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 2004  marzo 19 Venerdì calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 22 MARZO 2004

Il Kosovo brucia perché così vogliono serbi e albanesi.
Un vecchio adagio serbo dice che la primavera porta le guerre nei Balcani. [1] Paolo Rumiz: «Una sera di maggio, un anno fa, a Strumica in Macedonia, sulla terrazza di un monastero, un giovane pope barbuto di nome Sava ci raccontò del demone sempre in agguato tra quelle montagne. Disse che non era finita, che tutto sarebbe ricominciato. ”Ma per favore non chiamatelo scontro di civiltà”. Per 50 anni di regime, spiegò, in Jugoslavia quasi nessuno s’è occupato di religione. Ieri erano tutti comunisti e oggi sono tutti ortodossi, o musulmani. Nel fallimento della politica, restava solo la religione. ”Ma è una religione imparata troppo in fretta, fraintesa, usata come arma”». [2]

Il Kosovo è una provincia della Serbia e del Montenegro, lo Stato che è succeduto alla disciolta Jugoslavia. Ha 2 milioni di abitanti, oltre il 90% albanesi. Nel ’99 fu al centro della guerra tra la Jugoslavia e la Nato conclusa col ritiro delle truppe serbe (che si erano distinte in un iniziale progetto di «pulizia etnica»), il disarmo (parziale) delle formazioni albanesi, la trasformazione del Paese in una sorta di protettorato, l’arrivo di 50.000 uomini della Kfor. [3]

Kosovska Mitrovica (70 mila abitanti, 50 mila albanesi, 20 mila tra serbi e zingari) è la città più divisa d’Europa. Gergolet: «L’ultima roccaforte serba rimasta in Kosovo, dopo che quasi 100 mila slavi sono fuggiti verso Belgrado spinti da ritorsioni e saccheggi albanesi, a guerra finita. Qualche centinaio di questi s’è fermato sull’Ibar. Ora la città è spaccata in due. I quartieri a nord, serbi. Quelli a sud, albanesi». [4]

Sono passati cinque anni da quando le forze della Nato entrarono in Kosovo. Marco Guidi: « come fosse passata meno di un’ora. In 5 anni la maggioranza albanese (e musulmana) e la minoranza serba (e ortodossa) non solo non hanno trovato un modus vivendi ma, al contrario, si sono arroccate nelle loro posizioni di reciproco odio, di intolleranza, di violenza». [5] Giuseppe Zaccaria: «In questo lunghissimo dopoguerra il Kosovo non ha visto nascere una sola istituzione comune, una sola industria, una qualsiasi economia diversa da quella che si sviluppa intorno ai soldati occidentali». [6]

Nominalmente il Kosovo fa ancora parte della Repubblica Serba, di fatto è governato quasi come fosse indipendente dagli albanesi. Qualche anno fa il primo governatore di Bosnia per conto dell’Onu, lo svedese Karl Bildt, sintetizzò: «Nell’arco di dieci anni l’Occidente ha sostenuto tre terapie diverse contro la dissoluzione della ex Jugoslavia. Prima la nascita di stati nazionali come Slovenia e Croazia, poi il mantenimento a tutti i costi di stati multietnici (Bosnia) ed infine la soluzione Kosovo. E la soluzione Kosovo è la seguente: mah...». [6]

Intanto la disoccupazione e la malavita regnano sovrane. Guidi: «Chi può emigra, chi non può s’arrangia. Il denaro che arriva dall’estero va in gran parte a finanziare missioni autoreferenziali e a ingrassare intermediari vari [...] gli albanesi continuano nel disegno di espellere tutti i serbi e i serbi ad attaccarsi al poco che è loro rimasto, sempre preferibile al nulla che troverebbero nel resto della Serbia (meglio assediati che profughi, in sostanza). [...] Il tutto in un’atmosfera di violenza che se non è esplosa prima e più violentemente lo si deve solo al fatto che migliaia di soldati stranieri, tra cui i nostri, presidiano il Paese». [5]

