Giulio Tremonti Il Sole-24 ore, 13/04/2004, 13 aprile 2004
Tremonti vorrebbe darci una scossa: ecco come, Il Sole-24 ore, 13/04/2004 Due «cifre» e due visioni del mondo: Cina ed Europa; «9%», «0,4%»
Tremonti vorrebbe darci una scossa: ecco come, Il Sole-24 ore, 13/04/2004 Due «cifre» e due visioni del mondo: Cina ed Europa; «9%», «0,4%». La Repubblica popolare di Cina cresce strutturalmente al 9% per anno. Se crescesse allo stesso tasso Taiwan, sarebbe solo un positivo fatto economico. Se cresce al 9% un Paese con 1,3 miliardi di abitanti, vuole dire che stanno cambiando la velocità e la struttura del mondo. Credo di essere stato il primo uomo di governo occidentale a segnalarne gli effetti, in sede internazionale. Per questo ho difficoltà a capire l’Europa della Commissione Prodi. La Commissione Prodi, oltre a tantissimi «bla bla», non ha fatto (o almeno proposto) nulla di serio perché la crescita dell’eurozona superasse lo 0,4%; e, appena qualche giorno fa, non ha rilevato seriamente il fatto che, a causa di una crescita allo 0,4%, l’85% del Pil lordo europeo supera il 3% stabilito dal Patto di stabilità e di crescita. Diversamente invece di spiegare seppur tardivamente la «magia» dell’early warning all’Olanda, la Commissione Prodi ha fatto di tutto per drammatizzare mediaticamente l’eventuale superamento, per uno 0,2% del citato 3%, da parte dell’Italia. Superamento che sarà da verificare comunque... solo nel febbraio del 2005! In queste «cifre», in Cina i «grandi numeri», in Europa gli «zero virgola», si confrontano due realtà e due visioni del mondo drammaticamente diverse. ormai venuto il tempo per un bilancio. In tutti gli anni del suo mandato - anni strategici, anni in cui è cambiato l’assetto geopolitico del mondo - la Commissione Prodi si è concentrata su quello che non doveva fare. mancata su quello che doveva fare. Da un lato, ha prodotto decine e decine di chilometri di regolamentazione «comunitaria». Quasi tutta inutile, ma quasi tutta enormemente costosa, per le imprese europee. Dall’altro lato, non ha prodotto l’unica regolamentazione che invece poteva e doveva utilmente produrre: una regolamentazione che proteggesse realmente, contro la concorrenza sleale, le nostre imprese, i nostri lavoratori, la produzione europea. Si noti: protezione della produzione; non protezionismo, come strumentalmente si vuole far credere. Non poteva essere diversamente. Perché il carattere dominante della Commissione Prodi è stato evidente nel suo «banale» fondamentalismo ideologico. Tanto la scelta di iperregolamentare l’Europa, quanto la scelta di laissez faire per tutto ciò che, in Europa, veniva e viene da fuori, sono state - per la Commissione Prodi - le espressioni uniche di un tipo di «pensiero». Sull’Europa la Commissione Prodi ha concentrato la sua ideologia, «benevola» ma totalitaria, per cui pochi hanno titolo a disegnare e regolare un «mondo migliore» per tutti gli altri. Non drammaticamente, come nei vecchi totalitarismi «eroici»; piuttosto, banalmente. Ma sempre totalitariamente: una fabbrica di «regole» che vanno dall’impianto della luce di casa tua, a come coltivi il tabacco; dagli attrezzi che usi per il tuo lavoro, alle uova. Tutto è merce e dunque tutto deve essere regolato dalla «centrale» del mercato: da Bruxelles. E poi il fronte esterno. Verso l’esterno l’ideologia applicata è stata - all’opposto - l’ideologia «mercatista». Una variante modernista del laissez faire. Troppi protagonisti sono infatti passati, in troppo poco tempo, dal comunismo al liberalismo. E lo hanno fatto con la stessa fede «dogmatica». Il vero liberalismo è empirico e flessibile. Il «mercatismo» è invece dogmatico e assoluto: tutto e subito. Il mercatismo si è sublimato nel Wto. Dove ha aperto il «vaso di Pandora» del libero commercio mondiale, che ha sprigionato di colpo - troppo di colpo - forze sconvolgenti. L’idea mercatista è stata tipica, per esempio, del