Cesare G. Romana il Giornale, 15/03/2004, 15 marzo 2004
Patti, l’ossuta ragazza-diavolo, il Giornale, 15/03/2004 Fu quando la sua mano di sposa versò un mestolo di terra sulla bara di Fred, e un gelsomino perché le ossa del suo uomo profumassero fino alla consunzione, che sentì prosciugarsi in lei la sorgente della musica e disse addio alla poesia
Patti, l’ossuta ragazza-diavolo, il Giornale, 15/03/2004 Fu quando la sua mano di sposa versò un mestolo di terra sulla bara di Fred, e un gelsomino perché le ossa del suo uomo profumassero fino alla consunzione, che sentì prosciugarsi in lei la sorgente della musica e disse addio alla poesia. Allen Ginsberg la trovò l’indomani perduta su un puff dirimpetto al caminetto, già morta nello sguardo e nel volto ossuto di sciamano. E le disse le sole parole che potessero farla nuovamente esistere, «lascia libero lo spirito di chi se ne va, e torna a celebrare la vita». Così Patricia Lee Smith tornò a essere Patti Smith, prese un foglio e le riuscì di dar voce all’indicibile, «la mia anima s’arrende esterrefatta alla morte / Frederick nome prezioso / in alto con il cielo». Ritrovò così la poesia e la nozione del mondo, imparate nell’infanzia dai quadri di Picasso e dai dischi di Charlie Parker. E dalla voce di Maria Callas «che spremeva ogni fibra di sé per creare un sospiro», scrisse poi ricordando sé bambina che cantava Un bel dì vedremo, ritta su uno sgabello, nella casa di Chicago dov’era nata nel ’46, applaudita dai genitori Scott Smith, operaio, e Beverly, cameriera. Una domenica, andando a dottrina, le giunse da un balcone Little Richard che cantava Tutti frutti, e la stregò quel parossismo di furore e carne viva. Così prese a cantare per strada in compagnia d’una scimmia e d’un suonatore d’organetto [...]. Gli Smith lasciarono Chicago per Philadelphia e Philadelphia per le campagne del South Jersey. Vicino alla casa dei suoi c’era un granaio, e più in là un cespuglio accanto al quale Patricia passava le sere a meditare: quando un fulmine l’incendiò lei pregò a lungo non Dio, ma quel dio di fuoco che si sfaceva sotto i suoi occhi. Fu allora che l’anima di Giovanna d’Arco prese ad abitare le sue fantasie, dal rogo della storia. Lasciò il Jersey per New York, New York per Parigi. Al Père Lachaise visitò la tomba di Jim Morrison e la notte lo sognò, crocifisso alla lapide da due ali di marmo. «Smettila - scrisse al risveglio - smettila, gli dissi. Poi mi strappai di dosso i vestiti, ballai, squarciai la mia pelle e ne sgusciai fuori, gridando: portami con te». Tornò a New York e sopravvisse tra inedia, strade e parchi, fu il bluesman Johnny Winter a convertirla al teatro e Sam Shepard la volle in Cowboy mouth. Un ragazzo scarno con gli occhi chiari e una chioma selvaggia la portò con sé al Chelsea Hotel, si chiamava Robert Mapplethorpe, un presente da picaro e un futuro da grande fotografo. Si amarono, scrissero, fecero musica fino al primo reading di Patti Smith in una chiesa della Bowery: lei aveva 25 anni e aprì lo spettacolo con un autoritratto,«hai i connotati d’una ragazza-diavolo, ossuta come una santa, con la coscienza d’un serpente». [...] Formò il Patti Smith Group, comprò una chitarra ch’era stata di Jimi Hendrix e cantò di angeli e demoni, di «comanches pazzi e dormienti» quale lei stessa era. E ancora di Brancusi, di Mickey Spillane. Di Cassius Clay, «il più grande tra i poeti», di Jean Genet «che m’insegnò la minaccia e la preghiera», di Arthur Rimbaud «il primo poeta punk». Si descrisse «una pecora nera, una negra del rock’roll come Cristo e Jackson Pollock, persa nella valle del piacere, nel mare abominevole, nella legge del taglione». Il suo disco d’esordio, Horses, rammentò a Michael Stipe, futura voce dei Rem, «la prima volta che ti tuffi in mare e un’onda ti travolge». Vi si incitavano le anime pure a «prender le armi senza vergogna, con nessuno a cui genuflettersi, a cui giurare, a cui dare la colpa». Era l’epoca in cui Patti Smith aveva scoperto, svelatole da Pasolini, un Gesù «maestro e guerrigliero, morto per i peccati di qualcuno, non per i miei». Senonché, più avanti in un loft di Little Italy, un televisore le mostrò un prete bianco, che parlava ai lupi con la grazia d’un agnello: si chiamava Albino Luciani, papa. Di lui s’invaghi fino a dedicargli il più ardente tra i suoi salmi d’amore [...]. Nel ’77 una caduta dal palco la costrinse a un lungo riposo, colmato scrivendo liriche visionarie, leggendo la Bibbia e i grandi maudit, progettando un futuro senza musica. Fu la rabbia montante del punk a riportarla «tra le mani della gente», sulle scene. E fu Because the night - «L’amore è un angelo, mascherato da lussuria» -, scritta con Bruce Springsteen, a donarle il culmine del successo. Fu a quel tempo che incontrò Fred Sonic Smith, un pellerossa che suonava la chitarra negli MC5 nel cui viso bizzarro la tristezza diventava allegria. Glielo presentarono Allen Ginsberg e William Burroughs, e il suo cuore stanco ringiovanì d’amore. Relegò nei solai della memoria i suoi molti amanti [...] e dal nuovo sogno scaturirono le canzoni di Wave. Insieme suonarono a Firenze, nel tour che segnò la fine del Patti Smith Group e la rinascita di Patti Smith. Firenze era, per lei, il furore di Michelangelo e la grazia di Poliziano, le omelie di Savonarola e la giovinezza volatile di Lorenzo de’ Medici. Divenne invece un arrembaggio di paparazzi, le nebbie d’una politica italiana «mutevole oltre le mie capacità di comprensione», gli agit prop dell’utopia che assediarono il suo albergo [...]. Ci furono scontri e lacrimogeni, Patti Smith tornò in patria lusingata e sconvolta. Lasciò le scene, si trasferì a Detroit sposò Fred, divenne madre due volte e praticò, con molto zelo, una perfetta imitazione della felicità. I capelli cominciarono a ingrigirsi e lo sguardo si fece meno spiritato, Gregory Corso le consigliò «usali, i media» e lei puntellò la lunga assenza con interviste temerarie [...]. Fu, nel’94, la morte di Fred a riportarla su un palco. E la catena di lutti che le tolse via via i suoi amici più cari, il fratello Todd, Mapplethorpe, più avanti Ginsberg, Burroughs, Jeff Buckley, e la consegnò inerme alla solitudine. In Peace and noise ritrovò la sua tempra pugnace e la sua inquietudine amletica, in Gung ho esaltò Ho Chi Minh e madre Teresa, l’anima guerriera e l’anima compassionevole d’una civiltà tormentata. Tornò a girare il mondo [...] non più dalla Giovanna d’Arco ch’era stata, ma da madre nobile di un’epopea già al tramonto. Cesare G. Romana