mirafiori occupata); e la celeberrima marcia ”dei quarantamila”, i dipendenti che volevano lavorare, che pose fine alla stagione del sindacalismo ruggente. Allora, tutto avveniva a Torino, culla e cuore dell’Impero degli Agnelli, nostra massima e ineguagliata dinastia imprenditoriale. Oggi no, il baricentro dello scontro è a Melfi, Basilicata». [3]
Questa storia comincia a Detroit, nel 1985. L’invasione delle vetture giapponesi appare inarrestabile e gli americani sono i primi a preoccuparsi. Pietro Ichino: «General Motors e il sindacato United Auto Workers si accordano per affrontare e battere la concorrenza asiatica con il progetto rivoluzionario Saturn. Nell’accordo, che dà vita a una fabbrica e a un sistema di relazioni sindacali radicalmente nuovi, il sindacato fa proprio l’obiettivo di un prodotto competitivo per qualità e prezzo; garanzia di stabilità dell’occupazione, ma le retribuzioni variano con la produttività aziendale e gli utili». [4]
Melfi è la risposta italiana al progetto Saturn. Livadiotti e Maggi: «La prima scelta cade sull’Irlanda, allora molto di moda tra gli imprenditori. In alternativa si parla del Portogallo. Ma si mette in mezzo la politica: il governo guidato da Giulio Andreotti e Claudio Martelli preme su Torino e l’obiettivo si sposta sul Mezzogiorno d’Italia». [5]
La Basilicata ha tutte le carte in regola: i finanziamenti pubblici ci sono, la criminalità organizzata è meno asfissiante che altrove, il costo della vita è molto più basso che al Nord e c’è manodopera in abbondanza, tutta da formare ma anche completamente digiuna di sindacato. la cosiddetta teoria del ”prato verde”. Maggi & Livadiotti: «Di cosa si tratti gli uomini della Fiat lo spiegano direttamente ai capi sindacali dell’epoca: ripartire da zero, con la semplice e meccanica applicazione del contratto nazionale di categoria, cancellando i diritti conquistati negli anni dagli altri lavoratori del gruppo (per questo la Fiat non fa le assunzioni direttamente, ma attraverso la Sata). Siccome è meglio un operaio con la paga minima che un bracciante stagionale o un disoccupato, Cgil-Cisl-Uil dicono di sì, ripromettendosi di recuperare il gap con gli altri dipendenti dell’universo Fiat attraverso i successivi contratti integrativi aziendali». [5]
Laddove dominava l’agricoltura e imperversava la disoccupazione, sorge così uno dei più moderni complessi produttivi d’Europa. Galli: «Il sociologo Domenico Cerosimo scrisse in un bel libro (Viaggio a Melfi, Donzelli, 1994), con crudo realismo: ”Nel Sud arretrato e sottosviluppato, la Fiat, grazie agli incentivi pubblici, realizzò la fabbrica ad alta automazione”. Per tradurla in numeri e soldoni: a Melfi l’incidenza del costo del lavoro sul fatturato, scende dal 27 al 18 per cento; la produttività di ogni operaio sale da 14 a 28 auto l’anno». [3]
Il «nuovo modo di fare l’automobile» introdotto a Melfi si è basato fin dall’inizio su tre caratteristiche principali. Giacomo Ferrari: «La prima è la presenza dei fornitori nelle immediate vicinanze della linea di montaggio; la seconda è il cosiddetto just in time, cioè il meccanismo che permette di costruire direttamente le vetture in funzione del cliente finale, abolendo di fatto il magazzino; il terzo è l’organizzazione della fabbrica per squadre omogenee di operai e tecnici, battezzata con la sigla Ute (Unità tecnologica elementare). , quest’ultimo, l’aspetto che più ha rivoluzionato il concetto di fabbricazione in serie. Nelle Ute, dove il capo si chiama coach e la retribuzione è legata in parte ai risultati, si lavora su più turni per sei giorni la settimana». [6]
Passano gli anni. La flessibilità e l’alta produttività restano, ma si perde per strada la partecipazione dei lavoratori e la capacità della direzione aziendale di coltivare il coinvolgimento dei sindacati nel progetto. [4] La forbice salariale tra Fiat-Sata e il resto del gruppo comincia a ridursi nel 1996 con il rinnovo del contratto integrativo di gruppo. Paolo Griseri: «Ma da allora non ci sono più stati nuovi accordi e la differenza comincia a pesare. Anche perché l’orario di lavoro è distribuito su sei giorni e accade che chi smette di lavorare alle 22 del sabato debba tornare in fabbrica alle 22 della domenica». [2]