governo D’Alema; «Accelerare l’adesione di nuovi membri - a partire dalla conclusione dei negoziati con la Cina - realizzando così quella effettiva dimensione mondiale necessaria per conferire all’Omc maggiore autorevolezza» (così Fassino, Andare oltre Seattle!, atti della Conferenza nazionale del governo italiano, novembre 1999). Adesso possiamo dire che ci sono riusciti. Chi ha dovuto chiudere la sua impresa, chi rischia di chiuderla, chi ha perso il suo posto di lavoro o rischia di perderlo, chi lotta con tutte le sue forze contro la concorrenza senza regole che viene da Oriente, ora sa chi deve ringraziare. Deve ringraziare chi ha aperto di colpo, irresponsabilmente, il «vaso di Pandora». Deve ringraziare chi ha fatto troppe regole per le imprese europee; nessuna regola contro la concorrenza che viene da Oriente. Per essere chiari: l’apertura al commercio mondiale era inevitabile. Ma poteva e doveva essere più graduale. E dunque più liberale. Negli scorsi decenni la vecchia Europa ha gestito con lungimiranza e gradualità il suo rapporto con il Giappone. Lungimiranza e gradualità sono invece tragicamente mancate, e mancano, a quell’idea di Europa che trova il suo tipo ideale nella Commissione Prodi. Come uscirne? Nello scrivere questo testo, ho ricevuto molti consigli. Alcuni non richiesti. Se hai due esperti, hai tre soluzioni. Un consiglio degli esperti era: parti con le statistiche. Ovviamente, dal lato buono delle statistiche: - il tasso di occupazione è al 56% (nel 2000 era al 52%); - il tasso di disoccupazione è all’8,7% (nel 2000 era all’11 %) - le Ferrovie dello Stato investono quasi 1 milione di euro (2 miliardi di lire) all’ora. Sono dati che si sanno. E si sa anche che non tutto il pubblico denaro è sprecato, che non tutto scompare in un buco nero. Va anche in asfalto e in mattoni, in acciaio e in computer. E allora perché tutto è così difficile? Potrei dire che governare è difficile, dappertutto, in Europa. La prova è nelle tendenze del consenso popolare, consenso sondato, o espresso nelle ultime tornate di elezioni. Oggi la grande dividente politica, in Europa, non è tanto tra destra e sinistra. Quanto tra governo e opposizione. Dalla Francia alla Spagna, dalla Grecia alla Germania, il consenso va a chi si oppone al Governo, non a chi governa, sia questo di destra o di sinistra. Stare all’opposizione, in un momento come questo, è molto facile: torni nel tuo collegio o vai in televisione e dai la colpa al governo. Senza dire cosa faresti tu al suo posto. Certo, anche questa è democrazia. Ma non si tratta di una fatalità politica. Alla fine - a ben vedere - il tempo è sempre galantuomo: perde certo chi è al governo, ma solo se non fa davvero governo. Quel che alla fine i popoli non perdonano, nei tempi difficili, è una cosa sola: la mancanza di coraggio. Politicamente, moralmente, non è comunque importante la posizione in cui stiamo. Ma la direzione verso cui andiamo. Ci si può obiettare, ci è stato obiettato, mi è stato obiettato: non avete, non hai ancora governato con la forza necessaria. Posso rispondere? Abbiamo il terzo debito pubblico del mondo. Ma non siamo il terzo Paese del mondo. E assicuro che governare il terzo debito pubblico del mondo, passando attraverso la crisi più intensa che c’è stata dal dopoguerra, non è stato facile. E non è facile. C’è voluta, ci vuole, molta forza. In questi terribili 40 mesi, capitanare e assorbire una crisi di questa intensità, senza impatti devastanti sui conti pubblici, non è stato facile. Un professore dirà: c’era crisi forte anche negli anni 70. Certo. Ma un conto è governare facendo debito pubblico. Un conto è governare avendo debito pubblico. Io rispetto tutti quelli che non sono d’accordo con me, o con noi. Ma qui chiedo di capire e di riflettere, oggettivamente. Quando abbiamo iniziato il mondo era diverso. E lo vedevamo diverso. Non solo da destra. Anche da sinistra. Il «Programma dell’Ulivo per il governo 2001/2006» (... ci siamo salvati) iniziava così: «Le sfide che abbiamo davanti non fanno paura». Appena 40 mesi fa era giusto. Giusto tanto pensarlo quanto dirlo. Invece le sfide - sfide da fare paura - sono venute subito dopo. E sono venute tutte di colpo. Sfide non prevedibili e, in ogni caso, non prevedibili nella concatenazione e nella concentrazione straordinarie che si sono manifestate a partire dall’11 settembre. Cinque crisi. Crisi mondiali, europee, italiane: - due guerre in due anni, con la rottura dell’ordine geopolitico del mondo; - il crollo delle Borse, a partire da quella americana. Un crollo che ha distrutto più ricchezza finanziaria che nel 1929; - l’apertura del «vaso di Pandora» di un commercio internazionale quasi senza regole, come notato sopra; - il change-over, dalle vecchie valute all’euro, non è stato neutrale; ha spostato di colpo quote enormi di ricchezza, da una parte all’altra delle nostre società. Non le statistiche, ma le strade e le piazze d’Europa, dicono dappertutto che i prezzi sono saliti o, alternativamente, che i salari o gli stipendi sono scesi. Il che è lo stesso. In Italia, il fenomeno è stato drammatico. Non per i mancati controlli (una bugia), ma per due cause strutturali ed essenziali: a) la magnitudine della platea di operatori economici, che hanno «fatto i prezzi», a modo loro; b) la scomparsa, da decenni, in Italia, dell’uso di monete metalliche di valore (e non spiccioli). Ciò ha prodotto, e produce ancora, capillari e nell’insieme colossali effetti di confusione e di illusione monetaria. per questo che in Europa ho chiesto la banconota da un euro. In ogni caso, l’euro è stato fatto troppo in fretta e male; - infine, una catena straordinaria di crisi finanziarie (dall’Argentina a Cirio, Parmalat ecc.), che ha distrutto ricchezza su scala macroeconornica. E prodotto effetti sistemici negativi di altro tipo. Non solo. In Italia, ma non solo in Italia, queste cinque crisi hanno fatto - a loro volta - da detonatore per criticità risalenti nel tempo e tuttavia rimaste latenti, perché coperte dal ciclo e dal clima economico positivo, tipico degli anni 90. Criticità che vanno dalla demografia all’industria, al credito. Non le capisci subito, le crisi, in tutta la loro estensione, perché i fatti si manifestano anche, e spesso soprattutto, non in sé, ma nelle loro conseguenze. In Europa abbiamo a lungo pensato di essere davanti a un semplice «ciclo economico». A un ciclo tradizionale con, alla fine, la prospettiva «matematica» di una evoluzione positiva e progressiva. fortemente indicativa, proprio in questo senso, la rassegna storica dei comunicati ufficiali della Commissione Europea, della Banca Europea, di G-7/8, del Fondo monetario, dell’Ocse. Se c’è stato un errore di valutazione è stato dunque un errore collettivo e complessivo. Ora, caduta la polvere, guardiamo bene la realtà. Non siamo - in Europa - nel normale ricorso di un normale ciclo economico. Siamo invece in un nuovo ciclo storico. venuto il tempo per capire che il mondo è radicalmente cambiato. Prima c’era la guerra fredda, che divideva il mondo. E, di conseguenza, eravamo in una specie di serra. La contrapposizione tra mondo occidentale e mondo comunista spingeva, a modo suo, ma spingeva potentemente, l’economia. E lo sviluppo restava nel perimetro dell’Occidente. In specie, nella storia dell’umanità, la crescita continua del Pil non è stata la regola, ma l’eccezione. Nel dopoguerra, in Occidente, la regola si è identificata con l’eccezione, con la crescita del Pil, ma quasi tutta concentrata in una limitata area del mondo che includeva e privilegiava anche l’Europa. Ora il mondo sta cambiando radicalmente. Ma l’Europa rischia di restare ferma. In specie, l’Europa è diventata globale sul lato dei prezzi e dei ricavi. Ma è rimasta locale sul lato dei costi. In particolare, l’economia del blocco continentale