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 2005  novembre 28 Lunedì calendario

Sul biliardo

All’Académie de billard di Rue de Clichy, a Parigi, uomini-fisarmonica s’allungano e s’aggricciano sul panno verde per sfidare la geometria, le biglie e se stessi, Ventiquattro, gennaio 2003 Dipende. Se chiedete a un giocatore di biliardo quanto dura una partita, se è un vero giocatore vi risponderà così. Dipende. Perché, come tutti i veri giochi, il biliardo non è un gioco, ma un universo. E dunque, dipende. Dipende dal tipo di tavolo, bisogna vedere se stiamo parlando di sponda francese o di stecca italiana, o della goriziana, o del monumentale snooker inglese, o del piccolo pool americano, che secondo lo sprezzante giudizio dello scrittore Mordecai Richler «sta allo snooker come la dama agli scacchi». E via elencando. Dipende dalla specialità in cui ci si misura, dalla partita che si sceglie, dal punteggio che si stabilisce. Si può arrivare a cinquanta, a cento, a centocinquanta, oppure all’alba del giorno dopo. E poi non è mica finita. Dipende dal luogo, dalla stagione, dal momento. Dal freddo che fa fuori e dall’umore che fa dentro. Come tutti i veri giochi, il biliardo è un universo complesso e misterioso. Puoi prevedere quando ci entri, ma non dove ti porterà. Prendiamo per esempio Parigi, che come esempio non è niente male. Quasi all’angolo tra rue e place de Clichy, ai piedi della butte di Montmartre, ci sono due grandi porte vetrate. Se camminate a passo veloce, prima di affrontare le stradicciole che si arrampicano su per la collina più romantica della città, o di imboccare i famosi boulevard del peccato che sfociano in place Pigalle, quelle vetrate rischiate di non vederle nemmeno. Ma se le vedete, e vi incuriosiscono le sagome lente che si intuiscono al di là dei riflessi, se decidete di varcare la porta sormontata da due cariatidi che sorreggono un universo in forma di biglia, allora è fatta. Siete carambolati in un piccolo Paese delle meraviglie. Benvenuti all’Académie de billard di Clichy-Montmartre, dove il resto del mondo aspetta fuori. Benvenuti nell’enorme sala tutta intonaci color crema, stucchi liberty ed enormi specchiere che moltiplicano le amate prospettive. Benvenuti in un’intimità quasi religiosa. In un silenzio pieno come una palla di biliardo, interrotto solo dagli schiocchi sommessi delle biglie che si scontrano. Un piccolo bar, banco di zinco e alti sedili di legno, ad accogliere i visitatori. Poi nient’altro che una parata di tavoli in ardesia ricoperti di panno verde vegliati dai giocatori e dai loro fedeli bicchieri. Tutti i giorni, dalle dieci del mattino alle sei dell’indomani, i 16 biliardi al numero civico 84 di Rue de Clichy accolgono studenti e pensionati, giocatori e perdigiorno di professione, istituzioni locali e curiosi in visita alla più famosa - e fumosa - sala di Parigi. Qui ci si sfida a due, a tre, a quattro, oppure si passa al torneo del giorno, organizzato su due piedi. Si incrociano le stecche per la prima volta, o si continuano a saldare conti aperti trent’anni fa. E c’è anche chi preferisce sfidare solo se stesso. Seri e meditabondi, «lucidano» la stecca con il gesso, ponderano lo stato delle cose sul tappeto, calcolano le geometrie. Poi passano finalmente all’esecuzione del colpo, e allora da quelle canne possono nascere ceffoni violenti come carezze sensuali. Allungati, ingobbiti, raggricciati, arronzati, gli uomini-fisarmonica dell’Académie de billard si dispongono alle posizioni più impossibili, governati dalla certezza che non c’è sentimento che non possa stare in equilibrio sulla punta di una stecca. E che nella vita ogni mossa consapevole non è altro che un gioco di sponde. In questa che, alla luce delle lampade rettangolari sospese sopra i tavoli, potrebbe essere qualsiasi ora del giorno, il direttore dell’Académie Luc Richard ci guida dove sono all’opera i giocatori più forti. A un tavolo ingombro di biglie colorate il campione di biliardo americano David Bare tiene lezione a un gruppo di ragazzini inviati qui dalle scuole medie. Più avanti, nella zona riservata ai biliardi francesi, l’attrazione è André, uno dei pochi maestri superstiti di libre, la specialità tradizionale del biliardo francese. Con implacabile