Carlo Bonini, Giuseppe D’Avanzo la Repubblica, 26/03/2004, 26 marzo 2004
Il crac Parmalat e il ruolo delle banche (che non ne escono be/3, la Repubblica, 26/03/2004 Se ha ragione il ”bucaniere” Florio Fiorini e «Parmalat è una Sasea industriale»; se, come sostiene un inquirente, Parmalat è «un’azienda marcia utilizzata dalle banche», bisogna riprendere in mano il filo dei rapporti tra Collecchio e il sistema creditizio italiano e internazionale
Il crac Parmalat e il ruolo delle banche (che non ne escono be/3, la Repubblica, 26/03/2004 Se ha ragione il ”bucaniere” Florio Fiorini e «Parmalat è una Sasea industriale»; se, come sostiene un inquirente, Parmalat è «un’azienda marcia utilizzata dalle banche», bisogna riprendere in mano il filo dei rapporti tra Collecchio e il sistema creditizio italiano e internazionale. stata la spregiudicatezza delle banche a strozzare Parmalat nella sua fase terminale? Finora abbiamo visto Calisto Tanzi prigioniero prima di capitali opachi (all’epoca della quotazione in borsa) che lo rimettono in piedi quando, alla fine degli anni 80, è già «tecnicamente fallito». Quindi, assediato dalle pressioni di un sistema bancario domestico deciso, in qualche caso, a utilizzare la sua azienda per rientrare di partite in sofferenza anche verso creditori terzi (il «cambio di cavallo», come nel caso Eurolat-Cirio). Infine, ostaggio dello strumento finanziario dei bond. Oggi, per raccontare la sua catastrofica fine, don Calisto dice una cosa semplice: «Sono vittima di una estorsione». Denuncia le «clausole capestro» imposte dalle banche che accompagnavano la collocazione del debito Parmalat sul mercato dei risparmiatori e le minacce di renderne pubblica la sostanza. Rivela che i comunicati di informazione al mercato che accompagnavano ciascuna emissione obbligazionaria «venivano concordati alla lettera» con gli istituti di credito che curavano il collocamento. Indica nelle commissioni versate in occasione dell’emissione di bond una voce consistente dell’emorragia di liquidità (40 i milioni di euro pagati nel solo 2003). «Balle», replicano le banche. Parmalat è stato un pessimo affare che «le banche hanno pagato duramente», ha ricordato da ultimo Corrado Passera di Banca Intesa in un’intervista a ”Repubblica”. Perché questo dicono i numeri delle esposizioni cui restano impiccate al momento del crac. In Italia e all’estero. Qualche cifra: 386 milioni di euro Capitalia; 360 Banca Intesa; 300 San Paolo-Imi; 160 Unicredit; 125 Monte Paschi Siena; 110 Bnl; 100 Banca Popolare di Milano; 689 milioni di dollari Citibank; 374 milioni di dollari Bank of America. «Se comanda il gioco, nessuno è così pazzo - dice un banchiere - da mollare un cliente sapendo che in questo modo non rientrerà delle sue esposizioni. vero, nella fase terminale di Parmalat le banche hanno attivato ogni strumento possibile per ridurre le perdite. Ma questo fa parte da sempre delle regole del gioco. Le banche non sono istituti di beneficienza». *** Nel 1993, Tanzi ha bisogno di crescere e bussa all’unica porta che conta davvero sui mercati internazionali. Quella di Chase Manhattan (oggi Jp Morgan-Chase). una scelta felice, perché la strada del Lattaio incrocia quella di un uomo capace di visione, Federico Imbert. Nasce un’amicizia che Tanzi rivendicava ieri e rivendica oggi. Imbert è pronto a scommettere su Parmalat perché ci crede. Perché gli impianti dell’azienda, il suo core business, suggeriscono non solo una solidità industriale del gruppo ma ne fanno intravedere grandi margini di espansione che possono farne la prima vera multinazionale italiana. Collecchio partecipa dunque della stagione in cui tutti i grandi gruppi italiani scoprono il nuovo mercato dei bond e ne ottiene risultati lusinghieri (spesso la domanda di bond Parmalat è doppia rispetto all’offerta). Tra il ’94 e il ’96, la scommessa di Imbert ha insomma successo e Tanzi avvia