A Melfi sono in gioco tre questioni sindacali: la gestione del lavoro notturno; la revisione delle retribuzioni; l’intensità del lavoro. Massimo Mucchetti: «Nel 1994, quando Melfi aprì, l’età media era di 26 anni. In 10 anni ci sono stati matrimoni, figli, logorio, malattie professionali. Quello che bastava non basta più. Agli esordi i neoassunti andavano e tornavano da casa al lavoro indossando l’abito da lavoro granata. Era la manifestazione di un consenso diffuso, premessa indispensabile al buon funzionamento della fabbrica contemporanea senza scorte di magazzino, assai efficiente ma anche assai fragile di fronte al conflitto. La vertenza di Melfi andava prevenuta e comunque affrontata in loco avendo il coraggio di dire una parola di verità su un punto cruciale: le condizioni di minor favore per i dipendenti del Mezzogiorno non hanno scadenza o possono, con il tempo, venir riconsiderate?». [7]
Per poter pagare di più a Melfi, la Fiat dovrebbe prima tagliare i suoi rami secchi. Maggi & Livadiotti: «Cosa che ha tentato di fare quando, nel 2002, si è ritrovata in piena crisi. Alle prese con una sovracapacità produttiva micidiale, il management della Fiat ha cercato in ogni modo di chiudere lo stabilimento siciliano di Termini Imerese, un impianto vecchio e ingestibile sul fronte della logistica. Ma il sindacato s’è opposto con tutte le sue forze e alla fine palazzo Chigi ha negato il suo via libera». [5]
Lo spostamento delle produzioni verso i Paesi dell’Est è ormai un dato strutturale. Si pensi a Volkswagen (Repubblica Ceca e Ungheria), Peugeot-Citroën (Repubblica Ceca e Slovacchia), Renault (Romania). Sarcina: «In Germania il salario lordo d’un operaio si aggira sui 3.300 euro al mese, in Italia tocca i 2.500 euro, mentre in Polonia precipita a 530 e nella Repubblica Ceca a 494. In generale il monte salari copre il 10% dei costi di un’auto, chiavi in mano. Con queste cifre è chiaro che le industrie si muovono su margini ristretti». [8] ”il manifesto”: «Non per niente la nuova Panda viene prodotta esclusivamente in Polonia, nello stabilmento di Tychy, assicurando a Torino qualche margine di profitto in più. Non a caso il gruppo Volkswagen, principale concorrente Fiat, ha spostato alcune produzioni della Seat Ibiza dalla Spagna in Slovacchia, altro paese entrante nella Ue, per dare un monito pesante ai sindacati spagnoli». [9]
L’Ue accetta salari e stipendi «differenziati», regione per regione e anche settore per settore. Sarcina: «Ma a una condizione irrinunciabile: la busta paga deve riflettere il tasso di ”produttività”. Vale a dire, semplicemente, più soldi a chi produce di più (o a chi produce ”meglio”). Questo principio base della ”dottrina” politico-sociale dell’Unione Europea si incastra male con il ”caso Fiat-Melfi”. vero che al Sud il costo della vita è inferiore rispetto al resto del Paese; è vero anche che la ”flessibilità salariale” (stipendi più bassi) è stata una delle condizioni chiave per mettere insieme contributi pubblici e investimenti privati. Tuttavia è indiscutibile che gli indici di produttività di Melfi siano oggi molto alti. Anzi, secondo i sindacati sono pari (se non superiori) a quelli degli altri stabilimenti del gruppo. E, quindi, se si dovesse applicare fino in fondo l’’equazione europea”, anche i salari dovrebbero essere riportati ”in linea” con la produttività». [9]
Non è solo questione di soldi. Jenner Meletti: «La fabbrica post moderna è gestita come se fossimo ancora negli anni ’50, con capi e capetti che puniscono un operaio perché ha lasciato cadere a terra le briciole di un panino o l’operaia che ”si è ritirata troppo a lungo in bagno”. A forza di reprimere, la fabbrica è scoppiata come una pentola a pressione. Gli operai si sono accorti di essere trattati come schiavi». [10]
Nel meccanismo del just in time, tutto deve funzionare alla perfezione. Griseri: «La Lear, multinazionale del sedile, lavora con quattro ore di anticipo sulle linee di Mirafiori. Mercoledì pomeriggio la Lear si è fermata, mercoledì sera Mirafiori ha fatto altrettanto. Mancano le staffe delle portiere e il blocco dell’alzacristalli elettrico. Parti minime, piccoli dettagli: nell’area di Torino ci sono decine di aziende dell’indotto auto in grado di costruirle. Ma conviene realizzarle a Melfi, nell’indotto della piana di San Nicola, oggi teatro della rivolta». [11]
La vicenda di Melfi evidenzia alcuni aspetti decisamente allarmanti della crisi Fiat. Riva: «Primo: quello di un’organizzazione produttiva così rigida da essere esposta al rischio di infarto generale per la fermata di un singolo impianto. Secondo: quello di una competitività tuttora strettamente dipendente dai bassi salari pagati a una parte delle maestranze. Terzo: l’incapacità del management a sciogliere entrambi questi nodi, al punto di dover ingaggiare un braccio di ferro dall’esito incertissimo e, comunque, già devastante». [1]
