[1] Ferruccio De Bortoli, ཿLa Stampa 24/4/2004; [2] Attilio Giordano, ཿVenerdì 23/4/2004; [3] Tito Boeri, ཿLa Stampa 21/4/2004; [4] Gigi Riva, ཿL’espresso 30/4/2004; [5] Massimo Livi Bacci, ཿla Repubblica 23/4/2004; [6] Francesco Fasani, ཿLa Stampa , 24 aprile 2004
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 26 APRILE 2004
Arrivano i poveri: la Ue davanti all’allargamento a 25.
L’Unione europea si appresta a varare il più grande allargamento della sua storia: il primo maggio l’ingresso di 10 Paesi porterà la popolazione totale da 379 a 458 milioni. Ferruccio De Bortoli: «Molto più degli Stati Uniti (291), ma in termini di prodotto lordo crescerà solo dell’equivalente dell’Olanda, raggiungendo il 28 per cento della ricchezza prodotta al mondo contro il 32,3 dell’America». [1] I nuovi membri sono Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Ungheria. [2] Tito Boeri: «Quando li si menziona uno ad uno, prevalgono spesso le opinioni contrarie all’allargamento». [3]
Solo il 47 per cento dei cittadini dei Quindici è favorevole all’allargamento (ultimo sondaggio Eurobarometro). Gli italiani sono i più entusiasti (61 per cento), ma mettono l’accoglienza di nuovi paesi all’ultimo posto (31 per cento) tra le priorità dell’Unione. [4] Massimo Livi Bacci: «Si teme che l’arretratezza delle infrastrutture dei nuovi membri sottragga risorse al club dei Quindici; che le loro istituzioni politiche ed amministrative non siano adeguate al processo d’integrazione; che l’interazione con l’area culturale slava, per troppo tempo considerata subalterna dell’Europa occidentale, generi frutti amari. Si teme, prosaicamente, che il basso reddito pro-capite dei 10 - appena un quinto di quello dei 15 in termini monetari e ad un modesto 40 per cento in potere di acquisto equivalente - generi concorrenza selvaggia e che milioni di persone, avvalendosi delle norme che prevedono la libera circolazione all’interno della Ue, si trasferiscano verso occidente». [5]
Quel che preoccupa di più è l’immigrazione. Boeri: «Le nostre stime prevedono circa 30.000 arrivi in Italia nei primi anni (in caso di piena liberalizzazione dei flussi di lavoratori dai nuovi Paesi dell’Unione) e si tratterà di lavoratori relativamente ben istruiti e culturalmente a noi affini, quindi più facilmente in grado di integrarsi». [3] Francesco Fasani: «Cosa succederà ai mercati del lavoro europei il primo maggio 2004, con l’ingresso dei nuovi Stati membri nell’Unione europea? Poco o nulla, visto che tali mercati rimarranno sostanzialmente inaccessibili ai cittadini della nuova Europa. Le promesse di mantenere aperte le frontiere fatte in fase di negoziazione sono progressivamente svanite nel corso dei primi mesi del 2004, innescando una rapida ”corsa alla chiusura” per la quale la decisione in senso restrittivo di un Paese ha spinto gli altri a muoversi in analoga direzione». [6]
Germania e Austria sono state le prime ad annunciare l’intenzione di tener chiuse le frontiere. Attilio Giordano: «La preoccupazione di Bonn aveva un nome: Polonia. Lo stato confinante è stato in passato uno dei paesi di provenienza di migliaia di clandestini oltre che di lavoratori irregolari. Si potevano aprire, all’improvviso, le porte senza nulla chiedere? La posizione tedesca ha creato immediatamente un varco anche tra chi si era dichiarato disposto all’apertura senza condizioni fin dall’inizio, come Svezia e Danimarca, una volta paladini dell’accoglienza. Che hanno fatto sapere che occorreva riflettere ancora. E mentre Gran Bretagna e Irlanda, controcorrente, dichiaravano che, avendo bisogno di lavoratori, avrebbero aperto le frontiere ai nuovi (dunque, non una questione di democrazia comunitaria, ma d’interesse), gli altri – Italia compresa – sembravano propensi ad allinearsi alla maggioranza: moratoria di due anni prorogabile per altri tre e, infine, per ulteriori due (nel 2011, comunque, tutto il territorio Ue dovrà essere liberalizzato)». [2]
