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 2004  aprile 23 Venerdì calendario

Lettere ai giornali. I salotti di Mieli, le ”d” di Giordano Bruno Guerri. Corriere della Sera, 23/04/2004 Mi permetta, caro Mieli, di soddisfare - almeno in parte - la curiosità del lettore Daniele Amerio e di replicare alla sua affermazione secondo la quale i «salotti», dove i politici che han fatto finta di darsi legnate di giorno inciuciano di notte, sono «una fantasia della grande provincia italiana», una leggenda, non esistono e non sarebbero mai esistiti

Lettere ai giornali. I salotti di Mieli, le ”d” di Giordano Bruno Guerri. Corriere della Sera, 23/04/2004 Mi permetta, caro Mieli, di soddisfare - almeno in parte - la curiosità del lettore Daniele Amerio e di replicare alla sua affermazione secondo la quale i «salotti», dove i politici che han fatto finta di darsi legnate di giorno inciuciano di notte, sono «una fantasia della grande provincia italiana», una leggenda, non esistono e non sarebbero mai esistiti. Alla fine degli anni Settanta, quando l’’Europeo”, dove allora lavoravo, si trasferì nella capitale, pilotato da Barbara Alberti frequentai anch’io per qualche tempo, per dovere di mestiere, per curiosità e perché estraneo alla città non avevo niente di meglio da fare, i «salotti» romani. Allora esistevano. In quegli anni proprio l’’Europeo”, diretto da Gianluigi Melega, aveva dedicato un grande servizio di copertina alle «sette regine» dei salotti romani. E in quei salotti si poteva vedere di tutto: l’integerrimo moralista del ”manifesto” a braccetto col palazzinaro dalla dubbia reputazione, il repubblicano che aveva appena tuonato contro Cosa Nostra intrecciato al mafioso d’alto bordo, il deputato comunista con quello democristiano, il ministro della Sanità che usciva dal cesso sniffando coca, mentre il latitante Piperno teneva banco attorniato da rappresentanti delle Istituzioni, direttori di Rete, giornalisti con l’aria di manutengoli, sociologi alla moda, cocottes e parassiti di tutte le risme. Non mancava proprio nessuno, nel salotto, tranne «i fascisti», ma poiché allora non c’era quasi anima viva che osasse dirsi di destra, e anche gli imprenditori erano diventati tutti rivoluzionari o, come minimo, comunisti, si può dire che c’erano davvero tutti. Non so se quei salotti esistano ancora. Ma il punto non è questo. Nel mio libro cui faceva riferimento il lettore Amerio, il «salotto» non ha un significato letterale ma simbolico. Sta per quei luoghi dietro le quinte dove uomini politici delle più varie e opposte tendenze, personaggi delle istituzioni e del parastato, brasseurs d’affaires, capi struttura delle Televisioni nazionali, intellettuali di regime and all sorts of men, operando nella vasta area, non legale, ma nemmeno apertamente illegale, e quindi inafferrabile, dell’abuso e del sopruso, fanno accordi sottobanco e prendono decisioni che hanno rilievo per la vita pubblica e sociale fuori da ogni controllo. E che queste combines fra le oligarchie democratiche, politiche, economiche e a volte anche criminali, siano cosa di ogni giorno, credo che nemmeno lei, caro Mieli, possa negarlo. Massimo Fini Caro Fini, nessuno nega che esistano quei luoghi per così dire riparati dove persone di diversa, talvolta opposta appartenenza politica o di affari stipulano i vituperati accordi sottobanco di cui al suo bel libro «Sudditi. Manifesto contro la democrazia» (Marsilio). L’equivoco è nato dall’aver lei fatto cenno, nel parlare del «salotto simbolico», ai salotti veri e propri che - «per dovere di mestiere», beninteso - lei stesso ebbe occasione di frequentare alla fine degli anni Settanta. Tali salotti sono rimasti tali e quali, in prevalenza frequentati dalle stesse persone di allora (immagini l’allegria), con l’immissione tuttalpiù degli esclusi di allora, quelli che lei ha definito i «fascisti» riferendosi, credo, ai missini degli anni Settanta e ai seguaci, oggi, di Gianfranco Fini (dal momento che se invece il discorso