[1] Giulio Anselmi, ཿla Repubblica 20/1/2004; [2] ཿCorriere della Sera 23/1/2004; [3] R & S di Mediobanca, 2003; [4] ཿLa Padania 2/11/2003; [5] Luigi Chiarello, ཿItalia Oggi 21/1/2004; [6] Federico Monga, ཿLa Stampa 19/1/2004; [7] Alfredo Recanat, 21 novembre 1999
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 26 GENNAIO 2004
I dieci padroni della Banca d’Italia.
Tra parlamento, ministeri e giornali va in scena tutti i giorni un dramma politico-istituzionale. Giulio Anselmi su ”la Repubblica”: «Racconta delle insufficienze di sette livelli di controlli, compreso quello, fino a pochi mesi fa ritenuto ineludibile, della Banca d’Italia; dello scontro, nel nome della tutela dei risparmiatori, tra il titolare dell’Economia Tremonti e il governatore Fazio [...]; della divisione dei partiti in schieramenti, trasversali e in movimento». [1]
Nelle banche si coglie un allarme vero. Anselmi: «Per le molte migliaia di risparmiatori finiti nel gorgo dell’illusione finanziaria alimentata dalle salse di Cragnotti o dal latte di Tanzi oggi il nemico principale sono le banche, impersonate dall’impiegato di sportello o dal consulente finanziario che gli ha rifilato, nell’ordine, obbligazioni argentine, bond Cirio e titoli Parmalat [...]». [1]
Secondo l’opinione pubblica c’è stata una connivenza del sistema che ha in Fazio il suo gran regista. [1] La risposta del governo dovrebbe essere una super authority per il risparmio in cui far confluire Consob, Covip e Isvap. La bozza di riforma, che recepisce la direttiva Ue sugli abusi di mercato e fissa le sanzioni fino alla reclusione, prevede un ridimensionamento dei poteri della Banca d’Italia, norme più rigide sulle emissioni obbligazionarie e regole meno stringenti per consentire all’autorità di controllare le società italiane con sedi in paradisi fiscali. [2]
L’immane conflitto d’interessi che blocca il sistema del credito italiano. I conflitti di interesse vanno ben al di là della struttura dei gruppi creditizi: dai rapporti incrociati con le maggiori industrie (anche se spesso nati dalla necessità di trasformare i crediti in azioni delle società indebitate) alla predisposizione dei report (valutazioni) sulle società quotate. Anselmi: «In Italia perfino l’impianto generale del sistema si regge su un immenso conflitto, anche se privo di effetti pratici: i maggiori dieci gruppi sono azionisti dell’istituto di via Nazionale che li deve controllare. Tempo fa un insigne cattedratico presentò un progetto a Fazio per superare l’anomalia, ma il superbanchiere preferì non muovere nulla». [1]
Per intenderci, le prime quattro banche azioniste controllano il 66,55 per cento di Palazzo Koch: Gruppo Intesa (27,2%), San Paolo Imi (17,23), Capitalia (11,15), Unicredito (10,97). Seguono Assicurazioni Generali (6,33) e Inps (5), poi altri Istituti di credito, tutti sopra il 2 per cento: Banca Carige, Bnl, Monte dei Paschi, Gruppo Premafin. [3]
La cosa si presenta malissimo. Beppe Scienza, docente dell’Università di Torino ed esperto di meccanismi finanziari: «Si può ipotizzare un germe di conflitto d’interessi, possono esserci delle pressioni. La cosa, comunque, si presenta malissimo: non si può negare che quando Fazio parla di banche, parla dei propri azionisti. La Banca d’Italia deve fare vigilanza: vigila sui suoi proprietari? Certamente si tratta di una situazione almeno bizzarra». [4]
Per riformare il sistema della finanza italiana bisogna rafforzare il sistema delle incompatibilità. Le banche oggi sono azionisti di Bankitalia, azionisti della borsa e nei cda delle banche siedono spesso imprenditori indebitati con gli stessi istituti di credito di cui sono amministratori. «Questo non è sostenibile», per il ministro per le Politiche comunitarie, Rocco Buttiglione, che tuona contro le collusioni tra autorità, banche e imprese disegnando il sentiero lungo cui si svilupperà l’azione riformatrice del governo nei prossimi mesi. In arrivo anche un meccanismo di riassicurazione che tuteli i piccoli risparmiatori bancari dai crack finanziari, una maggiore turnazione dei revisori sulle spa, un’unica società di revisione per bilancio consolidato e l’obbligo per i gruppi che controllino società off shore di denunciarle, giustificandone l’esistenza. [5]
