Antonella Amendola Oggi, 10/03/2004, 10 marzo 2004
Per Dalí l’artista è un angelo a cui solo una donna innamorata può mettere le ali, Oggi 10/03/2004 Lo sogna ancora, padre ingombrante e maestro ironico con il quale è difficile chiudere i conti
Per Dalí l’artista è un angelo a cui solo una donna innamorata può mettere le ali, Oggi 10/03/2004 Lo sogna ancora, padre ingombrante e maestro ironico con il quale è difficile chiudere i conti. A lui dedica un romanzo esclusivo, in uscita in Francia il 6 maggio. «Soprattutto», dice Amanda Lear, «credo di essermi innamorata del mio ultimo fidanzato, Manuel Casella, perché somiglia a lui giovane: stessa faccia allungata con gli occhi ardenti, stessi capelli fluenti, stessa postura elegante». A cent’anni dalla nascita di Salvador Dalí (Figueras 1904-1989), il narcisistico genio che rese immagini popolari i sogni dei surrealisti, l’amica, nello stesso tempo musa e allieva, lo ricorda. «Come un grande della pittura spagnola, che sapeva dipingere un umile tozzo di pane come avrebbe fatto Velàzquez. Un disegnatore finissimo. Una mano superba a cui bastava una pennellata sola in un rettangolino di carta per esprimersi. Una mente complessa che amava far saltare i codici della comunicazione borghese, un vero contestatore ante litteram che spianò la strada alla rivoluzione psichedelica degli hippy». Le celebrazioni, con le grandi mostre, da Barcellona a Perpignano, a Filadelfia, a Venezia (settembre, Palazzo Grassi), sono «l’occasione per ripensare la qualità dell’opera di un artista che è stato spesso oscurato dal suo essere personaggio alla moda con le sue tenute irriverenti, la corte di miracolati, gli status symbol del lusso e del successo». Dica la verità, era un po’ baraccone col suo cappellino catalano, le pellicce, il bastone col pomo d’argento appartenuto a Victor Hugo, il monogramma del re Alfonso XIII sulla cravatta... «Amava mascherarsi per gli altri. Finché lavoravamo in studio, nel pomeriggio, io che leggevo Proust, De Sade, lui che interveniva sui fondi preparati dal piccolo Bea, era un uomo sincero, dolce, sensibile. Si preoccupava moltissimo della mia infelicità. Diceva che ero un tipo maniaco-depressivo, esposta alla delusione, la reincarnazione della Malinconia di Dürer. Poi alle venti arrivavano i suoi fedelissimi, donne ribattezzate con nomi maschili come Luigi XIV, e tutto uno stuolo di Capitano, Cardinale, Pesca, Delfino e diventava un’altra persona. Debolezze che però forse ingigantiamo perché siamo abituati alla mistica del pittore maledetto, come Modigliani, che crea nella sofferenza romantica. Dobbiamo tener conto che Dalí è stato baciato dal successo, ha manovrato molto denaro: diceva di avere nel suo stesso organismo una sorta di termostato della felicità». Come vi sieti conosciuti? «A Parigi, nel ’65. Facevo la modella per pagarmi gli studi di Belle Arti a Londra. Entro in un ristorante con uno dei Rolling Stones, Brian Jones, e Tara, ricco ragazzo irlandese, e lui manda due gemelli a invitarmi al suo tavolo. Gli piaceva la mia magrezza, diceva che le ossa sono la struttura che resiste al disfacimento della morte, quindi la parte più nobile di un corpo umano. Lui detestava le ragazze opime, le carni abbondanti, i seni evidenti. Era incantato dal mio teschio. Una volta mi ha detto: ”Sembri il Mosè di Michelangelo, hai lo stesso sguardo severo con cui mi rimproverava mio padre”». Aveva un grosso problema con la figura paterna? «Sì. Il padre, notaio di Figueras, di cui fece bellissimi ritratti, ostacolò la sua vocazione artistica, ritenendola poco consona alla sua dignità di primo notabile del paese. E poi Dalí si fece buttar fuori dall’Accademia di San Fernando a Madrid, dove era diventato molto amico di Buñuel e García Lorca, per risposte supponenti e maleducate agli insegnanti. Sputò su un quadro della madre. Ce n’era di che esacerbare il notaio che lo ripudiò quando volle sposare la divorziata Gala, già moglie del poeta éluard. Dalí mi raccontò che quando tornò al suo paese dall’America, negli anni Cinquanta, su una Cadillac e carico di quattrini, la gente mormorava: ”Dio mio, Dio mio, è diventato un boss della droga...”