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 2004  marzo 10 Mercoledì calendario

Bye bye Silicon Valley, la Repubblica, 10/03/2004 «Silicon Valley: il bersaglio gigante». è il titolo-shock con cui ”The San Francisco Chronicle” apre un’edizione speciale sulla nuova emergenza californiana

Bye bye Silicon Valley, la Repubblica, 10/03/2004 «Silicon Valley: il bersaglio gigante». è il titolo-shock con cui ”The San Francisco Chronicle” apre un’edizione speciale sulla nuova emergenza californiana. Job-offshoring: è l’epidemia di licenziamenti di massa decisi dalle aziende che chiudono qui per assumere in Cina e in India. Colpisce al cuore la Silicon Valley - il centro mondiale delle tecnologie avanzate - perché la nuova onda d’urto della delocalizzazione non investe più solo la produzione e i lavori operai; ha superato i lavori impiegatizi più umili come gli addetti ai call-center che danno assistenza telefonica 24 ore su 24 per le prenotazioni aeree o alberghiere. Qui ormai si licenziano a migliaia gli ingegneri e i bancari, i commercialisti e i programmatori di software. La classe politica è in allarme, l’America si sente vittima della globalizzazione e reagisce coi nervi a pezzi: si moltiplicano misure protezionistiche pesanti, come l’esclusione da tutte le commesse pubbliche per le aziende colte in flagrante offshoring. Il ”San Francisco Chronicle” dà voce a una Silicon Valley angosciata e stremata. C’è il bollettino di guerra dei posti fuggiti sull’altra sponda del Pacifico, azienda per azienda: Hewlett-Packard, 8.000 assunzioni in India, 20.000 licenziamenti qui. Oracle, 4.200 posti in India. Intel 1.400. PeopleSoft 1.000. Cisco 600. E avanti con la lista fino a citare piccole e medie aziende di software: delocalizzano le poche decine di posti che hanno. Ci sono pagine intere di testimonianze, i drammi umani dei professionisti licenziati. Come la signora Shelley Ewing, 53enne di Los Gatos, ex programmatrice e project manager da Apple Computer: la sua mansione è stata trasferita a Bangalore, nella Silicon Valley indiana. Racconta la sua via crucis, 18 mesi in cerca di lavoro, «175 risposte alle inserzioni, telefonate alle aziende, interviste coi capi del personale, e la ricerca di aiuti e raccomandazioni tra gli amici, i vicini, gli amici degli amici, gli ex-colleghi, le conoscenze occasionali fatte al supermercato». La mappa dei 37 lavori più a rischio è redatta sul campo dagli studiosi dell’università di Berkeley Dwight Jaffee e Cynthia Kroll. A fianco ai programmatori di software, agli ingegneri informatici, spuntano mansioni insospettate. Gli impiegati delle assicurazioni che curano le pratiche dei rimborsi. I medici che interpretano le radiografie. Gli esperti fiscali che fanno dichiarazioni dei redditi per le aziende e i loro dipendenti. I legali che preparano contratti. I contabili e i revisori dei conti. Nessuno è al riparo se le sue competenze si possono imparare all’estero, se le sue prestazioni possono viaggiare su Internet, se lavora usando l’inglese come centinaia di milioni di indiani e di asiatici. Da anni le università indiane e cinesi sfornano l’élite mondiale dei laureati, lo sanno le aziende della Silicon Valley che ne hanno reclutati decine di migliaia per farli venire qui. Ma impiegarli nel loro Paese offre un vantaggio competitivo inestimabile. Ecco le cifre ufficiali dello U.S. Bureau of Labor Statistics: un programmatore di software a San Jose, nella Silicon Valley, guadagna 77.690 dollari all’anno più l’assicurazione sanitaria e i versamenti sul fondo pensione. Con la stessa qualifica e lo stesso incarico, un’azienda americana può assumere un suo collega a Bangalore e pagarlo 10.900 dollari all’anno. L’industria tecnologica, globalizzata da sempre nei suoi linguaggi e metodi di lavoro, è la prima a inseguire questa gigantesca opportunità: negli ultimi due anni 560.000 posti di lavoro sono stati distrutti nello hi-tech americano e in 15 anni ne spariranno altri 3,3 milioni. Ma dietro l’informatica s’ingrossa la fila delle aziende di servizio che imparano a sfruttare l’immenso divario salariale tra le due rive del Pacifico. Dai commercialisti ai broker che trattano gli ordini d’acquisto in Borsa, mestieri antichi e rispettabili del ceto medio urbano-professionale corrono il rischio di vedersi amputare il 33 per cento dei posti di lavoro. La General Electric Capital, ramo finanziario e assicurativo di un colosso che gestisce fondi pensione e polizze vita per milioni di famiglie americane, ha delocalizzato in India il suo centro di analisti dei mercati. Ernst&Young ha decentrato ogni pratica fiscale: per capire una dichiarazione dei redditi Usa non c’è bisogno di stare seduti dietro una scrivania in America. Per una crudele ironia, uno degli studiosi più citati sul declino della Silicon Valley è Ashok Deo Bardhan: economista indiano, una laurea a New Delhi e un curriculum che include la Banca centrale indiana e il centro di ricerche nucleari di Bombay. Oggi lavora alla Business School di Berkeley e dipinge uno scenario crudele per la terra che lo ha accolto: «Nell’ondata precedente della globalizzazione, quando toccava agli operai dell’automobile perdere i posti che venivano trasferiti dall’America all’Asia, la ricetta era: riqualificare, riaddestrare i lavoratori per indirizzarli verso le attività del futuro. Ma oggi per cosa li si può riqualificare? Mi guardo attorno e non vedo un’attività del futuro che assuma qui e non in Asia». Michael Anderson, 55enne ingegnere informatico di Berkeley, ex consulente tecnologico dell’Ibm oggi sopravvive con l’assegno di disoccupazione di 600 dollari al mese: «Eccomi, io sono la nuova middle class americana che sta evaporando sotto i vostri occhi». L’emergenza offshoring irrompe nell’agenda dei politici. La marea del riflusso protezionista sale a vista d’occhio. Ha cominciato dalla periferia: l’Indiana (non è uno scherzo) fu il primo Stato Usa a escludere una società indiana (la Tata) che aveva vinto un appalto pubblico per fornire servizi informatici. L’esempio è stato contagioso: dal Connecticut al New Jersey, dalla Florida alla California, le proposte di legge anti-offshoring dilagano. Adesso anche il Congresso e il Senato di Washington si muovono. Defending American Jobs Act, United States Workers Protection Act, Usa Jobs Protection, Jobs for America Act: sono i titoli delle misure che affollano il calendario dei lavori parlamentari. Il Senato ne ha approvato una durissima la scorsa settimana: esclude dalle commesse pubbliche tutte le aziende che abbiano delocalizzato - anche solo 50 posti di lavoro - negli ultimi cinque anni; sono colpite imprese dal milione di dollari di fatturato in su, cioè anche le piccole e medie. Una norma analoga abbassa la soglia a 15 posti di lavoro. Porta firme importanti: John Kerry, Ted Kennedy, Hillary Clinton, John Edwards. I capi delle multinazionali reagiscono sdegnati, denunciano la tentazione protezionista come una follia: «Aprite gli occhi - avverte Carly Fiorina, la chief executive di Hewlett Packard - nel mondo di oggi nessun posto di lavoro appartiene all’America per diritto divino». Ma perfino la sua California è impaurita, e in un anno di elezioni presidenziali tutto può accadere. Federico Rampini