Mancava la scintilla, che prima o poi doveva arrivare. A Mitrovica, ovviamente. [7] Guido Rampoldi: «Gli inizi sono sempre confusi, e anche questo scontro tra serbi e albanesi che torna a incendiare il Kosovo ha un’origine controversa. Per gli uni gli albanesi stanno realizzando pogrom pianificati da tempo, per gli altri tutto è cominciato quando una torma di ragazzi serbi s’è dedicata con i cani alla caccia di coetanei albanesi». [8]
Tutto è cominciato martedì sera. Capenna: «Quattro bambini albanesi, dagli 8 agli 11 anni, si erano avventurati per gioco nella ”zona serba”. Alcuni ragazzi serbi li hanno visti e inseguiti, e con loro c’era un adulto con un cane [...] I bambini, impauriti dal cane, sono stati costretti, per fuggire, a buttarsi nel fiume Ibar, che divide la città. Tre di loro sono annegati, il quarto è riuscito a mettersi in salvo e, raggiunta l’altra sponda del fiume, ha raccontato cos’era successo: ”Ci hanno costretti a buttarci in acqua”, ha detto, proprio nel punto del fiume dove l’acqua è più alta». [9]

L’indignazione degli albanesi si è organizzata subito. Capenna: «In centinaia hanno lasciato la parte meridionale della città, decisi ad attraversare il fiume e a dirigersi nella zona nord, dove vivono i serbi. Già al ponte, presidiato dai soldati della Kfor, i manifestanti hanno gettato pietre contro i militari, che hanno risposto sparando proiettili di gomma e lacrimogeni. Mentre i soldati della forza di pace cercavano di disperdere gli albanesi, dall’altra parte del ponte si sono radunati manifestanti serbi, che a loro volta hanno tentato l’assalto. Poi gli albanesi hanno superato il ponte». [9]

Gli scontri sono degenerati, allargandosi anche al sobborgo di Caglavica, vicino Pristina. Capenna: «Qui sono stati i serbi a scendere in piazza per quanto stava succedendo a Mitrovica. Gli albanesi hanno avuto la meglio, dando alle fiamme una decina di case. Due palazzi sono stati fatti esplodere con cariche di esplosivo. [...] Scontri tra le due etnie si sono avuti in città e villaggi in ogni parte della regione [...]». [9] Alla fine (dati aggiornati a sabato) i morti sono stati 31, i feriti oltre 600. Una quindicina di carri armati della Kfor ha chiuso l’accesso al ponte sull’Ibar. [10] Bernard Kouchner, ex amministratore Onu in Kosovo: « disperante vedere che gli animi non sono cambiati, che l’odio e la violenza sono sempre lì». [11]

Quelli che cinque anni fa si schierarono contro la guerra, adesso sono scatenati. Tommaso Di Francesco: «Appare forte la responsabilità di chi ha usato la guerra come arma di risoluzione dei conflitti. Quella guerra occidentale [...] fu il risultato di una serie di stravolgimenti del diritto internazionale. Oggi chi la rivendica parla del ruolo dell’Onu, mentendo. Perché esisteva solo un dispositivo del ’98 che aveva avviato sul campo una missione di monitoraggio dell’Osce proprio per impedire violenze da tutte le parti. Rapporti Onu ancora nel gennaio ’99 e quelli Osce non parlavano di pulizia etnica ma di ”sfollati da una parte e dall’altra”». [12]

Fu la Nato la protagonista, per la prima volta ben oltre il suo mandato istituzionale. Di Francesco: «La svolta avvenne col legame perverso tra Richard Holbrooke, l’inviato Usa, e le milizie dell’Uck, indicate come ”terroristi” solo pochi mesi prima dall’altro inviato Usa nei Balcani, John Gelbart. Poi la pantomima della conferenza di Rambouillet. La strage di Racak fece il resto: peccato che l’anatomopatologa finlandese Helena Ranta, impegnata nelle indagini indipendenti, ha ribadito anche in questi giorni che quella strage era inventata». [12] Zaccaria: «Fra i circa quattromila corpi scoperti in numerosissimi, piccoli tumuli, circa la metà erano appartenuti a ”non albanesi”, per usare l’eufemismo dei medici legali dell’Onu». [6]

Il 24 marzo 1999 ebbe inizio la più grande campagna di bombardamenti dalla Seconda guerra mondiale. Di Francesco: «Vennero rase al suolo tutte le infrastrutture del paese, fabbriche, ponti, comunicazioni, ospedali, tornarono i rifugi a Belgrado, vennero uccisi 1.500 civili - con l’’innocente” uso delle cluster bomb sui centri abitati, gli effetti collaterali si moltiplicarano con l’uccisione sotto i raid dell’Alleanza di centinaia di profughi albanesi-kosovari in fuga dalla vendetta di Milosevic - che reagì con furia etnica all’attacco Nato - ma anche in fuga dai bombardamenti. Dopo 78 giorni di inarrestabili raid e bugie - fu il battesimo delle menzogne di adesso - dei governi occidentali, si arrivò alla pace di Kumanovo nel giugno 1999, le truppe serbe si ritirarono lasciando il campo all’Alleanza atlantica». [12]