un napoleonico piano di acquisizioni estere. In tre anni, Collecchio diventa il centro di un interesse finanziario che rende il gruppo cliente conteso dai colossi del credito americano ed europeo. Chase Manhattan non è più il solo interlocutore di Parmalat. Tutti vogliono venire a Collecchio. Tutti cercano Tanzi. E chi si fa avanti deve avere qualcosa di meglio e di più da offrire. Che cosa? «Tra il ’96 e il ’97 - spiega un banchiere italiano a ”Repubblica” - Parmalat è un boccone che fa gola a tutti. Anche se i suoi numeri già cominciano a dare dei segnali di sbilanciamento». Alla fine del ’96, l’indebitamento lordo del gruppo (vale a dire la somma delle sue esposizioni verso le banche e dell’ammontare di bond che circolano sul mercato) ha superato i 2.500 miliardi di lire (circa 1 miliardo e 200 mila euro) e per sostenere la liquidità è stato necessario un aumento di capitale di 370 miliardi di lire, che Calisto - non deve sorprendere, ormai lo sappiamo - sottoscrive, per la sua quota, con soldi che non ha e che questa volta ottiene con un prestito concesso dall’Ubs. Di più: il gruppo fatica a penetrare sui nuovi mercati americani e in Italia vede addirittura ridotta la sua quota di mercato. Ci vorrebbe qualcuno capace di far ragionare il Cavaliere e il suo direttore finanziario Fausto Tonna e invece... «Invece - dice il banchiere - mentre Chase Manhattan, con Imbert, comincia a raffreddare i suoi rapporti con Parmalat, appare sulla scena Citibank. E, come sempre, lo fa in modo aggressivo. Con il piglio da cowboy che le è proprio: con nessuna prudenza, poco discernimento e troppi soldi. Troppi...». *** Nel quadriennio 1997-2000, l’arrivo a Collecchio dei cowboy imprime una nuova accelerazione alle acquisizioni, all’emissione di bond. Con uno schema nuovo. La banca non è più il semplice veicolo di raccolta di liquidi sul mercato finalizzati ad una singola operazione: sia questa una acquisizione o un’iniezione di liquidità necessaria ad alleggerire gli oneri sul debito senza dover ricorrere alla cassa. No, la banca, ora, gioca più parti in commedia. Citibank apre linee di credito che assicurano un finanziamento commerciale a pioggia sganciato dal risultato. Sollecita il management Parmalat a ricorrere al mercato con l’emissione di bond attraverso pool di banche internazionali. Propone acquisizioni di aziende nel cui capitale decide di entrare per una quota parte, salvo vincolare la Parmalat al riacquisto di quelle azioni entro un certo termine (accade in Canada con l’acquisto di ”Beatrice food” e ”Ault food”). una manna che produce grande liquidità e impone uno spregiudicato modello operativo. Chi vuole fare affari con Collecchio - siano le banche americane, siano quelle italiane - deve adeguarsi. una nuova routine che nessuno oggi sembra disposto a credere sia figlia della fantasia del ragionier Tonna o del patròn Tanzi, che di finanza poco o nulla sa e non parla una parola di inglese. Ragiona un inquirente milanese: « qualcuno esterno a Parmalat che suggerisce il nuovo modo di stare sui mercati finanziari». Chi? «Forse un avvocato di affari milanese». Sta di fatto che il «nuovo modello operativo» finisce per incoraggiare, consapevolmente o meno, il sistema già in piedi dagli inizi degli anni 90 della contabilità parallela, delle discariche off-shore, funzionali a ricevere i trasferimenti di crediti inesigibili o fittizi. Dunque, ad allontanare quanto più possibile dalla società madre (Parmalat) il peso di voci che ne avrebbero appesantito il bilancio, modificandone il segno. Ora, è ovvio chiedersi: Citibank sapeva di quel che avveniva nella cucina di Tonna? E se lo sapeva, Parmalat pagava un prezzo per il silenzio? Un pubblico ministero la mette così: «Io non so quanto Citibank sapesse della contabilità parallela e del sistema delle discariche. Ammettiamo pure che nulla sapesse. Un fatto però è certo. Citibank che propone