Il Giorno 30/05/1962 mercoledì, pag.11 Alberto Arbasino, 30 maggio 1962
L’antologia dell’orrore. Il Giorno Mercoledì 30 maggio 1962. Le mura e gli archi. Certo, lo si era sempre saputo che durante il fascismo non solo gli eterni giornalisti senza coscienza e non solo i professori d’università più bassamente carrieristi s’erano sbilanciati in malo modo leccare le parti meno nobili dello orribile defunto, ma quasi tutti i letterati allora e oggi di più chiara fama non si erano negati nessun eccesso: magnificando sconciamente i ”fondamenti morali” di Mussolini, paragondandolo a Michelangelo e a Pascal, dedicando odi ”all’Uomo che si affacciò per la prima volta nel 1914 al mio cuore”, ”esaltandone la figura, analizzando criticamente il suo stile per mostrarne la forza”, proclamando che ”la sostanza dell’uomo, la sua politica, la sua così detta tattica sono sempre poesia”, e proclamando se stessi militi MVSN, sansepolcristi, collaboratori antemarcia di Nicola Bonservizi, inviati speciali al seguito del duce, misticifascisti, autarchici, razzisti, fedelissimi, devotissimi, ubbidientissimi, nemici di ”una libertà individuale che è in realtà un avanzo di privilegio”
L’antologia dell’orrore. Il Giorno Mercoledì 30 maggio 1962. Le mura e gli archi. Certo, lo si era sempre saputo che durante il fascismo non solo gli eterni giornalisti senza coscienza e non solo i professori d’università più bassamente carrieristi s’erano sbilanciati in malo modo leccare le parti meno nobili dello orribile defunto, ma quasi tutti i letterati allora e oggi di più chiara fama non si erano negati nessun eccesso: magnificando sconciamente i ”fondamenti morali” di Mussolini, paragondandolo a Michelangelo e a Pascal, dedicando odi ”all’Uomo che si affacciò per la prima volta nel 1914 al mio cuore”, ”esaltandone la figura, analizzando criticamente il suo stile per mostrarne la forza”, proclamando che ”la sostanza dell’uomo, la sua politica, la sua così detta tattica sono sempre poesia”, e proclamando se stessi militi MVSN, sansepolcristi, collaboratori antemarcia di Nicola Bonservizi, inviati speciali al seguito del duce, misticifascisti, autarchici, razzisti, fedelissimi, devotissimi, ubbidientissimi, nemici di ”una libertà individuale che è in realtà un avanzo di privilegio”. ’La grandezza politica di Mussolini e la ragione precipua dei suoi trionfi sugli uomini politici è che non ha nulla dell’uomo politico come lo si pensa dai più, e che oggi è sceso, grazie a lui, nel numero delle persone vili. Mussolini non vive nel pettegolezzo dei tattici, ma tra grandi spazi e silenzi, e piega la politica ad un ardente e incontaminato concetto”. Questo, è soltanto uno dei numerosi brani impressionanti che si trovano a ogni pagina sfogliando sconvolti dalla ripugnanza quel sinistro repertorio che è ”Il lungo viaggio attraverso il fascismo” di Ruggero Zangrandi, la più autentica ”antologia dell’orrore” dei nostri tempi; ed è piuttosto difficile evitare che alla fine la prima reazione sia quella dell’’allora, cambiamo paese, cambiamo paese”, se solo si potesse pensare per un attimo che il nostro Paese sia tutto così. Frenesie. Certo, non si è nati ieri; e non lo si era mai dimenticato, su che annate di giornali si sarebbero potute andare a pescare, all’occorrenza, i più sporchi giudizi razzisti, le esaltazioni più abbiette del regime, i più insensati piani di guerra, nonchè le varie corrispondenze dalla Spagna di Franco (con le celebri frasi tipo ”oggi avendo visto una dozzina di miliziani rossi fucilati, ho fatto colazione con più appetito”), da parte di tipi che con la medesima sicumera hanno attualmente la pretesa di dar giudizi in cattedra, distribuire attestati in tutto, tutelare la pubblica moralità, illustrarci il ”bello” e il ”giusto”, erudirci sulla incomunicabilità, spiegarci l’alienazione, commentare il centro-sinistra, approvando o disapprovando la cultura di massa il gaullismo, la bomba atomica, Pasolini, Volponi, Volpini, Antonioni, la fenomenologia, il neocapitalismo, Citti, Vitti, Alberto Moravia e Rosanna Schiaffino. Non è neanche una novità