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 2005  agosto 23 Martedì calendario

MELEGA Sibilla Merano 1947 • «[...] ultima moglie di Giangiacomo Feltrinelli, l’editore rivoluzionario morto dilaniato da una bomba mentre tentava di far saltare un traliccio [

MELEGA Sibilla Merano 1947 • «[...] ultima moglie di Giangiacomo Feltrinelli, l’editore rivoluzionario morto dilaniato da una bomba mentre tentava di far saltare un traliccio [...] Mai un’intervista, in tanti anni. Solo silenzio, e indignazione, per i ”maltrattamenti e le aggressioni”, dice, da parte della stampa italiana. Camilla Cederna, dice, scrisse addirittura che lei andava a passeggio in Costa Smeralda con un’aragosta al guinzaglio. [...] era una sorta di Brigitte Bardot dell’ultrasinistra, una magnifica ragazza confusamente immischiata nella vita romantica, particolare e contraddittoria, di Feltrinelli, segnata da una ricchezza illimitata, dall’attività illuminata di una casa editrice prestigiosa, da iniziative rivoluzionarie e culturali, da ambizioni virtuose e progetti visionari. [...] una donna bella e fascinosa, [...] il memorabile seno [...] portentoso, e uno sguardo che cambia luce di continuo, a volte malinconico, a volte allegro, allusivo. [...] ”Ero offesa, ferita. Descritta come un diavolo del malaugurio, che aveva spinto Giangiacomo alla rivoluzione... e invece avevo fatto il possibile per fermarlo! [...] Sono tedesca, nata per caso a Merano. Padre italiano, madre tedesca. Merano: città bilingue, difficoltà di ambientamento. Gli italiani chiamavano ’crucchi’ i tedeschi e i tedeschi chiamavano ’walsch’ (dispregiativamente, ’zingari,sbandati...’) gli italiani. Poi andai a Milano e lì incontrai Giangiacomo. [...] In una discoteca, a Santa Tecla. Io uscivo con Riccardo Mondadori. Lui travolgente, ci invitò a una spaghettata notturna a casa sua. [...] Il mio papà non voleva libri in casa, diceva che erano inutili. Così li prendevo in prestito, a caso: un bel libro era edito da Feltrinelli, c’era la sua foto. Mamma mia, pensai, vorrei incontrare un giorno un personaggio tanto interessante... [...] Glielo dissi e lui si mise a ridere. Successe tutto velocemente, fece il vuoto intorno a me. Riccardo Mondadori, poverino, neanche capì ciò che succedeva. Mi sentii travolta dalla sua energia, un uragano. [...] Simpatico, estroverso. Parlava, rideva, raccontava, si confidava... Pieno di slanci, di idee. Un ragazzo di una grandissima famiglia, incurante dei miasmi borghesi. Nella mia immaginazione, ’l’uomo nuovo’, un Che Guevara. [...] Aveva 21 anni più di me. E per me era anche il padre che avevo sognato, un uomo che mi insegnasse, guidasse, con la suggestione delle sue esperienze. [...] Mi ha lasciato un’impronta indelebile. Ancora oggi, se succede qualcosa d’importante, mi chiedo cosa direbbe e farebbe Giangiacomo, se fosse in vita. [...] Mi lasciava spazio, mi lasciava fare da sola, per vedere come me la cavavo. Ricordo un episodio. Eravamo in barca a vela nei mari del nord, sbattemmo contro una roccia, si aprì una piccola falla. Tuffati, mi disse, e va’ a vedere cosa succede... C’erano giornalisti con noi, avvertivo il suo piacere nell’esibirmi, come a dire: guardate questa com’è tosta. [...] Gli piaceva che fossi l’umile figlia di un operaio socialista. E io ero sedotta dal suo carisma. Mi trattava con ineguagliabile tenerezza. Mi chiamava ’Sipsi’... [...] Tutti lo chiamavano Giangi, in famiglia, e a me sembrava sciocco, frivolo. Gli dava fastidio. Quando era lontano, mi scriveva di continuo lettere, cartoline...Al mattino lasciava scritto sugli specchi, con penne colorate, cosa fare e cosa leggere. Alla sera, il test. Io facevo finta di aver letto tutto, in realtà leggevo solo l’inizio del libro... E Giangiacomo mi sgridava, poi finiva tutto in grandi risate. [...] Lui lasciò casa sua, in via Andegari, in circostanze