e mette a disposizione di Collecchio la ”Buconero”, una società costituita in Delaware necessaria a erogare finanziamenti indiretti a Parmalat attraverso una sua controllata. Al di là del nome scelto per la società, quantomeno imbarazzante, mi domando che necessità vi fosse di alimentare un sistema di prestiti di società infragruppo attraverso una società costituita nel paradiso fiscale del Delaware». Bene. E Tanzi? Davvero Tanzi nulla sapeva del gioco che era stato allestito? O, quantomeno, è possibile che nessuno lo avesse avvertito del baratro in cui stava cacciando Parmalat? «Tanzi - riferisce a Repubblica una fonte a lui vicina - venne messo in guardia nel 2000 proprio dal suo amico Federico Imbert, colui che gli aveva fatto scoprire i bond». *** Per quel che ”Repubblica” è in grado di ricostruire, il consiglio che nel 2000 Imbert e con lui Jp Morgan-Chase depositano a Collecchio suona sostanzialmente così: 1) Parmalat ha triplicato in tre anni il suo debito lordo, portandolo da 1 miliardo e 800 mila euro a 5 miliardi e 400 milioni, dunque è necessario non gonfiarlo ulteriormente; 2) La liquidità di cassa deve essere utilizzata per abbattere questo debito; 3) Parmalat è cresciuta molto negli anni 90 e gli indicatori macroeconomici consigliano a questo punto di disinvestire rapidamente da tutti gli assets non strategici, in cui l’azienda non è leader di mercato. A cominciare dal Canada. Tanzi ascolta (o forse fa finta di ascoltare), prende tempo spiegando che l’ultima parola dovrà essere di Tonna. Di fatto scarta, perché non vuole o non può fare altrimenti, quelle indicazioni e la giostra del debito continua a girare. Jp Morgan-Chase si ritira dalla competizione e nel 2000 cura l’ultimo collocamento di bond Parmalat (che porterà poi la data del 10 gennaio 2001). Lasciando nella partita contabile con Collecchio una sola, modesta, sofferenza di 50 milioni di euro. Denaro prestato alla ”Coloniale”, la finanziaria della famiglia Tanzi, nel 1999 e con rimborso previsto nel 2005. La corsa verso il precipizio, come racconta Tonna, è ai suoi ultimi passi: «La situazione di reale dissesto del gruppo Parmalat si può ritenere esistente già agli inizi del 2001» (verbale del 7 gennaio). Ma quel dissesto viene trascinato in avanti per altri trentasei mesi, durante i quali Collecchio collocherà altri 2,8 miliardi di euro in bond. Chi traina questa ultima fase dell’agonia? Un altro colosso del credito americano che si è mosso a lungo sullo sfondo, Bank of America. Che fa presto di Parmalat il suo primo cliente in Italia. *** Lo strumento che la BofA offre a un Tanzi che ormai ha bisogno di liquidità come l’aria che respira è quello dei ”Private placement” sul mercato americano (i cosiddetti USPP), il collocamento diretto presso investitori istituzionali di bond non destinati alla circolazione. un gioco che muove - secondo i ricordi di Ferraris, direttore finanziario di Collecchio succeduto a Tonna - «oltre un miliardo di dollari». Che sollecita un’ultima stagione di acrobazie finanziarie cui partecipano a diverso titolo, separatamente, ma con modalità simili, anche Credit Suisse first Boston, Ubs (operazione ”Banco Totta”), Morgan Stanley, Nextra. , soprattutto, un gioco truccato, perché buona parte di quei bond che Bank of America dichiara al mercato collocati presso investitori istituzionali sono in realtà riacquistati dalla stessa Parmalat attraverso trust off-shore creati dallo studio newyorchese di Giampaolo Zini. «Quantomeno siamo di fronte a una deception of Us investors - chiosa un banchiere italiano con ”Repubblica” - Inganno dei risparmiatori americani. Ed è quantomeno singolare che, a leggere le cronache, se ne occupi un tale Luca Sala, un signore che dicono essere stato responsabile della filiale italiana di Bank of America, ma che nessuno conosceva. Che viene licenziato nel giugno 2003 dalla Banca per asserite truffe sui