Giuseppe Zaccaria La Stampa, 15/04/2004, 15 aprile 2004
Nuovo Iraq: Baghdad è diventata il paradiso del libero mercato, La Stampa, 15/04/2004 Nell’affollato ascensore dell’albergo Palestine il ventre del gigante autraliano dà particolarmente fastidio, anche perché si sta accalcati ed ogni sporgenza preme sulle costole
Nuovo Iraq: Baghdad è diventata il paradiso del libero mercato, La Stampa, 15/04/2004 Nell’affollato ascensore dell’albergo Palestine il ventre del gigante autraliano dà particolarmente fastidio, anche perché si sta accalcati ed ogni sporgenza preme sulle costole. Però nessuno protesta perché l’uomo puzza di sudore, sovrasta di due spanne tutti i presenti e quel che gli sporge dai fianchi lo fa assomigliare ad un grande puntaspilli. Dietro un giubbetto antiproiettile a due piazze, dal corpaccione del «gorilla» spuntano i calci di due pistole, una per parte, l’impugnatura di un coltello formato «machete», l’antenna di una radio trasmittente, mentre la mano destra impugna il mitragliatore come fosse un giocattolo. Michael Milligan detto «Jumbo» (il nome campeggia da una «Id card» plastificata, il soprannome circola) esce dall’ascensore seguito da un corale sospiro di sollievo e si avvia imponente al lavoro quotidiano. C’è un po’ di gente da terrorizzare in qualche nuova sezione dello sterminato «Baghdad Market». Con l’eccezione forse di Macao o qualche altro porto dell’Estremo Oriente dopo la ritirata giapponese, raramente le guerre, la storia e la stupidità umana avevano potuto trasformare un’intera nazione in un così sterminato «free shop», così gigantesca estensione di un mercato tanto libero dal farsi selvaggio. Eppure quanti credono nei vantaggi del libero mercato qui trovano il libero mercato allo stato puro. Lo si vede non appena uno si arrischi a varcare i confini della «fortezza d’Occidente», il complesso degli alberghi difeso da muraglioni in cemento armato, per vedere cosa c’è fuori. I soldati americani lo fanno malvolentieri e questo si può capire, qui dentro ci sono Internet e birre, tv satellitari e telefoni per chiamare casa, perfino un venditore di Dvd che offre copie pirata degli ultimissimi film in lingua inglese. Oltre i muraglioni c’è l’Iraq che vive, muore, pulsa, sanguina, si ammazza, salta sulle mine, combatte l’occupante, si dilania in fazioni ma intanto costruisce e stabilizza una forma d’economia che sarebbe errato ritenere primitiva, clanica o terroristica ed appare invece estremamente moderna, per quanto gestita da businessmen che indossano il dishdash. Vai in Iraq, ragazzo, se vuoi farti una vita. Se sei tosto, deciso, se sai maneggiare le armi o almeno fai finta di farlo, se hai un po’ di danaro o ne hai per nulla questo è il posto in cui farai fortuna. Non era mai accaduto nei tempi moderni che un’intera nazione - una nazione produttrice di petrolio - restasse per più di un anno priva di controlli alle frontiere e di qualsiasi tipo di controllo o di tassa. Saddam Hussein era scomparso da meno di una settimana e già dai mercati di Baghdad e Sadr City, in migliaia di esemplari, cominciava a spuntare il frutto proibito. La parabola televisiva, fino ad allora strumento vietatissimo (si rischiavano il sequestro ed una multa di 400 mila dinari) apparve su tutte le bancarelle dei mercati a prezzi molto bassi. Si trattava ancora di attrezzature di second’ordine prodotte a Taiwan, ma da quei giorni si è scatenato il diluvio: colonne di camion da Siria e Giordania carichi di frigoriferi, televisori, condizionatori d’aria, cd players. C’era gente che rivendeva a pochi dollari i kalasnikhov abbandonati dall’esercito per rinnovare la cucina di casa. In quei giorni un venditore di Sadr City propose a chi scrive: «Se mi dai la tua macchina fotografica ti posso dare in cambio tre mitra oppure un lanciarazzi». Nello stesso tempo chi aveva danaro da parte chiamava i Paesi vicini investendo in carichi di qualsiasi merce, e chi non ne aveva telefonava ai parenti all’estero chiedendo: «eljel li shahina», mandami un camion. Il valore di qualsiasi merce si triplicava in un mercato interno reso