A cosa servono le società off shore? Victor Uckmar: « una strategia nata più di venti anni fa per mettersi al riparo da un regime fiscale vessatorio, un sistema con tasse fuori dal mondo. Anche grandi gruppi pubblici, come l’Eni, la stessa Iri, avevano società all’estero». Anche lo Stato nei paradisi fiscali? «No, non proprio nei paradisi fiscali ma in alcuni paesi dove il regime delle tasse era più leggero, come il Lussemburgo o l’Olanda. L’unico scopo però era quello di ridurre il peso delle imposte. Poi l’appetito vien mangiando ed è iniziata la corsa ai paradisi e si è passati all’elusione, all’evasione». [6]
Il primo grande caso fu la Montedison. Uckmar: «Venne costruita una costellazione oscura al riparo dai controlli per far passare fondi, tangenti, per abbellire i bilanci. [...] Il caso della Parmalat dimostra che non solo non è cambiato nulla. Anzi. [...] Certo le società di revisione sono andate a braccetto con la Parmalat. Non capisco. Io, nel mio piccolo, alla fine dell’anno sono sommerso di domande da parte di chi fa il mio bilancio. A Parma non si è accorto nessuno di nulla». [6]
L’uomo della strada è sconcertato dal denaro che le banche hanno potuto dare all’impresa in crisi, che presume dato alla leggera e sostanzialmente perso. Alfredo Recanatesi su ”La Stampa”: «Ogni volta si ingenera l’impressione che le grandi operazioni creditizie si realizzino senza l’acquisizione delle informazioni e delle garanzie che invece vengono inflessibilmente richieste, imposte, nelle piccole operazioni che riguardano la gente comune [...]. Sono impressioni che, in analoghe circostanze, si ingenerano dovunque, ma questo non esclude che siano approssimative e distorte da un giudizio etico che scade in un moralismo di maniera». [7]
Ogni concessione di credito implica l’assunzione di un rischio. Recanatesi: «Le banche poi riservano una quota limitata del credito da concedere alle operazioni con rischio più elevato, intendendo per tali quelle che generalmente vanno bene, ma che possono anche finire male. [...] Il fatto che l’intero sistema bancario italiano abbia quasi 50 miliardi di crediti in sofferenza dimostra che, almeno entro certi limiti, i crediti che vanno a finire male fanno parte della fisiologia dell’attività bancaria». [7]
Capitalia è esposta nel caso Parmalat per 393 milioni. Recanatesi: «Ma occorre aggiungere che questa somma equivale allo 0,5 per cento dell’intero portafoglio crediti. Così per il San Paolo, i cui 300 milioni di crediti fanno parte di un totale di 130 miliardi (lo 0,26 per cento); e ancora per Banca Intesa con una esposizione di 360 milioni su 162 miliardi (lo 0,22 per cento), e per Unicredito con 150 milioni su un totale di 116 miliardi (appena lo 0,13 per cento). Questi sono i numeri. Detti così assumono un senso ben diverso. Tanto da rendere evidente come, pur in seguito ad un inopinato dissesto così eclatante da superare la dimensione di un punto percentuale del pil nazionale, il sistema bancario si sia fatto cogliere con un rischio estremamente limitato». [7]
L’esposizione complessiva delle banche è ridotta perché, grazie all’emissione di bond, il debito è stato in parte rifilato ai clienti. Secondo Giuliano Amato, il principio di stabilità del sistema bancario «non si è posto a tutela del risparmio ma degli istituti di credito». [1]
Il partito Fazio-Geronzi ha assunto nelle trattative sulla riforma di Bankitalia e Consob la tattica dei «guerriglieri vietcong» (il paragone è di un vice-ministro economico). Minzolini su ”La Stampa”: «Non possono opporsi perché in questo momento sarebbe impopolare, ma esprimono riserve o pongono veti su questa o quella proposta per guadagnare tempo». [8]
Chi è Cesare Geronzi? Sergio Rizzo sul ”Corriere della Sera”: «Beniamino Andreatta aveva capito tutto. ”Di lui sentirete parlare”, avvertì un giorno i suoi colleghi parlamentari. Erano gli anni Settanta, tempi non sospetti. ”Il ragionier Cesare Geronzi”, come Andreatta lo chiamava, aveva quarant’anni e una posizione invidiabile in Banca d’Italia dove era entrato nel 1960. [...] Il governatore Guido Carli lo aveva spedito in Svizzera a imparare, e lui aveva imparato. Eccome. Oltre a manovrare i cambi aveva anche imparato che la Banca d’Italia poteva essere un formidabile trampolino di lancio. Prima Rinaldo Ossola se lo portò al Banco di Napoli. Poi il direttore generale della Banca d’Italia Mario Ercolani lo indirizzò alla Cassa di risparmio di Roma di Cacciafesta. Da dove è cominciata la sua scalata». [9]