riguardasse coloro che, finché non fu travolto, avevano simpatizzato - o qualcosina di più - per Benito Mussolini, lei sarebbe in errore: di quei tipi nei salotti ce n’erano anche quando ne scrisse per l’’Europeo”). Ma tra i due tipi di salotto, quello vero e quello «simbolico», a quel che mi risulta non c’è contatto alcuno. Anzi, uomini e donne di potere (e di intrallazzo ad alto livello) si distinguono per una curata, quasi maniacale assenza da quel genere di simposio. E se ce ne fosse una (ma non c’è), questa potrebbe essere l’unica ragione per affacciarsi a quelle cene. Paolo Mieli L’Indipendente, 23/04/2004 All’attenzione del Direttore (e di chi compone i pezzi). A me, per piacere, le «d eufoniche» non me le toccate. Se vi azzardate un’altra volta vengo lì e vi do fuoco. Mica è politica questa, questa è roba seria. Prima dite «più individuo e meno Stato» (a me Stato me lo dovete scrivere sempre con la maiuscola, io sto ancora a Stato e Rivoluzione: «Tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato». Dice: «Ma questo mi sa che non è Lenin». Eh, mi sa pure a me: è l’Amico vostro. Non l’arcorese, quell’Altro), e già mi fate incazzare. Poi, tra un più individuo di qua e un meno Stato di là, venite a rompere i coglioni alle «d» mie? A quando la tassa sul celibato? E il «voi» obbligatorio no? Il linguaggio è creazione artistica (Croce). Ed è Paolo II, il potere assoluto per antonomasia, che partendo da Cellini - il quale peraltro aveva ammazzato due cristiani, pare pure a tradimento, anche se lui dice che erano figli di mignotta - sentenzia per tutti i posteri che «l’artista non dev’essere ubrigato alle leggi». E tu invece - che ti chiami pure Giordano Bruno - fai una legge per vietare l’uso delle d. Manco il peggio Papa. La d eufonica non è un pleonasmo - ci si nasconde Dio, ci si nasconde l’Arte - influisce sul suono, ma soprattutto sul ritmo della frase, sulla metrica, sul numero delle sillabe, e quindi sul significato, tale e quale alla musica, perché dietro ai suoni, e soprattutto dietro al ritmo, c’è il ritmo e il respiro stesso del Cosmo. Ce l’hai presente «Ed è subito sera?» (Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera). Levaci la «d». Che cazzo ti rimane? là che s’annida l’angoscia dell’uomo, il dramma dell’esistenza, Heidegger, Bergson, gli angeli caduti, il paradiso perduto. Se levi quella «d», levi tutto. Il problema, eventualmente, non è nella «d» ma in chi scrive: un cane resta un cane, con o senza «d». Dice: «Vabbé, ma io mica sto a fare L’infinito, sto a fare un giornale, e lo faccio come mi pare e piace». Ho capito, ma allora perché m’hai chiamato a me? Io non faccio articoli, faccio carmina brevi. Se volevi levare le «d», chiamavi Socci. Di’ piuttosto, per cortesia, che non scrivano più «c’ho» o «c’hai» per «ciò» o «ciài». Questo sì che è un errore di ortografia: «c’ho» o «c’hai» in italiano si legge solo «kò» «kài», e in nessunissimo altro modo. Ti verrebbe mai in mente di leggere «ciave» per «chiave»? Dice: «Ma i giornali scrivono tutti così». E sono tutti somari (poi bocciano Busi). Andassero a scuola di Storia della lingua, o di Filologia italiana. Quelle - come dice Serianni - sono voci del verbo «ciavere», attestate così, con quella grafia, già nel Belli. «Ciazzecca» quindi è diverso da «c’azzecca», che può leggersi solo «kazzecca». Dice: «Ma lo scrive anche ”Repubblica”». E chi se ne frega: somari pure quelli. I dimostrativi «sto», «sta» si scrivono senza apostrofo, e non «’sto», perché non sono aferesi di «questo», che viene dalla contrazione del tardo latino «*eccum iste». «Sto» difatti non è un romanismo, viene bensì direttamente dal latino «iste», per derivazione colta, ed è già in Dante. «Sé stesso», invece, si scrive sempre con l’accento, come insegna Benedetto Croce. Dice: «Vabbé, ma non avevi detto che parlavi d’Alda D’Eusanio?». Sì, mi dispiace, sarà per la prossima volta: sta «d» mi rodeva proprio il culo. Ci ho fatto certe liti con gli editor di Donzelli. Antonio Pennacchi