Fu allora che cominciò la «contropulizia etnica» dei civili serbi, rom e goranci. Accompagnata dalla mattanza degli albanesi moderati. Di Francesco: «Proprio sotto gli occhi della Kfor che ha assistito senza muovere un dito alla demolizione di più di 100 monasteri ortodossi. Nulla era cambiato, le parti si erano invertite: 200 mila serbi fuggirono, i pochi rimasti vennero terrorizzati: dalla fine della guerra sono 1.300 i serbi uccisi, 1.200 i desaparecidos». [12] Zaccaria: «Quel che da cinque anni accade in Kosovo non è soltanto paragonabile al supposto ”genocidio” che provocò l’intervento della Nato ma lo supera largamente». [6]

Il deteriorarsi della situazione pare inarrestabile. [6] Marcon: «La ”comunità internazionale”, invece di garantire un processo democratico fondato su riconciliazione, giustizia, rispetto delle minoranze, è scesa più volte a inaccettabili compromessi con il nuovo corso disarmato (si fa per dire) del nazionalismo albanese, sperando di blandirlo con discutibili concessioni politiche e tanti finanziamenti internazionali per la ”ricostruzione”. Il disarmo dell’Uck è stato una sostanziale presa in giro: una grande quantità di armi è stata nascosta e una parte di esse adesso ritorna ad essere utilizzata contro i serbi e la Kfor. Dopo aver armato, sostenuto e benedetto fino al ’99 l’Uck, l’occidente ”liberatore” del Kosovo si vede colpito dagli stessi spiriti che aveva evocato». [7]

Per il nazionalismo serbo il rogo del Kosovo è una rivincita. Sul nemico militare, la Nato, e su quello ideologico, il liberalismo che aspira a stabilizzare il Kosovo nella cornice dello Stato di diritto. Rampoldi: «Ieri a Belgrado si proclamava con entusiasmo spiritato tanto il fallimento della Nato quanto l’impossibilità d’un Kosovo di cittadini e non di greggi etniche. E ovviamente si bollava come inutile la guerra mossa dalla Nato nel ’99. In realtà se i soldati occidentali oggi non fossero in Kosovo, da tempo conteremmo i morti a centinaia di migliaia, non solo in quella provincia ma in un’ampia regione dei Balcani». [8]

Eppure è evidente che l’Alleanza atlantica ha commesso errori. Rampoldi: «Per evitare di scontrarsi con il nazionalismo para-criminale albanese, non l’ha represso con la necessaria durezza. Ma soprattutto ha mancato d’una prospettiva chiara. Mentre Washington si baloccava con la possibilità d’una partizione, idea orecchiata anche da Berlusconi, gli europei la rifiutavano, temendo le conseguenze. Non aver sciolto quel dilemma ha lasciato spazio a due nazionalismi etnici che ora si combattono, ma allo stesso tempo combattono la Nato per costringerla alla fuga e alla resa». [8]

Quando bombardarono i serbi di Bosnia, nel ’95, e intervennero in Kosovo, nel ’99, gli europei e gli americani dichiararono di obbedire a esigenze umanitarie: mettere fine alla violenza, proteggere le popolazioni civili. Sergio Romano: «Ma a Dayton fecero della Bosnia-Erzegovina uno Stato fittizio, composto da tre entità territoriali che non avevano alcuna intenzione di vivere insieme. In Kosovo capirono subito che qualsiasi soluzione sarebbe stata, per una delle due parti, inaccettabile. Da allora abbiamo creduto che una politica umanitaria e giudiziaria (la punizione dei colpevoli al Tribunale dell’Aja) bastasse a riempire il vuoto delle nostre idee. Abbiamo creato in Bosnia e nel Kosovo due protettorati soffici, incapaci di impedire la rivalità delle fazioni, catturare i latitanti, convincere tutti gli esuli a tornare, stroncare la malavita». [13]
Anziché ridare alla Serbia dignità e prosperità, l’abbiamo umiliata. Romano: «L’America ha mercanteggiato i suoi aiuti contro la consegna dei leader serbi all’Aja: una politica che ha avuto per effetto la morte di un premier (Zoran Djindjic), l’ascesa del partito nazionalista e il successo dei socialisti di Milosevic alle ultime elezioni. La sola persona a cui abbiamo permesso di perseguire un disegno nella ex Jugoslavia è un procuratore svizzero, vale a dire un funzionario politicamente irresponsabile, dominato dalla sua sete di giustizia. E mentre Carla Del Ponte combatteva la sua crociata giudiziaria noi ci siamo limitati a praticare la politica del temporeggiamento. davvero sorprendente che in questo vuoto albanesi e serbi abbiano maturato il desiderio di completare quanto noi avevamo lasciato a metà?». [13]