La paura è che arrivino milioni di lavoratori a basso costo in competizione con quelli della nazione ospite. Ferruccio Pastore, vice-direttore del Cespi (Centro studi di politica internazionale): «In realtà è proprio per questa via che si favoriscono ingressi di lavoratori in nero, che non potranno essere regolarizzati e trattati come gli altri. Non è credibile, infatti, che un immigrato si fermi di fronte a questo blocco, sapendo tra l’altro che in due anni sarà probabilmente superato. Verranno lo stesso, come visitatori, si fermeranno e troveranno lavoro irregolare». [2]
I timori di un’ondata immigratoria sono infondati. Livi Bacci: «All’indomani del crollo del sistema sovietico circolavano timori di una gigantesca ondata migratoria alimentata da una base di potenziali migranti valutata in 15-20 milioni. Nell’ex Urss è avvenuto di tutto, negli ultimi dodici anni, fuorché un esodo migratorio. Qualche anno prima, nel 1986, l’allargamento della Ue a Spagna e Portogallo - con reddito pro capite pari alle metà del resto d’Europa - non smosse dalla penisola iberica un solo migrante in più rispetto ai già pochissimi in cerca di lavoro all’estero». [5]
Gli scettici leggano lo studio dell’European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions di Dublino. Livi Bacci: «Appena l’1,5 per cento della popolazione di oltre 15 anni ha manifestato l’intenzione di emigrare verso la Ue-15 nei 5 anni successivi all’indagine. Tradotto in cifre, questo significa poco più di un milione di persone, circa 200.000 all’anno. Tenendo conto che non tutte le ”intenzioni” si traducono in realtà, e che una certa proporzione degli emigranti rientra in patria, la cifra si riduce ulteriormente ad un flusso assai modesto per una popolazione Ue-15 che oggi conta 375 milioni di abitanti, anche se evidentemente concentrato nei paesi confinanti (soprattutto Germania e Austria che non a caso si cautelano con la moratoria settennale)». [5]
Ci si attrezza per la valanga, al massimo sarà una palla di neve. Gigi Riva: «O almeno questo sostiene un altro sondaggio Eurobarometro che la Commissione europea ha divulgato con enfasi nella speranza di abbassare la febbre da immigrazione. Solo l’uno per cento della popolazione in età di lavoro dei nuovi membri, è disponibile ad abbandonare la propria casa in cerca di fortuna. In numeri assoluti fa 220 mila persone su una popolazione della Ue allargata di 455 milioni di persone. Nella maggioranza dei casi si tratta di giovani, non sposati, per un terzo studenti e nel 25 per cento dei casi con una laurea. Semmai a preoccuparsi dovrebbero essere i Paesi d’origine, per via dell’esodo di cervelli». [4]
Il paradosso è che a noi quei lavoratori servono. Boeri: «Le imprese del Nord hanno formulato domande di lavoratori immigratori quattro volte superiori agli ingressi garantiti del decreto flussi e in città come Torino ci sono dieci domande per ogni ingresso regolare. Ci stiamo condannando, in questo modo, a importare lavoro in nero di immigrati, anziché sfruttare l’allargamento per compensare due problemi strutturali del nostro sistema produttivo: il dualismo Nord-Sud (gli immigrati dai nuovi Paesi arriveranno e lavoreranno nelle regioni più forti del Paese) e la scarsa propensione alla mobilità degli italiani». [3]