La Cassa era una banca pubblica, piccola e neanche messa troppo bene. Rizzo: «Fra i soci dell’istituto c’era tutta la nobiltà papalina, ma anche politici e imprenditori legati alla politica. Un salotto forse un po’ polveroso, che aveva il suo principale punto di riferimento nel leader della dc romana, Giulio Andreotti. Ma che ben utilizzato poteva diventare un formidabile strumento di potere. E Geronzi (che allora qualcuno considerava appoggiato dai socialdemocratici) accettò di buon grado di diventare il simbolo di quel mondo andreottiano, punta di diamante di una sorprendente espansione nel mondo della finanza. Il sistema bancario era quasi tutto in mani pubbliche e l’unico modo per crescere era ovviamente comprare banche pubbliche». [9]
Il primo colpo fu l’acquisizione del Banco di Santo Spirito dall’Iri di Romano Prodi. Rizzo: «Siccome il denaro non ha odore, tutti (o quasi) i partiti si abbeveravano alla Banca di Roma. Il Psi, la Dc, i liberali e i socialdemocratici. Uno snodo centrale fu quando Geronzi intuì che Silvio Berlusconi e le sue reti tv avevano un futuro: mentre le altre banche gli voltarono le spalle, il banchiere romano intervenne a fianco del leader di Forza Italia». Ma anche il Pds, che nel ’97 era esposto con l’istituto di Geronzi per 203 miliardi di lire. [9]
L’acquisizione del Mediocredito, avvenuta con il sostegno di Fazio e il benestare del governo di Massimo D’Alema, ha consentito alla Banca di Roma di acquisire il Banco di Sicilia. Rizzo: «Prima di conquistare, dopo un durissimo scontro politico, la Bipop. Operazione che ha completato la lunga metamorfosi della Banca di Roma in Capitalia: ovvero quella della possibile preda che si è trasformata in predatore. Grazie all’appoggio sempre più esplicito (e da molti criticato) del Governatore». [9]
con l’appoggio di Fazio che Geronzi ha pilotato la privatizzazione della banca, dosando sapientemente il peso degli azionisti. Rizzo: «Ed è con l’appoggio di Fazio che Capitalia e le banche alleate hanno conquistato le Generali e scalzato da Mediobanca Vincenzo Maranghi. [...] Fazio ricordò le parole di Luigi Einaudi: ”Le difficoltà dell’arte bancaria sono eccezionali; questo è il motivo per cui abbiamo a capo delle banche italiane uomini eccezionali”. Un anno dopo sarebbe deflagrato il caso dei Cirio bond». [9]
Il ”Cesarone” della superbanca romana pareva il simbolo del ”nuovo ordine” del capitalismo italiano. Massimo Giannini su ”la Repubblica”: «Algido, autoreferenziale, e intoccabile. Quel suo studio affrescato, al quarto piano del palazzo a due passi da Piazza Venezia, era diventato la cabina di regia di tutte le più importanti operazioni di questi ultimi anni. La sua nuova creatura, Capitalia, aveva assunto l’eredità della vecchia Mediobanca governata dal mitico ”don Enrico”». [10]
Oggi Geronzi è un super-banchiere. Giannini: «Nel patto di sindacato di Capitalia ha riunito Moratti e Tronchetti, Colaninno e Ligresti, Angelucci e Merloni. vicepresidente anziano di Mediobanca, ha partecipazioni strategiche ovunque. Si è inventato una specie di ”Capitalia football club”. azionista di riferimento della Lazio. Ha in mano la Roma di Sensi. Presta soldi all’Inter di Moratti. Tiene in pegno il 99,5 per cento delle azioni del Perugia di Gaucci. Si serve della ”leva” finanziaria del Mediocredito centrale, presieduta da Franco Carraro che è anche presidente della Figc». [10]
«Ho impiegato 22 anni per assumere la funzione di direttore generale di una piccola Cassa di risparmio e ne ho impiegati altri 17 per arrivare a quello che faccio oggi»: così Geronzi nel 1999 ad Alain Elkann. [11] Francesco Manacorda su ”La Stampa”: «Una cultura dell’equilibrio esemplificata da un memorabile pranzo all’epoca del governo D’Alema, che lo vede assiso proprio tra l’allora premier e Silvio Berlusconi, quasi a racchiudere in una sola immagine l’essere - ma anche il dover essere - [...] del banchiere costretto a pattinare in continuo movimento sul lago ghiacciato della politica». [12]
L’attenzione di Geronzi verso i partiti e il mondo dell’informazione parte da lontano. Stefano Livadiotti su ”L’espresso”: «E viene istituzionalizzata alla metà degli anni ’90, quando l’allora Banca di Roma diventa (col 30 per cento delle azioni) socio fondatore della Mmp, la concessionaria di pubblicità del gruppo Stet (la potente finanziaria dell’Iri) che sarà ricordata come un esempio da manuale di gestione improvvida del denaro pubblico». [13]
