Andrea Malan Il Sole-24 Ore, 10/03/2004, 10 marzo 2004
New Delhi, l’altro lato dell’outsourcing, Il Sole-24 Ore, 10/03/2004 Delhi. Vista da qui, la fuga dei posti di lavoro ha una faccia diversa
New Delhi, l’altro lato dell’outsourcing, Il Sole-24 Ore, 10/03/2004 Delhi. Vista da qui, la fuga dei posti di lavoro ha una faccia diversa. Quella degli 800mila programmatori che hanno già trovato occupazione nelle aziende locali high-tech o nelle filiali dei colossi occidentali. Quella degli impiegati dei call center, che guadagnando metà dei loro colleghi occidentali sono ricchi in India. E soprattutto quella di chi conta sui loro stipendi per uscire da una povertà secolare. Per questo a Delhi sono preoccupati dalle polemiche pre-elettorali americane; con il candidato democratico alle elezioni presidenziali, Kerry, che si scaglia contro le aziende che esportano posti di lavoro - e l’amministrazione Bush che nel tentativo di battere i rivali sta facendo pressioni sul governo indiano per ottenere aperture commerciali a compenso dei posti di lavoro emigrati. Come sembrano lontani in tempi in cui - poco più di dieci anni fa - erano proprio i politici di Delhi a lanciare l’allarme sul fatto che la globalizzazione avrebbe sottratto al Paese posti di lavoro! Il ciclone. Kiran Karnik è amministratore delegato della Nasscom, la lobby indiana delle aziende di software e servizi informatici. Gestisce in prima persona i contatti con il governo indiano da un lato, con quelli stranieri dall’altro. Sfodera la massima diplomazia: loda per esempio il governo di Londra, che - dice - finora si è rifiutato di cavalcare le proteste. E per quanto riguarda gli Usa, a Delhi si guarda con fiducia alla scadenza elettorale di novembre: passate le elezioni Usa, è la tesi, passerà anche la tempesta. La tempesta, per ora, è ancora a forza dieci. Basta dare un’occhiata al sito nojobsforindia.com: lista di proscrizione delle aziende che esportano occupazione; rubrica «I fallimenti dell’outsourcing»; allarmi di ogni tipo, da «Il vostro conto in banca in mani straniere» a «Quanto ci metteranno i terroristi a trovare queste informazioni?». Non mancano, d’altra parte, statistiche e studi a sostegno dei timori americani. Secondo il Gartner Group, un posto di lavoro americano su dieci nei settori high-tech emigrerà entro la fine di quest’anno; per la Forrester, ”partiranno” oltre tre milioni di posti in 15 anni. E il crescente malcontento si è già tradotto in una misura concreta: il Senato ha approvato la settimana scorsa una legge volta a impedire agli enti pubblici di appaltare attività all’estero. Karnik non si scompone. «Guardi, ne abbiamo parlato in qualche conversazione informale. E ho fatto ai politici americani un discorso semplice: se volete appaltare quelle attività negli Usa, spenderete il quadruplo. Quindi, dovrete aumentare le tasse per mantenere lo stesso livello di servizi; oppure tagliare i servizi. In entrambi i casi, non so se i vostri elettori saranno contenti». Modelli di sviluppo. In India sanno che la perdita di posti di lavoro in Occidente è un problema. Ma Karnik chiama in causa le stesse aziende occidentali, che quei posti di lavoro esportano: «A proposito dell’outsourcing, vorrei essere molto chiaro: non è un problema politico, ma l’effetto di un modello di sviluppo che le aziende americane seguono da almeno trenta o quarant’anni. Prima appaltavano all’esterno la mensa, o la sicurezza; poi sono arrivate attività a maggior valore aggiunto. Adesso, grazie alla tecnologia, possono ”spedire” i posti di lavoro molto più lontano - ma questa è l’unica differenza». La soluzione? «Noi non abbiamo una risposta. Possiamo solo dire ai disoccupati che le imprese che li licenziano hanno il dovere di investire almeno parte dei soldi risparmiati attraverso l’outsourcing, per il loro addestramento e la loro riconversione». Un’opinione, questa, condivisa da Carly Fiorina - presidente della Hewlett-Packard, che in un recente articolo sul ”Wall Street Journal” ha invitato i connazionali a essere «creativi, non protezionisti». Quella della manager, peraltro, è una delle poche voci che si levano negli Stati Uniti a difesa della libera circolazione dei posti di lavoro - in un periodo in cui le grandi corporation, prese di mira da dipendenti e politici, adottano un profilo bassissimo. Il tema non sarebbe così caldo negli Usa (e non sarebbe al centro della campagna elettorale) se il Paese non uscisse da una crisi che è costata milioni di posti di