Non tutte le preoccupazioni da allargamento sono infondate. Boeri: «Vi sono anche dei costi legati all’eterogeneità dei nuovi Paesi. Sono, soprattutto, costi politici per l’Unione. Un’Europa più grande rischia di diventare meno unita, meno integrata, a meno che si riesca al più presto a ridisegnare le attribuzioni di competenze fra i diversi livelli di governo, comunitario, nazionale e locale. Altrimenti l’allargamento può diventare sinonimo di riduzione del grado di integrazione politica. L’allargamento richiede infatti revisioni profonde dei compiti assegnati alle istituzioni comunitarie, anziché un semplice congelamento del bilancio dell’Unione, come quello deciso sin qui dal Consiglio (al vertice di Copenaghen). Si tratta di riformare radicalmente la politica agricola comune, rivedere le politiche strutturali, mettere in piedi un sistema di finanziamento di questi interventi trasparente e basato sulle differenze di reddito pro capite, dunque in grado di ridistribuire non solo nel dare, ma anche nel ricevere». [3]
I fondi strutturali sono un terreno di battaglia furibonda. La Spagna rischia di perdere tra il 25 e il 30 per cento dei fondi regionali di coesione nelle prospettive finanziarie 2007-2013 (per l’arco di tempo 2000-2006 erano 52 miliardi di euro). La Francia teme restrizioni di budget e riduzione di finanziamenti per i suoi agricoltori a favore dei colleghi polacchi. Riva: «Il più preoccupato di tutti è comunque il solito Schröder che ha avuto più volte modo di affermare: ”L’ampliamento deve essere affrontato dal punto di vista economico”. Dal 1994 al 1999 i cinque nuovi Länder tedeschi, cioè l’ex Germania est, hanno incassato 15 miliardi di euro di fondi regionali. Dal 1990, solo per sviluppo di infrastrutture e cultura, sono piovuti altri 2,5 miliardi di euro l’anno sugli ex fratelli separati». [4]
Hanno diritto ai soldi le regioni il cui Pil è sotto il 75 per cento della media Ue. Riva: «Abbassandosi la soglia per via dell’ingresso di paesi poveri, molte regioni ex assistite vengono escluse. Per quanto riguarda l’Italia sicuramente escono dal gruppo Basilicata e Sardegna, e si discute della Puglia. Restano tra le sicuramente sovvenzionabili solo Campania, Calabria e Sicilia. Nulla è ancora definito, ma l’orientamento è quello di dividere i 336 miliardi di euro del piano 2007-2013 a metà tra le aree più deboli dei nuovi Stati e quelle ancora in difficoltà dei Quindici». [4]
C’è poi una questione di concorrenza e mercati. Riva: «Ancora una volta è la Spagna la prima a temerla. L’allarme l’ha lanciato la Banca centrale avvertendo di ravvisare ”alcuni elementi di rischio” nel basso costo del lavoro nei Paesi dell’Est. Questo potrebbe comportare il dirottamento di investimenti stranieri di cui, con Aznar, Madrid ha goduto anche grazie alla politica iperliberista. In più l’export spagnolo rappresenta solo 1,8 per cento del totale dei Dieci nuovi contro il 25 per cento della Germania. Che, anche geograficamente, tornerà ad essere al cuore dell’Europa e non ai suoi margini». [4]
L’allargamento è un incubo per l’opinione pubblica tedesca. Specie quella dell’Est, che teme un aumento della disoccupazione (già alta). Andrea Tarquini: «Ma per le imprese è una chance cui giungere preparati. Il made in Germany infatti - trasformato in ”made by Siemens” o ”made by Mercedes Benz” - è già fortissimo a Varsavia, Praga, Bratislava, Budapest, in Slovenia e nelle Repubbliche baltiche. Colossi come Siemens (elettronica, trasporti, telecomunicazioni) Aventis e Bayer (chimica e farmaceutica) o automobilistici (Volkswagen, DaimlerChrysler) hanno investito in massa oltre l’Oder e la Neisse. Vw ha enormi impianti a Bratislava, e ha rilevato la