europeo è ferma. Nel 2003 l’eurozona è cresciuta solo dello 0,4 per cento. Con l’Olanda a -1, la Germania a +0,1, la Francia a +0,2, l’Italia a +0,1. Gli altri, nel mondo, non sono a 0,3. Ma a 3,0. E più. La ripresa in atto altrove da noi non arriva o, addirittura, causa problemi: problemi di cambio o problemi di competitività. Vanno bene, vanno meglio, in Europa solo Regno Unito, Spagna, Svezia, Irlanda. Paesi che, nel decennio scorso, hanno realizzato incisivi programmi di riforma. Nel blocco continentale, invece, non è stato così. Pur nel ciclo positivo degli anni 90 ci sono state più cicale che formiche. Anche in Italia, negli anni 90, pur dentro a una straordinaria crescita mondiale, sono in realtà mancate incisive riforme strutturali: lavoro, pensioni, spesa pubblica. All’opposto, a proposito di mistica del «risanamento» che sarebbe stato fatto, e di accusa presente per Finanza creativa va notato che nella scorsa legislatura (1996-2001), pur se l’economia mondiale consentiva di fare altro, sono stati fatti oltre 70 mila miliardi di lire di documentate «una tantum». Certo, in Europa, è iniziata - da parte dei governi - una reazione. Ed è bene. Ma richiede tempo. Dal 2003 è iniziato, in Europa, un impressionante ciclo di riforme strutturali, soprattutto riforme del mercato dei lavoro e del Welfare-State. Ma non basta. Abbiamo infatti ancora, in Europa, quattro handicap strutturali. Due deficit, due eccessi. Un deficit di lavoro: comunque si calcoli il lavoro, lavoriamo meno degli altri. Un deficit non più tanto in termini di infrastrutture materiali (dopo l’avvio dell’«Action Plan» presentato dal ministero dell’Economia italiano, durante il semestre italiano), quanto un deficit di ricerca e di innovazione. In Italia lo stato di difficoltà dell’università è sublimato dal manifesto dadaista che vediamo nelle nostre strade: «6 esami in 6 mesi»! Un eccesso di regolamentazione che deriva da un eccesso di ideologie, come è stato notato sopra. Nel solo primo trimestre 2004 la Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea si allunga per 7.729 pagine, per 2,3 chilometri lineari. Si estende su di una superficie pari circa a mezzo km quadrato. Dato che siamo in primavera, vi risparmio le norme industriali. Stiamo sul bucolico. Nove pagine (mezzo metro quadrato) di norme sul regime dei titoli di esportazione nel settore delle uova, distinte fra uova da cova e no; quattro pagine (un quarto di metro quadrato) di norme sulle ciliegie (calibro minimo, aspetto, odore, presenza del peduncolo ecc.); 16 pagine (un metro quadrato) di norme sulle mele (calibro minimo, caratteristiche minime, requisiti degli imballaggi in caso di miscugli, indicazione del contenuto «mele», se non visibile dall’esterno); nove pagine (mezzo metro quadrato abbondante) di norme sulle pere, introdotte per effetto della modifica delle norme sulle mele. Infine, un eccesso di imposizione fiscale. Come venire fuori, come superare questi quattro handicap? Dobbiamo avere - come si dice - il pessimismo della ragione. Ma anche l’ottimismo della volontà. Abbiamo davanti due formule politiche: - la formula di sinistra è: «più Stato, più tasse». Su ”l’Unità”, sotto il titolo «Per l’economia ci vuole più Stato», l’onorevole Fassino scrive: «Va smontato il miraggio della riduzione della pressione fiscale». Per loro, i nostri sogni sono miraggi. Per noi, i loro sogni sono incubi. Come suggerisce l’onorevole Bertinotti, si dovrebbe iniziare con lo spremere i ricchi. Solo che, alla fine, non sono solo i ricchi ad essere spremuti. Se il solo strumento che ti è noto, a fianco della falce, è il martello, allora tutti i cittadini li vedi come chiodi. Questa formula politica - «più Stato, più tasse» - garantirebbe l’eutanasia del continente. Il suicidio dell’Italia. Non possiamo accettare una politica contro le riforme. In ogni caso, non possiamo accettare la polverosa ripetizione di cose