lentezza di movimenti, André insegue il difficilissimo incontro di due palle bianche e una rossa, che deve avvenire in libertà, ossia senza mai toccare le sponde. A settantasette anni non ha più rivali, spiega monsieur Richard, perché i coetanei si sono quasi tutti ritirati, e perché alla libre le nuove leve non giocano più. Ma André continua a venire lo stesso, ha il suo biliardo riservato, e vederlo è sempre un piacere, come confermano gli impercettibili cenni di compiacimento degli anziani spettatori appoggiati alla balaustra in legno. «Questo luogo è stato costruito nel 1901, e per più di quarant’anni è stato la sede della Brasserie Duval», prosegue monsieur Richard. «Per l’esattezza si trattava di una bouillon. Un genere di vecchie brasserie specializzate in zuppe gratinate e piccole entrée che oggi non esistono quasi più, proprio come la maggior parte delle vecchie accademie di biliardo. Noi invece abbiamo resistito alla crisi degli ultimi anni. Anzi, abbiamo portato il numero dei tavoli da 12 a 16». Orgoglioso della sua Académie come può esserlo solo un francese della provincia che ha fatto fortuna a Parigi, Richard passa a rendere omaggio al suocero Jean Bauchet, a sua volta provinciale di Compiègne giunto fin qui in cerca di fortuna: «Arrivò nel 1931, a 24 anni. E capì subito che i teatri di Pigalle erano il posto giusto. Era un tipo molto atletico e si inventò un numero di grande successo. Circondato dalle ballerine, saliva sopra una colonna alta tre metri, e da quel piedistallo eseguiva un triplo salto mortale». A forza di salti mortali, Jean Bauchet sarebbe finito a creare riviste persino per il Moulin Rouge, dal ’52 al ’59. Ma intanto, già nel 1947, aveva fondato l’Accademia di Clichy con annesso Cercle des jeux. «La legge francese consente il gioco d’azzardo dappertutto, meno che nella zona di Parigi. Ma con un’eccezione, che è proprio quella dei circoli annessi le sale di biliardo», racconta ammiccando monsieur Richard. Intanto ci fa strada oltre l’ultima specchiera e l’ultimo biliardo, dove André continua ad allenarsi alla libre. E oltre un minuscolo bureau di cui non ci eravamo accorti, che sa quasi di passaggio segreto. Ed eccoci in quelle che una volta erano le cucine della Brasserie Duval, ma che l’inventiva di Jean Bauchet trasformò in un piccolo anfiteatro tappezzato di silenzio, fumo, adrenalina e panni verdi. Insomma, l’atmosfera inconfondibile di tutti i casinò, anche se questo è un casinò molto speciale non solo per le dimensioni raccolte, ma soprattutto per la presenza della Multicolore che troneggia al centro dell’anfiteatro. Si chiama così, Multicolore, il pezzo raro del Cercle des jeux di rue de Clichy, e la cerchereste invano nei casinò del resto del mondo. «Un gioco tutto parigino, che i parigini si inventarono per aggirare il divieto della roulette». Ed è infatti una buffa via di mezzo tra la roulette e il biliardo. Il croupier colpisce con la stecca una biglia che, dopo aver rimbalzato sulle sponde del tavolo, carambola nell’orbita di un cilindro diviso in 24 conche d’acciaio di quattro colori diversi. Tutto attorno, seduti ai loro posti numerati con schienali in finta pelle, i giocatori aspettano il responso della Multicolore trattenendo il respiro, con gli occhi incollati alla biglia che, tra mille tentennamenti, passa dal bianco al rosso, dal giallo al verde, dal verde al bianco... Finché, come sempre, rien ne va plus. «Il Circolo e l’Accademia hanno pubblici nettamente separati», dice monsieur Richard. «Qui vengono solo gli habitué della Multicolore, e al massimo qualche moglie che accompagna il marito nella sala accanto. Poi, può succedere che qualcuno vinca parecchio, e passi di là per sfidare un amico al biliardo, pensando che sia il suo giorno fortunato... I giocatori d’azzardo, si sa, sono molto superstiziosi. Il vero giocatore di biliardo, invece, è un freddo. Un monogamo. Non pensa che ai colpi e alle traiettorie. un tipo che crede troppo nel calcolo, e nella sua capacità di controllarlo, per rivolgersi alla fortuna». Salutiamo la dépendance dell’azzardo puro e torniamo al tempio del rischio calcolato, dove monsieur Richard è felice di presentarci David Bare, che ha finito la sua lezione. Pallido, aquilino, nato a Parigi 34 anni