rimborsi benzina e subito assunto come consulente da Parmalat». Indagato dalla Procura di Milano per aggiotaggio e riciclaggio, Sala ha restituito qualche settimana fa, in singolare coincidenza della visita degli ispettori della Sec (Security exchange commision, la Consob americana), 30 milioni di euro che gli erano stati sequestrati su conti svizzeri, frutto - dice - di «commissioni su legittime operazioni di riassicurazioni del debito di Bank of America verso Parmalat a fronte del cosiddetto ”rischio politico paese”». Rischio politico paese. Il banchiere ora si fa sarcastico: «Davvero? Rischio politico paese? Esistono delle operazioni di questo genere? Buono a sapersi, perché non le conosce nessuno. Perché invece non provate a chiedervi se quei denari restituiti da Sala sono davvero suoi o non sono magari di qualcun altro all’interno della Banca? Se non erano il prezzo pagato per ammorbidire le due diligence sui conti Parmalat». un fatto che Calisto Tanzi dice ai pubblici ministeri, con la consueta genericità: «Quasi tutte le banche, tra la fine del 2002 e l’inizio del 2003 si erano messe in fila per chiedere il rientro delle esposizioni. Al punto che, nel marzo 2003, accennai a Federico Imbert di Jp Morgan l’assoluta carenza di liquidità del gruppo. E questo perché avevo individuato in Jp Morgan e City bank e altre banche internazionali le uniche che potevano avere la forza di risollevare il gruppo». A raccogliere l’ultimo appello, però, sarà proprio Bank of America. «Sapevo - dice ancora Calisto - che era una banca amica e che i rapporti li teneva Tonna con Sala. Non chiedetemi perché. Chiedetelo a Tonna?». Non sorprende che nessuno creda a Luca Sala. Non sorprende che nell’amore a prima vista tra Parmalat e Bank of America si senta molta puzza di bruciato. Quel che sorprende, invece, è come ora qualcuno cominci a dubitare dell’altro nodo che stringe la banda di Collecchio a Bank of America: il falso documento che certificava le disponibilità liquide (3,9 miliardi euro) di Bonlat. Una fonte qualificata della piazza finanziaria milanese dice: «Sicuramente il conto Bonlat è un falso. Ma magari c’è un motivo per cui il falso portava il logo di Bank of America. Forse perché esisteva davvero una provvista liquida di Parmalat presso Bank of America. Una provvista vincolata a garanzia di finanziamenti erogati nel tempo dalla banca a Parmalat e non dichiarabili. Una provvista che è stata incassata nei giorni immediatamente precedenti il crac e di cui nessuno ha interesse a parlare. Provate a chiedere in giro?». Non sembra essere troppo lontana dal vero l’indicazione del banchiere milanese. Come documenta uno scambio di e-mail (oggi agli atti dell’inchiesta della Procura di Milano) tra la sede italiana e quella americana di Bank of America, almeno dal 12 dicembre 2003, dunque sette giorni prima che ne venisse data comunicazione al mercato, la banca americana era consapevole non solo dello stato di dissesto del gruppo, ma che il conto Bonlat era un falso, dunque del crac. Ebbene, quei sette giorni verranno utilizzati da Bank of America per trattenere le liquidità Parmalat depositate presso la banca a garanzia di un collocamento di obbligazioni. Girata ad un pubblico ministero di Parma, la questione non sembra allora suscitare alcuno stupore. Al contrario. «Sì, è possibile che esistesse una provvista di cui ancora non sappiamo». La Sec e l’Fbi sono per il momento molto più curiosi dei magistrati italiani. Che hanno fretta di chiudere con i processi la prima parte dell’affare Parmalat. Sarà una prima conclusione utile a proteggere i risparmiatori, necessaria a individuare le mosse colpevoli delle banche. A illuminare le torsioni di un sistema che ha dimostrato la sua inadeguatezza ordinamentale. Sarà solo la fine del primo capitolo della storia scritta da Calisto Tanzi, lattaio di Collecchio, Parma. Carlo Bonini, Giuseppe D’Avanzo