che il letterato italiano tene a fare appena può il Metastasio di qualcuno, dell’Imperatrice Maria Teresa o della Regina Margherita, del Consiglio dei Dieci o dell’Ovra o di De Gasperi o del P.C. o della Confindustria o di Elisa Baciocchi Principessa di Piombino. Non per nulla, fra i vecchi arnesi lasciati sulle spalle dal fascismo, i settantenni che hanno ancora pochi anni da vivere si sono abbarbicati subito al lato destro della Democrazia cristiana per spremere qualche favore concreto al più presto, mentre i cinquantenni puntano generalmente sul centro-sinistra perchè fanno un calcolo a lunga portata. E fra le tricoteuses letterarie che ci capitano sotto battendo i più loschi fescennini della pseudo-cultura romana, ci è stato ripetuto fin troppo quali fossero le spie e quali invece le affittacamere del regime, e quali invece si accontentino del soprannome ”La contraerea” in memoria d’antiche stagioni di mondanità bellica perchè ogni volta che combinavano con un gerarca, poveretto lui veniva abbattuto in aeroplano il giorno dopo. Ma certo fa senso, da morire, ritrovare nel libro di Zangrandi, vivo e intatto come se le frasi indecenti fossero state pronunciate ieri, l’intero campionario delle occasioni perdute dai nostri letterati più furbi per non coprirsi di vergogna negli anni fascisti: gli eccessi di zelo e le infamie non richieste, gli scatti isterici e le viltà servili, le frenesie arrivistiche e le pugnalate nella schiena... E’ ovvio che un esame di coscienza come questo, moralmente e storicamente sarebbe stato giusto compierlo in pubblico a non grande distanza dalla fine della guerra. Ci sono state invece le elezioni del ’48, e la dozzina d’anni che ben sappiamo, con le coalizioni e tutto. E in Italia credo che solo Brancati abbia accennato a fare un’autocritica onesta paragonabile alle molte autobiografie ideologiche dei letterati collaborazionisti francesi che a battaglia perduta hanno cercato di spiegare a se stessi e agli altri le ragioni di anni e anni di errori (e la ragione mi pare chiara: i furbi e gli opportunisti non hanno nessuna autobiografia ideologica da fare, a loro basta il libretto dei conti). Ma è solo uno dei tanti segni propizi di questo momento storico così stimolante che stiamo attraversando ora, il bisogno di veder chiaro nel nostro brutto passato che le generazioni ”fresche” stanno provando: come testimonia l’interesse vivissimo suscitato da questo libro di Zangrandi e da quello precedente di De Felice sulle responsabilità nella lotta razziale, come viene confermato dal successo delle lezioni di storia del fascismo e dei film sui vent’anni perduti, e dall’ironia che ”comincia appena ora” a screditare i vecchi arnesi che credevano d’averla fatta franca, e pretendono ancora di venirci a fare la morale: sempre fiutando dove tira il vento, sempre mettendosi dalla parte della maggioranza (e con l’eterna aggravante di abbracciare i giudizi della maggioranza sempre con un leggero ritardo, e sempre dove si è sicuri che la maggioranza ha torto). Predicatori. Però stavolta si trovano di fronte non più un pubblico di balilla, ma della gente assolutamente non disposta a prenderle per buone, le loro solfe, pronta a reagire a pernacchie sulla faccia come si fa alle prediche dei reazionari travestiti da progressisti e davanti ai cinici che non credono a niente e che pretendono di far sermoni cattolici ammonendoci ancora a comportarci bene. Dal momento che non hanno saputo meritarsi un minimo di rispetto, è logico che i loro giudizi non vengano accettati, su niente; e quando pretendono di dare delle lezioni, la risposta più giusta è in quelle pittoresche invettive che non mancano né nel dialetto milanese né in quello romano per mandare al diavolo i seccatori. Si capisce che ha ragione Forcella quando dice che il vero significato e il valore del libro di Zangrandi ”dovrebbe essere piuttosto quello di ricordare, in una epoca e in una società che tende a dimenticarlo, che la cultura non serve a nulla se non riesce a trasformare le coscienze e a diventare costume, modello di vita. Dalle squallide