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 2004  marzo 27 Sabato calendario

Audrey Hepburn, tanto perfetta da imbarazzare, La Stampa, 27/03/2004 Molti anni dopo avere lavorato insieme con Ennio Flaiano, suo partner fisso di allora, sul copione di Vacanze romane, a mia madre capitò di incontrare il celeberrimo Ben Hecht, autore, o così lei credeva, di quel soggetto; e approfittò dell’occasione per scusarsi della libertà con cui la coppia lo aveva manipolato

Audrey Hepburn, tanto perfetta da imbarazzare, La Stampa, 27/03/2004 Molti anni dopo avere lavorato insieme con Ennio Flaiano, suo partner fisso di allora, sul copione di Vacanze romane, a mia madre capitò di incontrare il celeberrimo Ben Hecht, autore, o così lei credeva, di quel soggetto; e approfittò dell’occasione per scusarsi della libertà con cui la coppia lo aveva manipolato. Però Ben Hecht non capì nemmeno di cosa lei stesse parlando. Lì per lì mia madre pensò, non infondatamente, che fosse ubriaco, e lasciò perdere. Solo dopo ulteriori decenni venne fuori che all’epoca Ben Hecht aveva semplicemente prestato il nome per aiutare il vero soggettista Dalton Trumbo, il quale era sulla lista nera e non poteva lavorare col suo; c’erano poi altri due scrittori americani, loro sì accreditati, Ian McLellan Hunter e John Dighton. Anche troppi autori per una storiellina gracile gracile, oltretutto abbastanza evidentemente ispirata al celeberrimo Accadde una notte di Frank Capra (1934), su una ereditiera in fuga con un giornalista avido di scoop. Quando il regista William Wyler incontrò gli scrittori italiani che dovevano curare l’ambientazione della vicenda nella Capitale, fu chiarissimo. «Una novità in un film basta e avanza, e questo film ne ha già una, sulla quale io punto tutto. Perciò voglio che tutto il resto sia quanto più scontato possibile - il pubblico non deve avere nessuna sorpresa oltre a quella che gli riservo io». «Vuol dire per esempio che ci dobbiamo mettere una scena in cui i due sono costretti a dividere una camera da letto, e lei si mette il pigiama di lui che le sta grandissimo?» domandò mia madre. E Wyler rispose: «Precisamente». Correva l’anno 1952, Flaiano e mia madre erano stati ingaggiati come professionisti esperti, quelli che a Broadway si chiamano play doctors; Flaiano, che in questo campo amava definirsi un artigiano, diceva: «Dovremmo aprire una bottega con un cartello, ”Si aggiustano sceneggiature”, e un prezzario: tanto per una gag, tanto per infilare l’amante del produttore, ecc». Non esistevano agenti, e all’executive americano che li aveva cercati mia madre, lei era quella che parlava l’inglese, sparò una cifra per entrambi, forse un milione di allora. A lei sembrava molto, ma quello non credette alle proprie orecchie. Dopo essersi assicurato di aver capito bene, la abbracciò esclamando: «Bravi! Ecco lo spirito dei vecchi tempi! Anche Hollywood era così, prima che il denaro la rovinasse!». Flaiano che assisteva non gradì affatto. Pur sottopagati, i due si divertirono. Wyler veniva alle sedute di sceneggiatura immancabilmente munito di un sacchetto di carta pieno di arance che divorava metodicamente, rideva molto alle proposte dei collaboratori italiani, e si adattò volentieri alla loro abitudine di parlare di tutto meno che del lavoro. Fece anche qualche racconto su di sé, in particolare sulla sua esperienza in Italia con l’esercito americano, subito dopo la fine della guerra. La sua unità aveva svolto compiti investigativi, identificando e schedando i cosiddetti premature antifascists, ossia gli antifascisti di prima che il Fascismo diventasse un nemico ufficiale degli Usa - i comunisti, insomma. Quanto alla novità del film in cantiere, Wyler poté solo cercare di descriverla agli sceneggiatori. «Riguarda la protagonista», disse. «Un tipo femminile completamente nuovo, agli antipodi di tutto quello che circola oggi. Classe, freschezza, giovinezza, niente petto e niente sedere, niente tailleur aderente e niente tacchi alti. Una marziana. Se ho ragione io, sarà una bomba». Naturalmente aveva ragione lui: Audrey Hepburn, che prima di allora sullo schermo non aveva fatto che minuscole apparizioni, con questo film vinse l’Oscar e diventò da un momento all’altro una star. Noi a casa ce lo aspettavamo, ricordo mia madre tornare dal set molto ammirata dalla bravura della esordiente (non sapeva che Audrey aveva già alle spalle almeno un grosso successo sul palcoscenico, una Gigi a Broadway, per la quale era stata scelta addirittura da Colette). Anche mia sorella ed io fummo portati sul set una volta, ma più che alla sconosciuta badammo a Gregory Peck, dal quale avemmo una fotografia a testa, con dedica. La nuova arrivata era incantevole. possibile che il suo debutto sia stato il più clamoroso della storia del cinema? Quale stella di oggi le possiamo accostare? Quale altra ha influenzato il costume, il look, il modo di vestire di una generazione, in modo paragonabile? Julia Roberts di Pretty woman? Lady Diana, poveretta? Totò direbbe, «Ma mi faccia il piacere». Ancora adesso, più di cinquant’anni dopo, Audrey illumina il filmetto di Wyler, per nostra fortuna in bianco e nero, come nessun’altra prima di lei ha mai illuminato nessun film, con l’unica eccezione di Louise Brooks. Un