quanto meno agitate... Me lo trovai davanti, d’improvviso, con due valige... [...] Era senza occhiali, li aveva rotti nell’agitazione, uscendo da Andegari. Non voglio approfondire. Non vedeva niente, senza occhiali: era molto miope, portava lenti grosse così. Ma era affascinante, Giangiacomo: come sua madre, una donna bellissima... [...] Aveva chiesto se ci fosse un appartamento libero a fianco al mio, entrò, e per allargare la casa, con un piccone abbattè il muro che ci divideva. Una presa di possesso da guerriero. Ma non aveva alcuna vocazione per i lavori manuali. Un chiodo al muro per un quadro? Un disastro. Ma guai a dirgli che non era capace.[...] I problemi cominciarono nel famoso viaggio in Bolivia, nel ’67, quando fummo arrestati. [...] Un’immensa paura. Eravamo in albergo, la polizia venne a prendere Giangiacomo. Non si accorsero di me perchè mi ero nascosta nel bagno. Eravamo lì per il processo a Regis Debray. Nascosi in fretta carte e documenti che avrebbero messo nei guai i dissidenti boliviani. Poi mi precipitai all’ambasciata per dare l’allarme, solo il chiasso avrebbe potuto salvarci: Era una grossa notizia: Feltrinelli arrestato, sparito in chissà quale carcere. Giangiacomo aveva trasferito molti soldi in una banca a La Paz, per aiutare il movimento boliviano, ma tutto andò perso. Infine tornai in albergo e fui arrestata anch’io: subito interrogata da un tizio, certo un agente della Cia, uno che voleva che parlassi in spagnolo e non in inglese, sperando che facessi errori e mi contraddicessi. Poi mi misero in carcere, in compagnia di un indio che doveva spiarmi. Un freddo terribile. In cella mi accorsi di avere con me altri indirizzi scritti su carta velina, un vecchio trucco per poterla ingoiare, in caso di necessità. Intanto si sentivano dalle altre celle urla terribili, stavano seviziando qualcuno! Passammo tre giorni terribili, finalmente arrivò un messaggio dall’ambasciatore: domani sarete espulsi. E quando rividi Giangiacomo, lui mi abbracciò e mi disse: mi hai salvato la vita, vuoi sposarmi?... [...] Ero felice, ma sconvolta. Gli dissi: no, voglio tornare a casa mia, in Sud Tirolo. [...] Mi diede appuntamento a Malaga, dove aveva una barca, l’Eschimosa. E fu lì che la relazione, fino a quel giorno nascosta, esplose sui giornali. [...] il matrimonio? A Lugano il 21 marzo del ’69. [...] Giangiacomo era tormentato dall’idea che in Italia era imminente un colpo di stato. [...] Giangiacomo credeva in quello che faceva, era coerente. Da sempre pensava che la società dovesse cambiare, aveva dedicato la sua vita ad aiutare la classe operaia. Non c’era esibizionismo. E oggi, se fosse vivo, sarebbe un importante e autorevole politico, un riferimento importante per la sinistra allo sbando. [...] Giangiacomo era ribelle, chiuso nella solitudine. Era straordinariamente ricco, non aveva mai conosciuto la miseria: staccato dalla realtà. Temeva di finire in carcere e si batteva in clandestinità, fuori dalle regole. Ero e sono convinta che avesse i mezzi e le capacità per fare politica all’interno del sistema: spesso ho tentato di convincerlo a scegliere in questo senso... Ma non c’era fu nulla da fare [...] Solo due anni normali, poi tutto è cambiato. Lui era ricercato, spariva per lunghi periodi. Avevo paura.: da sola, per mesi [...] In questo do ragione a Inge, che scrisse che era perduto... vero: anche volendo, non poteva tornare indietro. [...] Certo la vita per lui non fu facile, dal ’69, da piazza Fontana in poi. [...] Eravamo a Oberhof. Sentimmo la radio, mi disse subito che doveva tornare in Italia. Invano gli consigliai di fare una conferenza stampa, dare un segno politico pubblico. Si diede alla macchia. Quante discussioni interminabili! Anche con un altro suo grande amico, l’avvocato Sandro Canestrini. Dicevo sempre: mai underground! Il risultato fu che non mi