lavoro. Come conferma Jerry Rao, fondatore di MphasiS e futuro numero uno di Nasscol: «Perché le acque si calmino - avverte - bisogna dare alla ripresa economica Usa il tempo di consolidarsi». Tutti vincono. Nel lungo periodo - sottolinea la Nasscom - la riallocazione dei posti di lavoro è un gioco win-win, ovvero in cui tutti guadagnano. La presentazione cita - con tanto di grafico - l’ormai classico studio della McKinsey, secondo il quale per ogni dollaro di attività trasferite nei Paesi in via di sviluppo, il guadagno complessivo per il sistema è di oltre un dollaro e mezzo - di cui oltre un dollaro rimane nel Paese ”esportatore”. Anche negli Stati Uniti, del resto, c’è ancora chi sostiene che la globalizzazione ha effetti positivi per tutti. Ma per ora resta una vox clamans in deserto. Karnik cerca di mettere in evidenza le contraddizioni dell’atteggiamento Usa. E introduce un argomento che nel lungo periodo potrebbe essere decisivo: «Proprio mentre infuria la polemica sulla fuga dei posti di lavoro, gli Stati Uniti mettono un tetto ai visti di ingresso per i lavoratori stranieri. Ma l’Occidente deve decidersi: o importate lavoratori o esportate i posti di lavoro». Tanto più nel lungo periodo: «Se le attuali tendenze demografiche proseguiranno - ricorda - gli Stati Uniti e Paesi europei avranno sempre più bisogno di immigrati». Surplus di lavoro. Sarà soprattutto l’India a poterli offrire: secondo uno studio realizzato dall’Aia, l’associazione di management indiana, con la cooperazione del Boston Consulting Group, secondo il quale nel 2020 l’India avrà un surplus di 47 milioni di lavoratori - a fronte di un deficit per quasi tutti gli altri. La ricerca è per certi versi sorprendente: anche la Cina per esempio, che negli ultimi anni ha regolarmente battuto l’India per tasso di crescita e per capacità di attrarre investimenti, soffrirà entro quella data di una carenza di manodopera, per effetto della politica del figlio unico attuato dal governo cinese fin dagli anni 80. L’abbondanza di manodopera può dunque trasformarsi in un vantaggio per l’India? Il boom attuale nel settore high-tech è significativo, ma il suo impatto sull’occupazione complessiva e sul Pil è ancora relativamente limitato. Per mantenere gli attuali tassi di crescita ed estendere l’appeal dell’India anche al settore manifatturiero, serviranno anche le riforme economiche - che Nasscom sta promuovendo in collaborazione con il governo. Le tariffe sull’importazione di personal computer, per esempio, sono state dimezzate al 20 per cento per stimolare anche il settore hardware. Una mossa a lungo ostacolata dai produttori locali, che temevano la concorrenza straniera; con il risultato che il mancato decollo del mercato interno ha tenuto lontani i gruppi esteri, nessuno dei quali produce in India. Agli Stati Uniti però, i passi compiuti finora non bastano; Washington sostiene che la media delle tariffe Usa è attorno al 3 per cento. Le riforme. Il governo di Delhi, comunque, sta accelerando sulle riforme. Proprio nelle scorse settimane sono state introdotte importanti liberalizzazioni nel settore delle telecomunicazioni; senza dimenticare il processo di privatizzazione, che ha visto la cessione di quote importanti di aziende statali con una risposta entusiasta da parte del mercato: la settimana scorsa la vendita del 10 per cento della Oil & Natural Gas Corporation ha visto un numero di prenotazioni pari a oltre il doppio delle azioni offerte. Ma sul tavolo ci sono anche riforme di carattere più generale, come quella del sistema educativo, un elemento-chiave della competitività del Paese. Con un modello che si avvicina - guarda caso - a quello americano: istituzioni pubbliche di ottimo livello, con una crescente presenza dei privati. Anche a Delhi, come a Washington, le riforme sono state in parte innescate dalla scadenza elettorale: il mese prossimo si rinnova il Parlamento e il governo in carica, guidato dal partito nazionalista Bjp, è dato per favorito nei confronti del partito del Congresso capeggiato dalla famiglia Gandhi. Le privatizzazioni, per esempio, erano parte degli impegni presi dall’esecutivo - e sono state varate in tutta fretta. Ma è chiaro che ogni liberalizzazione mette Delhi in una condizione più vantaggiosa nel dialogo con Washington. E Karnik ricorda con una battuta che a sostegno delle riforme è ormai schierata tutta la classe politica indiana: «Qui da noi anche i comunisti le hanno varate, negli stati in cui governano». Andrea Malan