remake di Vacanze romane è inconcepibile (be’, uno ce n’è stato, con Tom Conti, ma non l’ha visto nessuno). Il musical americano importato da Pietro Garinei, attualmente al Sistina, sta godendo un onesto successo dovuto al buon mestiere dei responsabili, e ha anche una protagonista caruccia: ma Audrey Hepburn era unica, e tale sarebbe rimasta. Senza essere minimamente zuccherosa o melensa, proiettava garbo e innocenza adolescenziale e allo stesso tempo raffinatezza e controllo (la sua era una spontaneità ricreata, come quella delle marionette di Kleist) temperati da una punta di monelleria; aveva occhi immensi, un sorriso irresistibile, ed era fotogenica in modo addirittura indecente. Credo che a tutt’oggi nessuna abbia avuto più copertine di lei, perlomeno di riviste patinate. Nata a Bruxelles, allevata in Olanda (dove i suoi si erano rifugiati durante la guerra: per due anni, mi disse una volta, aveva mangiato solo indivia belga, cosa forse all’origine della sua leggendaria magrezza), formata a Londra, non era associabile a nessun luogo in particolare, la sua era una leggiadria platonica, ossia ideale, assoluta. Riuniva in sé l’understatement britannico, l’eleganza francese e la spregiudicatezza americana, coordinandoli con un’applicazione disciplinata e scrupolosissima. Candidamente durante la lavorazione di Vacanze romane mia madre la segnalò a un produttore italiano, affinché la mettesse sotto contratto. Ma a parte che quello non apprezzò il fisico della candidata (fu dunque più facile convincere lo stesso produttore un paio di anni dopo a dare una chance alla giovane Sophia Loren, per Peccato che sia una canaglia), l’Italia non si sarebbe potuta permettere una star di quel calibro. Così negli anni successivi Audrey arrivò solo in film hollywoodiani - Sabrina, Arianna - anche se Dino De Laurentiis riuscì a metterla al centro della sua superproduzione, beninteso internazionale, Guerra e pace. Qui lei recitò a fianco del suo marito di allora Mel Ferrer, al seguito del quale aveva avuto poco prima una seconda occasione di venire in Italia. In quanto vedette, a differenza della moglie, di seconda grandezza, Mel Ferrer era risultato ingaggiabile per un atipico film di Mario Monicelli, una specie di western sardo tratto da un romanzo di Grazia Deledda e intitolato Proibito. Mel Ferrer doveva essere il prete che tenta di riportare la pace in una lotta tra clan (uno, facente capo a Amedeo Nazzari), e il regista, che lo voleva aitante, rimase un po’ sgomento quando lo vide scendere dall’aereo all’aeroporto di Ciampino. Seguendo la direzione del suo sguardo, l’attore lo rassicurò: «Non si preoccupi, ho sempre con me una serie di parrucchini molto ben fatti». Il film fu girato in certe zone deserte dell’isola, e oggi certe inquadrature possono far pensare a John Ford, anche se la scelta della musica di commento - la prima sinfonia di Brahms! - sembra incongrua. Audrey seguì la lavorazione come una devota consorte, badando a non mettere in ombra il marito, che d’altro canto dava poca confidenza. Notando anche la puntigliosità con cui evitava i ristoranti e si faceva portare il cestino in albergo, la troupe lo bollò subito come un incurabile avaraccio. Audrey Hepburn l’avrei rivista molti anni dopo, quando viveva a Roma ed era passata a seconde nozze con un mio coetaneo e amico. Anche a quest’epoca, erano ormai gli orrendi anni Settanta - nelle foto del matrimonio tutti a cominciare dallo sposo sfoggiano basette da banditi messicani - il cinema italiano, oltretutto in crisi, non poteva permettersi di fare proposte a Audrey, né sembrava in grado di concepire storie adatte per lei. Proprio a Roma l’ammiratissima diva era così quasi una clandestina. Curiosamente, anche, la mondanità capitolina la accolse con scarsa cordialità. Nei salotti in cui il marito la portava, Audrey era spesso l’unica celebrità presente (allora il bel mondo girava in circoli stagni, gli ambienti non si mescolavano), e gli aristocratici dell’Urbe, che tra l’altro parlavano poco le lingue, non volendo fare la figura di piccoli borghesi impressionati dalla fama dell’attrice, la ignoravano. Audrey stessa mi parlò di questo molto tempo dopo, non senza ironia: «Non capivo perché nessuno sembrava volermi rivolgere la parola! Ed erano gli amici di Andrea! Quando Andrea veniva con me in California, i miei amici lo chiamavano subito per nome, gli davano pacche sulle spalle, lo invitavano dappertutto...». Lei naturalmente ne sorrideva, impeccabilmente cortese e supremamente a posto come non avrebbe mai cessato di essere. Forse anche questo imponeva un po’ di soggezione. Era così perfetta che senza volerlo poteva farti sentire goffo, inadeguato. Poteva sembrare irreale. In più a conoscerla meglio si scopriva che era perfetta anche dentro, sincera, leale, perbene, indisponibile al pettegolezzo. Il personaggio con cui si era imposta così clamorosamente non prevedeva vecchiaia, e per molto tempo non invecchiò. Anzi, non invecchiò mai; scivolò nella maturità, e poi anche nella malattia e nella morte, con una grazia e una discrezione impeccabili. Niente guastò quell’immagine della corsa in Vespa dietro a Gregory Peck, uno dei momenti più felici e spensierati che il cinema è mai stato in grado di offrire. Masolino D’Amico