. A Figueras nessuno poteva concepire che si potesse fare una gran carriera con l’arte». L’intesa con García Lorca comprese anche una sorta di passione fisica? «Lorca era sicuramente innamorato di Dalí, al quale dedicò anche versi. Paragonava gli occhi e la voce dell’amico del cuore al capolavoro naturale degli ulivi della Costa Brava. Una volta ho affrontato l’argomento con il maestro che è stato diretto e sbrigativo: ”Di fronte agli assalti di García Lorca io fuggivo per l’orrore”. Negli anni Dalí ripensava spesso con dolore alla tragica morte del poeta ucciso dai franchisti: in fondo, la discriminante politica aveva lacerato il mondo utopico e fervido della sua gioventù. Poiché non poteva essere artista militante e comunista ruppe con i surrealisti che presero a chiamarlo ”Avida dollars”, anagramma che alla fin fine non gli dispiaceva. Ma non era neanche un totalitarista di destra e nel quadro L’enigma di Hitler (’39), con la cornetta del telefono che piange sul ritratto del dittatore, ha il lugubre presentimento di tutti i lutti che il nazismo porterà. Lui era un conservatore spagnolo. Monarchico e apostolico, diceva». Lei è stata tra le poche presenze femminili intorno a Dalí che la moglie Gala abbia apprezzato senza riserve. Che idea si è fatta del loro matrimonio? «Gala era una persona meravigliosa. lei che ha spinto Dalí a lavorare come un classico, con le belle tele di canapa e i colori a olio. Lui prima di conoscerla era uno spontaneista, creava per terra, sulla sabbia, rovesciando a pioggia l’inchiostro sulla carta. Gala è riuscita a incanalare e potenziare le sue energie, che altrimenti si sarebbero perse in mille rivoli. A Parigi lei usciva coi lavori del marito sotto il braccio e vagava tutto il giorno per piazzarli a un buon prezzo. Dalí mi diceva che tornava a casa livida dalla fatica. Una volta, mentre si girava a Roma il Satyricon, incontrai al ristorante, con Donyale Luna, Fellini e la Masina ed ebbi la conferma che in certe coppie è lei che dà la regola al genio. Gala aveva polso negli affari e ha fatto tanto per proteggere suo marito. ”Stiamo affrontando un triste declino”, mi telefonò prima della morte, ”e non riesco più a star dietro a Dalí che si butta per terra, va in depressione ed è contornato da avvoltoi. Ha bisogno continuo della mia presenza e non posso neanche andare dal parrucchiere”. Gala, più vecchia del marito, sentiva che le forze le venivano a mancare e mi chiese di sposare Dalí dopo la sua morte. ”Non posso prendere quest’impegno”, le risposi con sincerità. ”Ho cominciato la carriera di cantante, guardo al futuro, non me la sento di fare l’infermiera a un vecchio devastato dal morbo di Parkinson”». Dal punto di vista sessuale fu un’unione appagante? «Dalí si accorse che si era innamorato di Gala perché cominciò a riderle in faccia in maniera isterica. Riuscì a fatica a contenere quelle esplosioni irrefrenabili per dichiararsi e lei gli prese la mano e più o meno gli disse che l’avrebbe salvato. Dalí ha sempre detto che era impotente anche se ci sono quadri come Il grande masturbatore o certi nudi di Gala che fanno pensare a uno scambio fisico. Per Dalí un artista è una sorta di angelo a cui solo una donna innamorata può metter le ali». «Teorizzava il cledaismo, da Solange de Cleda, la protagonista del suo romanzo Visages cachés scritto nel ’43 e oggi per la prima volta pubblicato in francese. In questa storia in cui l’eroina somiglia alla collezionista Marie Laure de Noailles, lei è oggetto di ”amour fou”, ma ogni pulsione erotica viene sublimata. Dalí era sarcastico di fronte alla numerosa figliolanza di Picasso. ”Sarebbe un non sense tristissimo”, osservava, ”andar per strada e scoprire che il tuo tassista è un pronipote di Leonardo”. Per lui il Dna del genio è unico, non si riproduce e affida solo alle opere la sua speranza di eternità». Certo che era un uomo proprio