Antonella Amendola Oggi, 20/04/2004, 20 aprile 2004
Lo psichiatra mancato racconta i suoi fragili mostri, Oggi, 20/04/2004 Doveva fare lo psichiatra, tamponare le ferite oscure dell’anima, ma i suoi incubi ha preferito esorcizzarli sullo schermo, disintegrarli tra risate e cinismo
Lo psichiatra mancato racconta i suoi fragili mostri, Oggi, 20/04/2004 Doveva fare lo psichiatra, tamponare le ferite oscure dell’anima, ma i suoi incubi ha preferito esorcizzarli sullo schermo, disintegrarli tra risate e cinismo. A 87 anni Dino Risi, il maestro della commedia all’italiana, scrive l’autobiografia I miei mostri (Mondadori), piccolo capolavoro di ricordi e arguti bozzetti montati con levità tra aforismi e riflessioni semiserie. E il lettore, divertito, arriva alla paradossale conclusione che niente è più mostruoso della protesi narcisistica dei divi. «Creature curiose da maneggiare con cura», ride il maestro che ha diretto, tra i tanti, Gassman, Tognazzi, Mastroianni, Sordi, Manfredi. «Perché gli attori hanno una prevalente psicologia femminile. Al contrario, le attrici ostentano un carattere quasi maschile. I divi pretendono di essere coccolati, non ti concedono distrazioni, cadute d’interesse. Una volta Gassman s’ingelosì e minacciò di lasciare il set perché non avevo rimproverato Tognazzi che era venuto al lavoro con un’ora di ritardo. La Deneuve mi scrisse una letteraccia e per anni non mi ha parlato perché si sentì trascurata sul set di Anima persa». L’autore del Sorpasso, Profumo di donna, Una vita difficile, I mostri è un tipo che da 30 anni vive in un residence affacciato sul Giardino zoologico, si dichiara innamorato dell’amore, curioso dell’aldilà, ghiotto di fragole e panna, desideroso di un incontro ravvicinato con Sharon Stone. «Maestro, facciamo una carrellata all’indietro, tra i protagonisti che ha dovuto, per così dire, addomesticare?». «Allora bisogna cominciare con Gassman», risponde, «perché tra me e Vittorio ci sono stati 30 anni di amicizia, l’ho diretto in 16 film. All’inizio, quando l’ho conosciuto, mi sembrava un attore di teatro un po’ trombone, un presuntuoso antipatico. Poi ho capito che era una creatura fragile, che aggrediva per timidezza, e l’ho protetto come un fratello maggiore, l’ho fatto recitare senza maschera. Aveva una memoria eccezionale che perse con la depressione. L’ultima volta l’ho diretto per uno spot pubblicitario. Volle scritte sul gobbo le poche battute che doveva pronunciare e dopo la performance mi chiese pure: «Dino come sono andato?». Quando era stato giovane e forte aveva avuto applausi, donne, soldi, un teatro personale con poltrone di velluto nella casa sull’Aventino. Schifato, aveva trattenuto il respiro nel baciare Brigitte Bardot che puzzava d’aglio». «Bellezza e giovinezza sono regali che dobbiamo restituire», disse una volta Romy Schneider, che si sentiva sfuggire la vita, e Risi ne rivela un sorprendente rendez-vous con l’Ugo nazionale. «Tognazzi», dice, «stava girando un film con Romy Schneider, La califfa di Alberto Bevilacqua, e la invitò nel suo pied-à-terre a Piazza dell’Oro. Le cucinò un risotto alle seppie, annaffiato (anche alla Schneider piaceva il vino) da tre o quattro bottiglie di Lambrusco. Andarono a letto, Ugo si allungò su di lei e cascò in un sonno profondo. Quando si svegliò, erano le quattro, vide il letto vuoto e si precipitò al pianterreno dove scopri Romy che dormiva distesa per terra, non avendo, come lui temeva, trovato il pulsante per aprire la porta. Squallido Casanova, chiamò un taxi sul quale la donna dei suoi sogni si imbarcò senza una parola. Poche ore dopo, arrivato sul set, si diresse verso la roulotte che divideva con Romy, ma lo aspettava, davanti alla porta, un ceffo che gli ingiunse: ”Signor Tognazzi, lei non può entrare, mi ha detto la signora Schneider di sputarle in un occhio”». E Marcello, il seduttore per eccellenza? «Una volta», risponde il regista, «dovetti far ripetere otto volte un bacio tra Mastroianni e Romy Schneider. Alla fine Marce1lo disse: ”E mi pagano pure per questo!”