vicende degli intellettuali asserviti al fascismo possiamo raccogliere soltanto una lezione di moralità, un invito all’autocritica”. Giusto. Nessuno si sogna di riaprire i processi del ’45, per quanto il ’45 ci sembri appena ieri. Sarebbe come mettersi sullo stesso piano dei fascisti. Ma dimenticare, proprio no, anche se fatalmente la ”questione morale” tenderà oggi a spostarsi sul piano dei rapporti sociali, dei rispetti umani, addirittura della mondanità. Mi diceva per esempio, fin da Formentor, un bravissimo uomo che col fascismo ha sempre avuto le mani nette: ”Mi fa un tale piacere sentire esaltare l’antifascismo e la Resistenza da gente che si era compromessa con Starace finchè ha potuto, che mi basta così e non voglio neanche domandare se è in malafede adesso, o se lo era allora, o se lo è stata sempre. Non sarebbe peggio se continuassero a fare i loro ”saluti al duce” anche oggi?”. E nella stessa occasione un’amica bonaria mi ammoniva a riflettere sulle sofferenze di quei salotti facoltosi che erano la suprema aspirazione loro e delle loro famiglie. A parte il fatto che per quel che riguarda il ”pagare di persona” ci sono altri che hanno rischiato anche di più, sul punto della buona fede troverei da osservare questo: o questi predicatori da strapazzo erano in malafede ”allora”, e ancora adesso, e allora sono da prendere a calci nel sedere; o sono stati in buona fede talmente spesso, e con coincidenze sempre così svantaggiose (contando poi tutti i successivi ”aggiustamenti” degli ultimi quindici anni), che sono ugualmente da calci nel sedere. Il coraggio, la fibra morale, se Don Abbondio non li ha non se li riesce a dare, è noto; ma almeno non abbia la faccia di tolla da travestirsi da Cardinal Federigo. Come si fa ad appoggiare una cattedra di moralismo sopra la mancanza di principii e la incostanza degli stati d’animo? L’emotività (chiamiamola così) è una dote semmai più adatta alle opere creative, alle invenzioni fantasiose; e sarebbero poi l’unico modo di salvare – se non l’anima – almeno un po’ di faccia, dimostrando che moralmente squalificati non si è del tutto falliti anche in campo artistico. Consiglio. Se invece ci fosse stata di mezzo tutta una crisi, con abbracciamenti successivi di tante convinzioni fra loro incompatibili, e tanti successivi pentimenti di fronte allo scandalo, allora tante scuse: ma i lettori non erano stati informati, e d’altra parte è una norma di correttezza elementare il mettere in ordine la casa prima d’avventarsi in una carriera di pubblico interesse come quella del direttore di coscienze. Perciò, a conclusione del penoso argomento, e anche per rispondere ai vari ”lettori nell’imbarazzo” che hanno scritto da tutta Italia domandando che atteggiamento prendere di fronte agli scrittori svergognati come ex-missoliniani, suggerirei un atteggiamento provvisorio basato sulla tolleranza ma non sull’ingenuità; rispettarli come geometri, o come marchesi, o come uomini di casa, e rider loro in faccia come scrittori seri e come moralisti cattedratici. E’ un consiglio meno balordo di quel che sembra: infatti, giudizi come quelli abbondantemente citati dallo Zangrandi sono già brutte bruttissime cose se pronunciati da un artigiano male informato o da un lunatico di campagna. Diventano turpi e colpevoli in bocca a un letterato che si ritiene responsabile, e per di più con la pretesa di illuminare il prossimo. E se ci si contrapponesse l’argomento del ”da che pulpito”, la risposta è fra le più modeste, e vale strettamente per i miei coetanei. Il ”pulpito” è un accidente meramente anagrafico, di cui nessuno ha meriti o colpe: il fatto d’esser nati quando il gioco era fatto. Da un lato questo ci mette nelle condizioni, avendo avuto quindici anni alla fine della guerra, di giudicare le mani sporche altrui mostrando le nostre manine nette; dall’altro ci rasserena la previsione che secondo le normali leggi biologiche la maggior parte del nostro avvenire si svolgerà in una Italia dove gli scrittori ex-mussoliniani si troveranno sempre meno in società e sempre di più nei dizionari. Alberto Arbasino