contorto. «E lo sapeva. Al punto di premere su Freud per un consulto. Mi raccontò che quando si presentò a Londra alle lezioni del padre della psicoanalisi lo studioso continuava a parlare ai suoi studenti e lui cominciò a fare rumori, gesti per attrarre l’attenzione. ”Vi presento un tipo fanatico spagnolo isterico”, disse Freud al suo uditorio. Dalí pencolava tra la paura della morte, l’ossessione dell’ascesi e un eros che avviluppava ogni cosa come una ragnatela, trasudava anche dagli oggetti comuni, dai cibi. Lui pensava all’epifania della sua arte in termini di molle o di duro, usando proprio un certo colorito linguaggio e aveva ribattezzato graziosamente il membro maschile la ”limousine”. Due innamorati che tubavano erano per Dalí una ”macchina per cucire”». Non pensa che per Dalí la pittura fosse una specie di terapia? «Sì, è un po’ così. Esternava i suoi incubi per padroneggiarli poi nella dimensione estetica della quale si sentiva signore. A me facevano un po’ impressione certi grumi del suo inconscio, certe composizioni. Arrivai dal maestro che ero una fan di De Chirico: la visione metafisica dell’artista italiano può rendere inquieti e malinconici ma non fa mai paura. Invece certi quadri del maestro mi terrorizzavano. Oggi di lui apprezzo i Cristi, i soggetti sacri e gli squarci di pittura alla Velàzquez. Sono curiosi certi quadri degli anni Trenta in cui cominciò a inserire oggetti del quotidiano. Fece un piccolo tavolo con una bottiglia di Coca-Cola. Andy Warhol, che era andato a mostrargli i propri disegni di scarpe, lo vide e dette il via alle icone della pop art. In tanti hanno attinto a Dalí». Lei è una daliniana pentita? «Più che altro ero una daliniana scolastica. Oggi ho trovato la mia strada, faccio composizioni molto colorate e anarchiche, che semmai risentono della pittura del Midi. Le vedrete presto a Siracusa e allora si capirà che non sono solo la presentatrice alla quale, in televisione, fanno dire cose un po’ stupidine». Ricorda quando ha posato per il grande quadro di due metri e mezzo, Angelica liberata dal drago, che ora sta al museo di Figueras? «Una situazione penosa, con tutto il peso su una gamba. Lui mi diceva: ”Piccola mia, ancora un po’ di pazienza”. Poi arrivò l’attore Yul Brynner a far fotografie, oggi esposte alla mostra di Perpignano. Ci sono ricordi più divertenti. Come quando gabbammo un tipo insistente con tarocchi fatti da me o preparammo 12 acquerelli in 12 minuti cronometrati, semplicemente esponendo le carte coi grumi di colore sotto il getto d’acqua del lavandino». Andavate mai al mare insieme? «D’estate sempre. A mezzogiorno il domestico-pescatore Arturo preparava il gozzo giallo di Gala e si partiva. Il maestro galleggiava perché non sapeva nuotare: i baffi ritti sul pelo dell’acqua. Quando si levava l’accappatoio per rimanere in costume da bagno chiedeva scusa perché mi toccava vedere il cinto con cui sosteneva l’ernia. Se si accorgeva che me l’ero svignata sulle rocce a cercare ricci si agitava, temeva che mi ferissi. Una volta mi ha baciato i piedi dicendo: ”Io l’amo”. Arrivò a propormi una parodia di matrimonio morganatico, di quelli che fanno i reali. Mi attraeva, non so perché. Ma, con tutte le critiche che potevo fare al suo modo borghesissimo di vita, sentivo che era in grado di cavare da me il meglio e come un grande sciamano mi mostrava il mio posto nel mondo». Mi racconta l’ultimo incontro? «Una cosa tristissima. Avevo saputo che stava molto male, era diventato una larva e aveva pochissimi sprazzi di lucidità. Insistetti per vederlo a Port Lligat. Lui acconsentì purché l’incontro si svolgesse al buio. Non voleva mostrarmi la sua decadenza. ”Piccolo Dalí, sono qui per dirle quanto l’ho amata e continuo ad amarla”, dissi a quella specie di fantasma sprofondato in una poltrona. Mi prese la mano e ci fece scivolare dentro un pezzo di legno che diceva essere una reliquia della Croce, il suo portafortuna. Nei miei traslochi l’ho perso. Uno psicoanalista avrebbe qualcosa da dire». Antonella Amendola