Varie, 26 ottobre 2005
Tags : Walter Pedullà
PEDULLÀ Walter Siderno (Reggio Calabria) 17 gennaio 1930. Critico letterario • «[...] ”socialista di sinistra” [
PEDULLÀ Walter Siderno (Reggio Calabria) 17 gennaio 1930. Critico letterario • «[...] ”socialista di sinistra” [...] ha sorvegliato la cultura di mezzo secolo, non solo come critico militante, ma anche come insegnante universitario, animatore di riviste, direttore di collane editoriali e uomo dei massmedia (è stato presidente della Rai nel ”92-’93). La notte è stata lunga e forse non ne siamo mai stati fuori, ma secondo Pedullà un punto di svolta c’è: ”Il ”56 è stato il momento del massimo fallimento dell’ideologia: per dieci anni, dopo la guerra, la politica aveva penalizzato la cultura, che era succube delle ideologie. In quel decennio c’è stata una liquidazione frettolosa delle esperienze importanti del primo Novecento”. Il neorealismo era diventato verbo e non ammetteva trasgressioni? ”L’egemonia culturale, che era egemonia ideologica di una letteratura impegnata nel realismo, si presentava come rifiuto, per esempio, della tradizione dell’avanguardia. Ciò che era fuori da quel tipo di realismo apologetico nei confronti del mondo contadino o della Resistenza, era inaccettabile. Persino Fenoglio, lo scrittore che meglio di tutti raccontò l’esperienza resistenziale, venne stroncato da un quotidiano di estrema sinistra per avere descritto come un’armata Brancaleone i partigiani che occuparono Alba. Poi, il punto di massima crisi del realismo arriva con Pratolini e tutto si rompe [...] L’anno ”56, con i fatti d’Ungheria, è l’anno di svolta: il Dio è fallito, il comunismo come religione del dopoguerra riceve un duro colpo e c’è una conversione dall’epica della realtà, per cui bastava nominare le cose, a una parola finalmente libera. Non per niente, il periodo dal ”56 al ”68 è il più vivace periodo della nostra letteratura”. La parola ”vagherà d’ora in poi libera, scatenata e priva di senso, alla ricerca di qualcosa che sfuggirà sempre alla presa”, scrive Pedullà in un suo repertorio di narrativa del secondo Novecento raccontata ai licei. E con il mutato ”senso della storia”, tornano autori che sembravano naufragati: Bontempelli, Palazzeschi, Savinio, Gadda, Soldati, Landolfi, Campanile, eccetera. Ma non solo. Insomma, il rapporto politica-letteratura, secondo Pedullà, si capovolge. Negli ”anni d’oro” è la letteratura, o meglio la cultura, a trascinare la vita politica e sociale. ”E non solo perché si parla di psicoanalisi, di sociologia e di antropologia, ma anche perché le ricerche dell’avanguardia liberano la fantasia e rinnovano il linguaggio politico. Si inaugura un decennio indimenticabile: l’avanguardia diventerà di massa, un fenomeno diffuso a tutti i livelli. Ci sarà un’invasione dei linguaggi minoritari degli intellettuali”. Pedullà ricorda la lunga esperienza di recensore per l’’Avanti”, il quotidiano del Psi: ”Era la sede più avanzata culturalmente: si parlava delle ricerche artistiche d’avanguardia, con Argan, Bonito Oliva, Fagiolo, per il cinema c’era Micciché, per la letteratura con me c’era Pagliarani. Era un giornale di straordinaria vitalità, un giornale fatto da artigiani che sembravano un partito di artisti, un partito libero, anche se magari un po’ confusionario, che diceva cose che l’Unità non poteva dire. In realtà le spinte propulsive per la sinistra sono partite da lì, non certo dai moralisti del Pci: pensi solo alla mobilitazione attorno ai referendum radicali, alla riforma della Rai, allo statuto dei lavoratori. Lo sperimentalismo culturale che portavamo innanzi era parallelo allo sperimentalismo politico: il problema era recuperare per la sinistra quegli spazi che prima erano proibiti o rimossi”. Così, in quegli anni emergono gli alfieri dell’antirealismo. ”Nel formalismo c’è realtà? C’è realismo nell’avanguardia? Chiedetelo a Pagliarani, il maggior poeta della neoavanguardia, autore de La ragazza Carla, splendido racconto in