diceva più dove si nascondeva, mi diceva sempre meno. [...] Adorava Cuba. Abbiamo incontrato varie volte Fidel Castro. [...] Con me, forse, ci ha provato quando morì Ho Chi Min: ero andata nell’ambasciata vietnamita a firmare il libro delle condoglianze. Arrivò lui e anziché buttarsi sul libro, si buttò su di me! [...] Spesso mi viene in mente questo: al momento dell’esplosione, Giangiacomo certo avrà avuto un flash per capire e dirsi, questa volta pago, debbo pagare. Fino a quel momento non aveva mai sbattuto la testa. Tutto gli era consentito. [...] Aveva una terribile influenza addosso, e la tosse. Era ostinato, voleva andar via. Quante volte ho pensato: avrei dovuto seguire l’istinto, prendere un fucile da caccia a pallini, sparargli alle gambe... oggi sarebbe zoppo, ma vivo. Lo avrei salvato. E invece lo accompagnai alla stazione di Klagenfurt. Mi regalò dei fiori, tre narcisi. Quando lo vidi sparire, affacciato al finestrino, ebbi un presentimento: non lo vedo più. [...] Forse una provocazione fascista del tipo: tu parli tanto, ma sei solo un teorico, incapace di un’impresa. Per Feltrinelli questo era un punto debole. Ho già detto che nelle cose manuali era un disastro. Se doveva riparare un rubinetto in cucina, veniva giù una specie di alluvione. [...] Ero ospite, a Milano, di Gretel Marinutti, una cara amica. Mi ha accolto per mesi, coccolandomi. Quella mattina arriva il giornale in casa, vedo la foto di uno sconosciuto sotto il traliccio e ho un lampo: è lui! Corro a svegliare Gretel e le grido che Giangiacomo è morto. Poi telefono alla sua segretaria, la mitica Tina, più di una moglie per lui, e lei mi dice, sì signora, mi fa capire che anche lei lo ha riconosciuto. Alle cinque il giornale radio dà la conferma. Era stato riconosciuto grazie a due minuscole foto, una mia e l’altra di Carlo, che io avevo unito insieme. Decido di lasciare la casa di Gretl per evitarle noie e fastidi e mi ricovero alla clinica Madonnina, mi imbottiscono di tranquillanti. Alle tre di notte piomba nella mia camera il giudice Guido Viola, con un codazzo di persone al seguito, per chiedermi di seguirlo, per il riconoscimento del cadavere. [...] Può immaginare il mio stato d’animo... Subito gli guardai le mani, perché lui si rosicchiava le unghie. E non ebbi più dubbi. In faccia era intatto, nessun segno. Ma aveva perso una gamba, per l’esplosione. Ero molto scossa: ricordo l’atteggiamento dei funzionari, intorno, che spiavano, con compiaciuta morbosità, come cacciatori di fronte a una preda. [...] Ho vissuto nell’ansia anni orrendi, che mi hanno marchiato per sempre. Ma Giangiacomo era un uomo stupendo. Indimenticabile e insostituibile. [...] Desiderava una femmina, da chiamare Fausta. Quando Carlo ha messo al mondo i suoi figli, gli ho ricordato il desiderio del padre. Ma sono nati due maschi. [...]” [...] ha avuto un figlio, Morgan Fitzgerald, oggi pilota di jet, dal pittore Jean Paul Chambas. [...] una liaison con Umberto Marzotto e a due lunghe relazioni con due ballerini classici (adora il balletto classico, ne conosce ogni passo). [...] la sua fuga d’amore con Carlo Ripa di Meana [...] ”Come uomo, Carlo è fantastico. Ma come amante, che delusione. [...] Io sono semplice, naturale, trasparente. Lui ha bisogno di sollecitazioni di fantasticherie, immaginazioni, complicazioni. E poi... [...] Poi è un mammone. Ogni giorno interminabili telefonate alla mamma, per ogni minima decisione. E ad ogni viaggio in Italia tappa obbligata dalla mamma, al Grand Hotel di Rimini. E poi... [...] era un gran disordinato. Dovetti prendere due persone di servizio in più, per stare dietro ai suoi capricci.... [...] E poi stava sveglio di notte, perché leggeva sempre (era diventato buon amico di Giangiacomo, gli leggeva i giornali...) e scriveva, e così di giorno dormiva sempre” [...]» (Cesare Lanza, ”Sette” n. 10/2002).