pensate cinquant’anni fa per risolvere i problemi di cinquant’anni fa. Non basta l’estetica del vecchio. Non possiamo combatere una battaglia senza speranza, contro il presente e contro il futuro; - la formula politica opposta è: meno vincoli, meno tasse. In Europa e in Italia è necessaria una politica nuova. O facciamo le riforme. O è la realtà che ci riforma! Non è tempo di manutenzione. tempo di mutazione. Finora, in Europa, ci siamo limitati a gestire il ”Patto di stabilità e di crescita”. Abbiamo fatto benino questa gestione, ma l’abbiamo fatta: - soprattutto dal lato della finanza pubblica, più che dal lato dell’economia reale; - l’abbiamo fatta ex post, più che ex ante. Ribaltiamo i termini: - l’economia privata che sostiene l’economia pubblica. Non l’opposto; - non è la constatazione, ma la «visione», che determina la realtà. Non deve e non può essere più un ”Patto di stabilità e di crescita”, ma un ”Patto di crescita e di stabilità”. Quando la situazione peggiora si reagisce istintivamente, tagliando investimenti e consumi. Ma è così che si genera il ristagno. All’opposto, dobbiamo investire e consumare. fondamentale farlo in Europa, su scala europea. E lavoriamo proprio in questo senso, in Europa. Ma, in ogni caso, lavoriamo in Italia, per l’Italia. Si usano, per dire quello che ora ci serve, varie parole. Si dice: serve uno shock; serve un big push. Sono parole straniere. A noi, che siamo - ci si dice sempre - così poco «internazionali», a noi ne basta una sola di parola, e italiana: serve una scossa. Oppure serve una spinta. Il cantiere è in apertura. Dalla nuova legge sul risparmio a una nuova legge fallimentare. Dalle privatizzazioni alle liberalizzazioni, necessarie - almeno io credo - in un Paese in cui è tutto vietato, tranne ciò che è graziosamente concesso. Dal sostegno al credito e all’innovazione, alla riduzione delle tasse. Riduzione che sarà coperta, ma non attraverso la riduzione dei diritti sociali, attraverso la riduzione, all’essenziale etico, del perimetro di azione dello Stato. Sul lato fiscale, la scossa o la spinta, per avere effetto, possono e devono essere sviluppate su scala di massa. In particolare, la riduzione delle tasse dovrà essere: - tanto strutturale, da non essere fondata su nuovo deficit, ma su reali tagli di spesa pubblica improduttiva; - tanto diffusa, da essere efficace sul lato della domanda. E dunque includendo naturalmente i redditi bassi e medi. Come nel nostro ”Programma elettorale” e nel ”Patto per l’Italia”. Più soldi in busta paga non fanno la felicità, ma aiutano. Aiutano le famiglie e il Paese; - tanto semplice, da ridurre quanto più possibile le corvée fiscali, per cui lo Stato prima ti fa impazzire con i moduli, poi ti assiste paternalisticamente, con l’assistenza contabile. Non tutto il semplice è bello, ma tutto il bello è semplice; - tanto giusta, da essere forte sul lato della famiglia e del volontariato. Farò ora una citazione: «Se si ipotizza una sola aliquota, non si elimina la progressività del prelievo di imposta. Un sistema fiscale semplice e chiaro riduce i costi amministrativi e gli spazi di evasione ed elusione». Non è, questa, una tesi plutocratica o plutofila. una tesi sostenuta nel 2002 in un Contributo alla riflessione sulla questione fiscale della Curia di Milano. In ogni caso la nuova curva sarà progressiva, non solo per effetto di due aliquote, ma anche della no tax area, delle deduzioni concentrate sui redditi bassi e medi. E di altro. Sarà poi giusto potenziare l’azione contro l’evasione e inasprire le sanzioni. In conclusione, tasse. Ma non solo tasse. Servono una scossa o una spinta forti, estese alla ricerca, all’innovazione, al credito. Da subito il pensiero deve trasformarsi in azione, le parole in fatti, le speranze in certezze. Una sola cosa, come ho detto al convegno di Confindustria, non possiamo avere, o permetterci di avere: la retromarcia. Giulio Tremonti