Non siamo dinanzi a una questione che riguardi unicamente le relazioni industriali. Luciano Gallino: «Se l’azienda insiste in maniera così ossessiva sull’impiego intensivo della forza lavoro in ogni ora della giornata, ciò significa presumibilmente che i suoi margini di utile, la differenza tra costi e ricavi per unità di prodotto, sono esigui. E sono affidati non tanto alla superiorità del design, della tecnologia, delle prestazioni del prodotto rispetto alla concorrenza, quanto alla produttività materiale del lavoro». [12]
Nel caso Melfi sono a confronto due debolezze. Giulio Anselmi: «Quella dell’azienda ridotta a cercare nel costo del lavoro le vie della ripresa, e quella di operai alle prese con pesanti condizioni di lavoro e di vita». [13] La Fiat ha un problema, i sindacati ne hanno un altro. Come sottolinea Gallino, Torino «dovrebbe rendersi conto che il modello militar-burocratico di organizzazione aziendale è oggi perdente perché cinesi e indiani, russi e brasiliani lo sanno ormai applicare con ancora maggiore durezza, pagando salari ancora inferiori». [14]
Per i sindacati, il problema è quello della rappresentanza. Gallino: «Il caso Melfi dimostra che vi sono tuttora larghi strati di lavoratori che non sono dispersi nello spazio, sono inquadrati da contratti simili e debbono far fronte a condizioni di lavoro analoghe. Hanno insomma un destino comune, e comuni speranze di migliorarle. Dinanzi a questo fatto l’unità sindacale, almeno su alcuni punti essenziali, diventa un dovere non meno che una necessità». [14] Maggi & Livadiotti: «La Fiom, da sempre all’ala estrema della Cgil, era stata per anni tenuta a freno, con le buone o con le cattive, da Sergio Cofferati. Con Guglielmo Epifani è tornata a giocare il suo ruolo, che è quello di un sindacato di lotta e non di negoziazione. L’ultimo contratto nazionale dei metalmeccanici è stato il primo a non portare in calce la firma della Fiom. Che dal giorno dopo ha iniziato a battere le fabbriche per ottenere dei pre-contratti che delegittimassero l’intesa raggiunta dalla Federmeccanica (da sempre feudo della Fiat) con le organizzazioni della Cisl e della Uil». [5]
Negli ultimi anni i metalmeccanici della Fiom e quelli di Fim-Uilm hanno vissuto da separati in casa. Ma il problema riguarda soprattutto Cgil e Fiom. Luciano Costantini: «C’è chi, forse mettendo troppo malizia alla propria fantasia, spiega che Melfi arriva prima di Livorno, cioè del congresso di giugno della Fiom dove si confronteranno due mozioni distinte e contrapposte. Non ci sarebbe neppure nulla di strano, se il congresso non fosse stato anticipato di due anni proprio per la necessità di una verifica sulla politica sindacale della Cgil. In altre parole, nella città toscana la componente maggioritaria delle ”tute blu” cigielline (quella del leader, Gianni Rinaldini) chiederà ufficialmente un cambio di rotta a Guglielmo Epifani, accusato, neppure troppo blandamente, di aver portato la confederazione su un crinale troppo morbido rispetto al governo e alla Confindustria [...] la ”rivolta” dello stabilimento Fiat - al di là di oggettivi motivi sindacali - può rappresentare anche un salto di qualità nel confronto a distanza tra Rinaldini ed Epifani». [15]
Il vero pericolo è che dal granello di Melfi possa nascere una valanga in grado di travolgere tutto e tutti. Griseri: «Quando si trovano a maneggiare una vertenza con queste caratteristiche, i dirigenti sindacali possono far fatica a resistere contro la tentazione di trasformare una lotta di fabbrica in una sorta di arma totale. Tuttavia, è proprio in queste occasioni che emerge la differenza fra il rappresentante dei lavoratori capace di guardare con lungimiranza agli interessi dei medesimi e quello che procede a testa bassa senza alzare gli occhi oltre la punta del naso». [2]
Sono degli inguaribili nostalgici quelli della Fiom? Il conflitto non serve più? De Gennari: «Melfi aiuterà a dare delle risposte. Per ora il sindacato di Rinaldini può vantare il sorpasso sulla Fim in termini di delegati a Melfi, il ricambio generazionale dei rappresentanti a Mirafiori». Giorgio Cremaschi (uno dei segretari nazionali Fiom): «No, non siamo una forza del passato, noi guardiamo al futuro: la nostra ambizione è portare la sensibilità del movimento new global nei luoghi di lavoro, la critica al liberismo dentro la produzione». [16]