fa, Bare non è soltanto uno dei giocatori di biliardo americano più forti al mondo. anche il campione di un’evoluzione comune a tutto il mondo, l’irresistibile ascesa della stecca americana, a cui perfino lo sciovinismo francese ha dovuto inchinarsi. «Quindici anni fa, quando ho cominciato a frequentare questa sala, qui c’erano solo due biliardi americani. Ora sono diventati otto, contro i cinque francesi. Il boom dei biliardo americano ha portato molti giovani e perfino un certo numero di ragazze, cosa che prima era impensabile. Così si sono risollevate le sorti di un gioco che sembrava destinato al declino». Anche David aveva cominciato con il biliardo francese, ma poi si è convertito felicemente, e ora è pronto a giurare sulla supremazia del pool americano, dove le biglie sono molte di più, e dove ci sono le buche, nelle quali le biglie devono entrare secondo un ordine prestabilito: «Questo significa che la geometria pura non basta, bisogna avere anche fantasia, e una visione strategica. Ogni colpo fa storia a sé, un po’ come negli scacchi». Pronto a darci una dimostrazione pratica, il campione si allontana per andare a prendere biglie e stecca. Adesso che l’ora si è inoltrata, e la folla è aumentata, la differenza tra le due tribù balza davvero all’occhio. Verso il fondo del salone, i canuti e compassati specialisti dei tavoli francesi. Il solitario André che continua a provare i suoi colpi davanti alla specchiera. Al tavolo di fianco due vecchietti sono impegnati in una partita alle trois bandes, dove la palla deve rimbalzare tre volte sulle sponde prima di toccare quella dell’avversario. All’estremo opposto, dove i boccali di birra sostituiscono i bicchieri di pastis, i tavoli americani ospitano gruppi molto più numerosi, giovani, misti e colorati. C’è perfino una comitiva di californiani doc, che sono stati indirizzati qui dal loro hotel. Barbe fluenti, codini, pantaloni in pelle e cinturoni borchiati, tutto in puro stile Grande Lebowski. « vero, il futuro è del biliardo americano. La libre, le trois bandes e tutte le vecchie specialità del biliardo francese sono in via di estinzione», ci sussurra all’orecchio un cameriere. «Una volta tra i giocatori di biliardo c’erano personaggi incredibili, in posti come questi si veniva anche per stare tranquilli, se magari si era ricercati dalla polizia... Ora è diverso, un po’ come tutto a Pigalle. Anche le signorine, sa, una volta erano di un’altra pasta, io le conoscevo una per una. Adesso sono più belle, ma io non mi diverto più ad andare con loro...». Fino a dieci anni fa, prosegue il cameriere, le due tribù del biliardo convivevano a fatica. La vecchia guardia francese snobbava apertamente gli ”americani”, e quasi li ignorava. Finché un certo Bill, un campione di San Francisco stabilitosi per un periodo a Parigi, decise di sfidare André sul suo stesso terreno e sulla sua stessa specialità. La libre. «Fu una serata memorabile, un duello all’ultimo sangue a cui assistette tutta l’Académie con il fiato sospeso...». E naturalmente vinse Bill... «No, vinse André, anche se per un soffio. Ma il muro si era rotto: gli ”americani” avevano affermato la loro bravura e non era più possibile ignorarli. Qualcuno dice perfino che Bill abbia sbagliato volutamente l’ultimo colpo, quello decisivo. Comunque André non volle mai concedere la rivincita. Anzi, da quella volta ha quasi smesso di gareggiare. Preferisce allenarsi da solo». Oltre i vetri della porta d’ingresso si è fatto buio. Ma non abbastanza perché non vi si riflettano, almeno nell’immaginazione, le mille luci di Montmartre. Le cupole bianco-meringa della Basilica del Sacré-Coeur, le pale rosso fuoco del Moulin Rouge, ma anche quelle dei Deux Moulins, il caffè del Favoloso mondo di Amélie che balugina a duecento metri da qui, all’angolo di uno dei tornanti di rue Lepic. Pallido e serio, David Bare si stira e si allunga più di quanto già non sia, diventando un prolungamento della lunga stecca d’acero. Colpita al cuore, la biglia bianca schizza via. Con una botta secca il pacchetto triangolare delle altre quindici si spacca, e ognuna parte verso il suo destino, ovvero verso la sua buca. Pochi minuti dopo anch’io sbuco all’aperto. Da non credere, ma Parigi è ancora lì. Jean de Florette