branca auto di Skoda salvandola dal marasma postcomunista. Siemens ha preso i comparti elettronica, centrali energetiche, ferroviario del colosso cecoslovacco. Grandi investimenti chimici ed elettronici tedeschi anche in Ungheria. E in Polonia, su 48mila società straniere presenti, il gruppo più grosso sono i seimila imprenditori tedeschi. E così l’estremismo con cui la IgMetall difende regole dure, salari alti, welfare e fisco pesante e orario corto potrà avere conseguenze devastanti per l’occupazione in Germania. Con l’est in casa la classe operaia tedesca non va più in Paradiso». [7]
Nell’attuale Ue si lavora il 30 per cento meno che negli Usa. Nell’Ue a 25 bisognerà lavorare di più per un salario (orario) inferiore. il caso della Bocholt, nel Nordreno-Vestfalia. Marika De Feo: «Per 230 dipendenti l’orario di lavoro settimanale salirà da 35 a 40 ore a parità di salario, con il beneplacito del potente sindacato metalmeccanico della Ig-Metall. Un esperimento, per ora. Ma potrebbe essere esteso per salvare oltre 5000 posti di lavoro dalla delocalizzazione nei Paesi dell’Est. L’intesa sfrutta una deroga, prevista dal contratto nazionale delle tute blu tedesche, alle 35 ore settimanali oggi in vigore nei Länder occidentali. E abbassa il costo del lavoro di circa il 30 per cento, rendendolo competitivo rispetto a un lavoratore dell’Est. L’orario salirà senza alcun extra su straordinari e sabati lavorativi. Ma c’è di più. I sindacati, spiegano alla Siemens, hanno accettato anche l’abolizione della tredicesima e della quattordicesima, che in futuro saranno legate a una compartecipazione agli eventuali utili dell’azienda». [8]
Dall’allargamento potrebbe venire il ”big-push” all’economia. Boeri: «Aprire l’Unione a Paesi che crescono a tassi del 4-5 per cento all’anno, in cui risiedono quasi 100 milioni di persone, vuol dire darsi una bella scossa. Significa allargare i mercati e poter raggiungere quelle economie di scala che sono il motore della crescita. Il progresso tecnologico tipicamente premia chi raggiunge dimensioni più grandi. Per poter beneficiare appieno delle nuove tecnologie è perciò importante operare in un mercato più vasto, come quello dell’Unione a 25 (presto 27) Paesi». [3]
Il progetto europeo ambisce alla costruzione d’una grande economia di scala mondiale. Jean-Paul Fitoussi: «Un mercato unico, alimentato da una moneta unica, amministrato da un’unica istanza regolatrice e, in un momento che dobbiamo sperare vicino, retto da un governo federale che integri tra loro una collezione di paesi piccoli, medi e grandi. Stiamo cercando di far nascere un ”superdinosauro” ancor meno capace d’adattarsi dei paesi attualmente vilipesi per il cattivo andamento dei loro bilanci?». [9]
Si va delineando un’Europa a scalini. Giordano: «I Quindici (divenuti 17 con Malta e Cipro), ricchi e spaventati; gli otto nuovi ammessi in attesa sulla porta; i due paesi di prossimo ingresso (Romania e Bulgaria) a metà strada tra il ruolo di emigranti e paese di immigrazione (dalla Moldavia e dall’Ucraina, per esempio, per i romeni). E un ”resto del mondo” povero che preme alle mura, con anelli diversi, della fortezza Europa. Dentro, ceti dirigenti che sembrano ragionare solo su reddito e Pil». [2]
Abbiamo alternative alla sfida europea? De Bortoli: «No. Qualche esempio. Gli ultimi dati del Fondo monetario, al di là della disputa tremontiana sui decimali del nostro deficit, devono farci riflettere: la Cina cresce al ritmo annuale dell’8,5 per cento; gli Stati Uniti del 4,6; l’Europa attuale dell’1,7; l’Italia dell’1. Di questo passo, fra dieci anni, saremo spacciati e noi italiani ancora di più». [1]