. Lui era il tipo che a un tavolo volgeva lo sguardo a una donna, spegneva la sigaretta nel portacenere e diceva: ”Andiamo”. Si trovò a Stoccolma, a una premiazione dei Nobel, a cena al tavolo dei Reali. A un tavolo vicino, seduto con altri Nobel, c’era il suo autista e segretario Fred, un trasteverino. Poiché quelli ridevano come matti, Marcello ad alta voce chiese a Fred: ”Se pò sapé che stai a combinà?” E Fred, che parlava due o tre parole d’inglese, ma si esprimeva benissimo coi gesti: ”Je raccontavo di tutte l’attrici che te sei portato a letto, ma questi vonno sapè i nomi. Glieli dico?”». Imprevedibile la zoomata su Albertone, colto in un bordello. «Nel 1958», ricorda Risi, «con l’approvazione della legge Merlin furono chiuse in Italia le case di tolleranza. Era un giorno del mese di ottobre e io stavo girando a Venezia un film con Alberto Sordi, Nino Manfredi e Marisa Allasio. Fu Alberto ad avere l’idea. Disse: ”Sarebbe simpatico andare a festeggiare”. L’architetto Scaccianoce, che si era unito a noi, replicò: ”Veramente non si tratta di festeggiare, ma di portare la nostra solidarietà e il nostro affetto a quelle brave ragazze che da domani si troveranno sulla strada”. Sordi aggiunse: ”E grazie a loro se ho evitato di sposarmi, cioè di mettermi una straniera in casa e fare un figlio di cui non avrei potuto liberarmi”». «Andammo al Dollaro, la casa più famosa di Venezia. Alberto aveva comprato un vassoio di paste, io e l’architetto due bottiglie di spumante. Ci aprì una donna che riconobbe Sordi e gli disse: ”Che caro, la signora sarà contenta”. Sui divani sedevano cinque ragazze, in abito di scena. Una si alzò, abbracciò Sordi e si mise a piangere. Un’altra, una brunetta, gli si avvicinò: ”Non si ricorda di me?”. Due anni prima aveva fatto la ballerina in una rivista di cui Alberto era il comico e la Osiris la soubrette. Sordi ci guardò: ”Voi che fate?”. Si appartò con la brunetta e noi lo aspettammo ascoltando la canzone Amado mio. Sordi non è andato al funerale di Fellini perché non voleva che la Tv gli frugasse in faccia il dolore per la perdita dell’amico». Di storie d’amore, nell’ambiente cinematografico Risi ne ha avute diverse, anzi, si sospetta che al cinema sia arrivato proprio per il miraggio delle donne. Alida Valli, la rossa americana Ann Margret, Sylva Koscina che gli spense una sigaretta sulla mano, chiosando: « il mio sangue slavo». «Ma l’incontro più sorprendente», confessa, «fu con Anita Eckberg. L’attrice aveva affittato una bella villa su un colle, con un prato che scendeva a picco su una piscina di piastrelle nere. Un giorno facemmo una gita in mare, col grosso motoscafo che lei guidava spericolatamente. C’era una grande petroliera svedese ferma al largo, con alcuni marinai biondi, sfaccendati, appoggiati ai parapetti. Anita si era tolta il costume, era nuda coi capelli biondi a vento. Gridò qualcosa in svedese, i marinai risposero con fischi e risate e qualche parolaccia, immagino. Uno di loro andò a suonare la sirena, tre o quattro volte». «Anita rideva come una matta e fece un paio di volte il giro della petroliera: ”Poverini, loro contenti vedere me nuda!”. Tornammo alla villa per il tè. Si presentò il marito, un attore americano atletico, in maglietta e jeans, con una sacca in mano. Cominciò a riempirla, con metodo, di tutti gli argenti e valori che trovava in giro. Anita aveva le lacrime agli occhi, ma non si oppose e quando lui terminò la razzia accettò i suoi baci di congedo sulle guance. Era appena andato via e mi guardò con tenerezza mista a pena: ”Tu non è eroe, eh?”. Io non sapevo che rispondere. Alla fine dissi: ”No”. La mia storia con lei era finita». Antonella Amendola