La Mmp non nega un contratto a nessuno. Livadiotti: «Si va dall’’Avvenire” all’’Unità”, dall’’Osservatore Romano” al ”manifesto”, dal ”Secolo d’Italia” al ”Popolo”. E via continuando con ”Famiglia Cristiana”, ”il Corriere dello sport” e l’’Unione sarda”, senza trascurare la Walt Disney, Class Editore e i periodici del Touring club e dell’Aci. La società statale garantisce una raccolta pubblicitaria minima molto generosa rispetto alle potenzialità delle testate. Risultato: solo nel primo anno di attività colleziona perdite per 25 miliardi di vecchie lire su un giro d’affari di 125. In quello successivo il passivo (180 miliardi) si avvicina pericolosamente al fatturato (230 miliardi). Nessuno si preoccupa più di tanto: sono soldi dello Stato. Così nel 1997, quando l’allora ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi lo mette in liquidazione, l’obbrobrio Mmp ha bruciato qualcosa come 450 miliardi». [13]
L’operazione Beta. Livadiotti: «La regia è attribuita a Cesare Geronzi. E i suoi dettagli sono un segreto molto ben custodito. L’obiettivo però è chiaro: cancellare d’un colpo i debiti bancari dei Ds, che allo scorso settembre ammontavano a più di 85 milioni di euro. Il piano prevede un intervento diretto della famiglia Angelucci, un core business nel settore delle sanità e un debole per l’editoria (dopo essersi cimentati nel tentativo di salvare ”l’Unità”, oggi controllano ”Libero” e sono tra i soci del ”Riformista”). Dovrebbe essere il loro gruppo, che della Capitalia di Geronzi è azionista al 2 per cento, ad acquistare, con un assegno di 42,5 milioni di euro, il 50,1 per cento dei crediti vantati dalle banche nei confronti della Beta immobiliare del partito di Piero Fassino. In cambio acquisirebbe un pacchetto di 261 immobili il cui valore è stimato in 100 milioni di euro». A quel punto, la Cassa di Risparmio di Bologna (esposta con Beta-Ds per 35 milioni), Capitalia e Intesa (21 milioni ciascuna) e il Monte dei Paschi di Siena (3,5 milioni) accetterebbero graziosamente di cancellare il debito residuo». [13]
Geronzi da sempre persegue il successo e si tutela con alleanze. Minzolini: «Lo ha fatto con le altre banche, con i partiti politici - di destra e di sinistra - ma soprattutto ha ispirato a questo particolare stile di vita anche il rapporto con l’uomo con cui ha siglato un patto di mutua assistenza incondizionata, il Governatore di Bankitalia, Antonio Fazio. Già, Geronzi e Fazio simul stabunt, simul cadent. [8]
Non per nulla da quando la sua stella nel firmamento del potere ha cominciato ad impallidire il presidente di Capitalia commenta ogni accusa con una frase che è diventata un vero leit motiv: ”Vogliono colpire me, per colpire Fazio”. Appunto, finché il Governatore rimarrà al suo posto, Geronzi si sentirà tutelato». [8]
Il partito dei ”filo-Fazio” è composto dalle stesse persone che sono iscritte ad una virtuale associazione pro-Geronzi. Minzolini: «Un esercito che malgrado le diserzioni quotidiane conta ancora. ”Questo partito che possiamo definire ’fronda blu’ - spiega l’ex-presidente della Repubblica, Francesco Cossiga a radio Radicale - è trasversale, prende alcuni di An che oggi sono gli unici difensori di Fazio, passa per Forza Italia e ha un robusto sostegno, salvo Tabacci, nell’Udc”. Anche l’ex Capo dello Stato è convinto che, finchè Fazio sarà a Bankitalia, Geronzi non ha nulla da temere: ”Prendiamo le dichiarazioni di Tanzi sul presidente di Capitalia. Se mandiamo in galera chi ha fatto pressioni, allora il primo che deve andarci è il Governatore di Bankitalia per le pressioni che ha fatto sulla banca ’A’ perché salvasse la banca ’B’, sulla banca ’B’ perchè acquistasse la banca ’C’ e così via”». [5]
Creare il suo gigante bancario gli è costato scommesse e compromessi. Giannini: «Sempre un po’ ”border line”. Tentate convergenze con l’alta finanza lombardo-piemontese. Ma anche relazioni pericolose con il generone romano e sudista [...] C’è stata una lunga fase in cui l’Avvocato, con sabaudo distacco, diceva: ”Quell’istituto si dà un gran da fare: secondo me lo dovrebbero chiamare ’Banca di traffico centro-meridionale’...”». [10]
. [...] Come osserva Fabrizio Cicchitto, uno dei consiglieri più ascoltati del Cavaliere, ”Fazio e Geronzi hanno un rapporto simbiotico, sono quasi le due facce di una sola persona”