L’idea europea di «pacificazione» è di creare a Mitrovica due municipi. Gergolet: «Nei giorni scorsi, la creazione della ”linea” di confine ha creato molti malumori e tensioni in città. Ma a Belgrado il piano piace. Da tempo, per scongiurare l’esodo serbo, i medici e le infermiere sono pagati due volte più che nella capitale. La parte serba è in sostanza autogestita, l’Unmik ha rinunciato a metterci piede e si accontenta di ”governare” gli albanesi». [4]

I nazionalisti albanesi del Kosovo vogliono la loro piccola patria. Rampoldi: «Una seconda Albania che spaventa la prima, essendo chiaro quale sarebbe il suo futuro. Grande neppure quanto l’Umbria, incassata tra le montagne e privo di risorse, ma straboccante d’armi, il Kosovo indipendente diventerebbe ciò cui lo destina la sua poderosa malavita: un grande centro di smistamento nel traffico di ragazze e di droga, ciò che in buona parte è già». [8]

L’indipendenza non potrebbe nascere che da una spartizione del territorio tra maggioranza albanese e minoranza serba. Rampoldi: «Ma se questo dividere territori e popolazione diventasse accettabile alla comunità internazionale, allora tutta la regione potrebbe essere ridisegnata. Innanzitutto la tormentata Macedonia, dove l’etnia albanese convive precariamente con le altre, però occupando le province confinanti con i cugini kosovari, con i quali ha legami d’affari e di sangue. Quindi la Bosnia, federazione asfittica e scarsamente coesa, boicottata com’è da una delle due entità che la compongono, la repubblichetta serba. E su questo effetto domino punta Belgrado. Nel parlamento serbo il progetto di assorbire un pezzo della Bosnia, quella anch’essa ”serba”, non è soltanto l’idea fissa dell’estrema destra, ma anche una prospettiva cara a partiti di governo». [8]

Per coronare questo sogno la strada obbligata è uno scambio di territori e di popolazione, come avveniva all’inizio del Novecento con le guerre balcaniche. Rampoldi: «La Serbia rinuncerebbe alla sovranità su due terzi del Kosovo, per ottenere in cambio la metà della Bosnia. Dunque anche a Belgrado conviene che il Kosovo bruci: se tenerlo insieme risultasse impossibile, non resterebbe che la spartizione per linee etniche e lo scambio di territori». [8]

Per quanto feroci siano le accuse reciproche di spietatezze, nei due campi avversi ascolterete l’identico ragionamento. Rampoldi: «Da 6 secoli in Kosovo cristiani e musulmani si combattono, dunque l’Occidente rinunci ad obbligarli a convivere. Troppo diverse la fede, i costumi, la ”civiltà” d’appartenenza. E troppo il sangue versato nei secoli. Così quei due nazionalismi fieramente nemici in realtà sono alleati, perché convergono verso la stessa conclusione: il Kosovo va spartito. Ed è questa convergenza che rende esplosiva la crisi e arduo per la Nato spegnere l’incendio: che il Kosovo bruci è nell’interesse di entrambi i contendenti». [8]




Più che di soldati, in Kosovo ci sarebbe bisogno di maestri e formatori. Luigi Cancrini: «Di sociologi e di antropologi capaci di suggerire strategie utili alla ritualizzazione del conflitto, al riconoscimento ed alla valorizzazione delle differenze, alla presa di coscienza della possibilità di farle crescere insieme. Quella di cui ci sarebbe stato bisogno e di cui ci sarebbe bisogno ancora oggi, forse, è un’autorità in grado di organizzare dei tornei di calcio con la partecipazione di tutti i ragazzi appartenenti alle diverse etnie [...]». [15]

I miracoli durano tre giorni, dice il proverbio serbo. Pietro Veronese: "E così è stato per le speranze dei nazionalisti, che dopo l´improvviso incendio del Kosovo speravano forse di veder soffiare di nuovo il vento rovente dell´odio attraverso la Serbia. Al terzo giorno la partecipazione popolare ai cortei di Belgrado si è fatta più ridotta e soprattutto più accorata, meno impetuosa, assolutamente non violenta. [...] Se quello che si voleva era una grande mobilitazione collettiva nel segno del ridesto nazionalismo serbo, allora è stato un mezzo fallimento. [...] La violenza, si spera, è passata e non tornerà". [16]