famelico da dodici anni di sanzioni economiche. Per chiamare c’erano soltanto i «Thuraya», telefonini satellitari di preferenza sequestrati a giornalisti stranieri da funzionari dell’ex ministero dell’Informazione: i primi «manager» della ripresa economica irachena sono stati gli scherani del passato regime. Qualche mese dopo qualcuno dev’essersi accorto che il mercato della telefonia poteva rendere somme ancora maggiori, e da quel momento i camion che giungevano dall’estero portavano carichi di Nokia piuttosto che di telefonini Siemens. Un bando molto disinvolto ha affidato alla ”418”, compagnia egiziana, l’appalto del collegamento mobile per tutto l’Iraq centro-settentrionale. A Sud la concessione sarebbe valida ma non funziona, perché la rete del Kuwait ha già potenziato i ripetitori ed invade l’area sciita «succhiando» ai concorrenti le connessioni in rooming. Risultato: se provi ad accendere un telefonino europeo nel bel mezzo del «Baghdad Market» ricevi messaggi del tipo «Benvenuti in Egitto», «Ecco i numeri dell’ufficio per il turismo sul Nilo» oppure (è accaduto ieri) «Benvenuti in Italia». Più grande è il disordine più ricco è il mercato. Ancora oggi, ad un anno dalla presa di potere delle autorità americane e dopo cinque miliardi e mezzo di dollari di investimenti nella ricostruzione, nella città di Baghdad interi quartieri sono tagliati fuori dalle normali connessioni telefoniche. Se chiami un amico a casa - lì dove le centrali sono state riabilitate - puoi sentire indifferentemente un segnale di «libero» quando il telefono non squilla oppure un «occupato» mentre nessuno sta parlando, il tutto accompagnato da fruscii che fanno pensare ad una tempesta magnetica. Hanno spalancato la strada prima ai satellitari e poi al telefonini senza ripristinare neppure la più essenziale rete di comunicazioni. In questo consiste l’assoluta «modernità» del caos iracheno. Tutto quel che si sta sviluppando in un territorio desertico e selvaggio riesce in qualche modo ad obbedire alle regole del superfluo, moltiplica miliardi di dollari e migliaia di morti, instaura imperi economici nati in pochi mesi e pronti a difendersi con le unghie e con i denti, ovvero con i «vigilantes» e la religione, i mitragliatori e le auto-bomba. Anche l’idea che i «gorilla» occidentali dipendano solo da società americane o ad esse collegate è vera solo in parte: certo, la Hullyburton di Dick Cheney è costretta a rallentare i rifornimenti alle truppe combattenti americane perché ci sono «difficoltà negli apparati di sicurezza», ma anche i ricchi iracheni ormai arruolano piccoli eserciti privati. Nella capitale esistono almeno tre grandi famiglie che si proteggono con reparti adeguati. I Bahrani, sunniti già perseguitati da Saddam, gli Al Bounnìa, sciiti molto impegnati nei lavori pubblici e gli Al Khaadi, imperatori dell’alimentazione. Un paio d’anni fa il capofamiglia, Sabah Al Khaadi, osò protestare con Saddam Hussein perchè il figlio Oudai gli aveva sottratto una fabbrica miliardaria, quella che imbottiglia la Pepsi Cola in Iraq. Venne arrestato, e tornato libero in piena «democrazia» è stato ucciso da fedelissimi della famiglia Hussein. Adesso i suoi figli girano circondati da guardie del corpo multicolori ed auto blindate. A proposito, le automobili: in meno di un anno ne sono state importate almeno cinquecentomila. Senza tasse, senza leggi, senza targhe costano poco più della metà di quanto valgono nel resto del mondo. Ed altri piccoli eserciti privati oggi controllano nel quartiere di Kharrada le due grandi «fiere» che appartengono una ai Sardar e l’altra ai Sabbah. Sono semplici concessionarie, ma serebbe come definire canotto una portaerei: ognuna delle due filiali schiera in grandi piazzali duemila vetture nuove di zecca, lucidissime grosse cilindrate, e tutte le mattine si vedono beduini che dalle lunghe vesti impolverate tirano fuori pacchi di dollari. La Baghdad degli spioni e dei sorveglianti, dei «mujaheddini» e dei sequestratori è soprattutto questa: un nuovo mercato senza regole che troppe bande cercano di controllare. Giuseppe Zaccaria