versi, dove protagonista è la città del neocapitalismo”. Pagliarani, forse, il poeta che meglio di tutti, secondo Pedullà, incarna l’impegno in letteratura: sperimentazione letteraria e critica della società sono la stessa cosa. Ma i dieci nomi più significativi del ”decennio d’oro” sono subito detti: Pizzuto, Pasolini, Volponi, D’Arrigo (’pur essendo meridionale, ho capito il Sud leggendo Horcynus Orca”), Tomasi di Lampedusa, Malerba, Manganelli, Sciascia, Meneghello, Arbasino (che ”contro il moralismo di sinistra teorizzava la legittimità del piacere non come spreco ma come ricchezza, il piacere sembra vitalismo e invece è intelligenza della contemporaneità”). Senza dimenticare: Sanguineti, Amelia Rosselli, Zanzotto. ”Anche Calvino aveva un interesse per il neosperimentalismo, pur senza aderire, anche per lui sperimentare in letteratura era un modo per trascinare la società. Il grande dibattito su autonomia e eteronomia dell’arte si stava orientando verso la prima: l’arte doveva lavorare autonomamente rispetto alla società, per avere dopo una ricaduta sul mondo. Era questo l’impegno, credere nella priorità del linguaggio, fino a svuotare di significato ogni discorso”. Qui entra il vero e proprio ”pallino” del critico Pedullà: il comico come strumento fondamentale per liquidare i resti della realtà e della cultura del passato. ”Meglio, un modo per sterminare i luoghi comuni della destra ma anche quelli della sinistra che esaltava se stessa. Il ritorno al comico era un’operazione di contestazione radicale rispetto al neorealismo: fare arte molto seria con materiali poco seri, come diceva Ortega y Gasset”. Non solo il Perelà di Palazzeschi, non solo Campanile e Zavattini, ma i mentecatti di Malerba, gli stupidi di Frassineti, cui seguiranno gli imbecilli di Celati e gli idioti di Cavazzoni. ”Lo sguardo non era più rivolto ai contenuti ma al linguaggio e questo atteggiamento, come insegna Benjamin, ha una valenza politica di estrema novità, il linguaggio può avere una funzione di demolizione: così è cambiato il mondo e quando si è tornati a parlare di contenuti, con la contestazione che ha travolto anche la neoavanguardia, se ne parlava in termini diversi, non certo in termini di restaurazione ma con una mentalità del tutto rinnovata”. Insomma, è dai lontani anni 60 che ci viene l’autorizzazione a usare tutti i materiali e le storie: ”Odio la scrittura ragionieristica”, dice Pedullà. E oggi, che cosa rimane di quell’impegno «sperimentale»? ”Il fenomeno storico si è ovviamente concluso, a parte qualche nostalgico. Ma è rimasto un deposito di esperienze di cui non ci si può liberare e che non si può sostituire, anche se qualcuno con accanimento vorrebbe liquidare tutto. Ho passato una buona parte della vita a sentir parlare di fine del romanzo, della letteratura, della storia. Non ci ho mai creduto. Tanto meno oggi. Per esempio, su una linea di ricerca non più d’avanguardia ma di innovazione originale, citerei Michele Mari. La sua raccolta di racconti Tu sanguinosa infanzia è uno dei libri migliori degli ultimi 15 anni, un libro spericolato e molto coraggioso”. Spartiacque di un’epoca, ad aprire gli anni 80, c’è un altro romanzo che Pedullà considera un caposaldo della nostra letteratura, dove si sente ”il canto del cigno” del decennio precedente. Fratelli di Carmelo Samonà, un romanzo sulla malattia mentale, ma anche storia di ”un assiduo tentativo ci comunicazione tra due linguaggi”, quello della normalità e quello della pazzia, ”destinati a restare estranei ma che non possono rinunciare a rincorrersi”. Si chiude così l’epoca del verbo antipsichiatrico. Che sguardo ”impegnato” in un libro che sembra privatissimo: ”Un romanzo di forte testimonianza umana, ci dice che la schizofrenia è al di là, e che il tempo dell’ottimismo ha perso definitivamente. Un libro incontrato nella precarietà e diventato perenne. In fondo che cosa si chiede alla letteratura se non questo?» (Paolo Di Stefano, ”Corriere della Sera” 26/10/2005).