La Stampa TuuttoLibri 26/03/2005, Giovanni De Luna, 26 marzo 2005
Tags : Anno 1901. Raggruppati per paesi. Stati Uniti
La storia nel pallone. La Stampa TuttoLibri 26/03/2005. Succede tutto in unico giorno, l’8 maggio 1898
La storia nel pallone. La Stampa TuttoLibri 26/03/2005. Succede tutto in unico giorno, l’8 maggio 1898. A Milano, i cannoni di Bava Beccaris fanno strage di anarchici, socialisti e operai. A Torino si disputa il primo campionato nazionale di calcio: vi partecipano quattro squadre, tre torinesi e il Genoa Cricket and Athletic Club che vincerà il titolo. Intorno al rettangolo di gioco, si consumano nell’ordine: un fallito attentato anarchico contro un Sottosegretario alla guerra; la fine della storia d’amore dello stesso sottosegretario con una baronessa; l’inizio di una nuova storia d’amore tra una fanciulla delle buona borghesia torinese e un attaccante-poeta del Genoa. Alle partite assistono poche decine di spettatori, tre poliziotti in gamba, un giornalista della Stampa attento e professionale, un anarchico velleitario e cinico, una Welleyes, stupenda automobile sfornata dall’officina dei fratelli Ceirano, una famigliola in gita; in campo si affrontano avvocati, ottici, fornai, marinai, artigiani, ingegneri, nobili piemontesi, ecc. Anche se si tratta di un giorno davvero particolare, forse è davvero troppo per un solo giorno. Finisce così che dei vari eventi che precipitano nel romanzo di Franco Bernini La prima volta (in uscita da Einaudi, pp. 140,e10), non tutti riescono a coinvolgere e appassionare il lettore. E’ come se, innamoratosi di un’idea di racconto indubbiamente curiosa e brillante, - intrecciare la nascita del calcio e un momento significativo del conflitto sociale in Italia -, Bernini abbia preso a cuore soprattutto la rappresentazione dello "scenario", immettendo nelle sue pagine quasi un surplus di accuratezza filologica che finisce per schiacciare i protagonisti, rendendoli più stereotipi che personaggi. E’ così per la figura dell’anarchico Elias, i cui tratti ci restituiscono il terrorista piccolo borghese di Prima Linea degli anni ’70 piuttosto che l’anarchico di fine Ottocento. Allora si mirava in alto, altro che il deputato Teodorico Venaria! Basta scorrere la sequenza degli omicidi commessi, da quello di Sante Caserio, che nel 1894 uccise il presidente francese Carnot, a quello di Luigi Luccheni, che proprio nel 1898 assassinò l’imperatrice d’Austria, Elisabetta. Senza dimenticare ovviamente il più clamoroso di tutti, l’assassinio di Umberto I a Monza nel 1900 per mano di Gaetano Bresci che (lui sì!) voleva proprio vendicare le vittime di Bava Beccaris; e l’anno seguente, il 1901, un altro anarchico, ma non italiano, tolse la vita al presidente degli Stati Uniti, Mc Kinley. Quegli attentati scaturirono da una radicale "volontà" rivoluzionaria, che, sul suo versante più utopistico, concepiva la storia come il terreno su cui praticare una sperimentazione "totale" sugli esseri umani e sulla loro modalità di associazione, nel tentativo di recuperare una purezza edenica perduta con la modernità: strumento dell’aspirazione mistico-palingenetica alla restaurazione del paradiso in Terra, la violenza anarchica selezionava i suoi bersagli verso l’alto, alla ricerca di capri espiatori che rendessero chiara con il loro sacrificio la dimensione messianica delle uccisioni. Gli anarchici sentimentali e pasticcioni messi in scena da Bernini somigliano insomma più a Roberto Sandalo che a Gaetano Bresci. Dove invece il romanzo è veramente godibile fino in fondo è nelle pagine che ci restituiscono il sapore antico degli esordi del gioco del calcio trasportandoci in un altro mondo rispetto a quello di oggi. Proviamo a esplorarne le coordinate: l’aureola di autorevolezza e rispetto che circonda l’arbitro, il referee, depositario delle regole e custode della loro applicazione, "la voce del dovere"; i guanti bianchi che all’inizio i calciatori indossavano per facilitare l’arbitro nel rilevare i falli di mano attraverso il segno lasciato dal pallone (in termini attuali, una risorsa tecnologica come avere la moviola in campo); un’organizzazione di gioco che ignora tattiche e schemi e che si esaurisce in una tumultuosa ammucchiata intorno al pallone, un’azione di attacco e una di difesa, come onde di risacca da un’area di rigore all’altra; un senso esasperato di lealtà e di correttezza sportiva che portava a scandalizzarsi perfino per la finta ingannatrice di passare il pallone a un compagno, indirizzando invece il passaggio verso un altro; un pallone di cuoio chiuso con una stringa che ti ferisce a sangue quando lo colpisci di testa; le bevande dell’intervallo, birra, limonata, caffè, unica forma di doping allora conosciuta.... Certo un romanzo non si giudica sul metro della sua attendibilità storica. Pure nelle sue pagine "sportive" il libro di Bernini è veramente efficace e ci aiuta a decifrare le varie componenti della miscela sociale e culturale da cui scaturì il nostro gioco nazionale: le aspirazioni movimentistiche e dinamiche di un’alta borghesia cosmopolita intrecciate con quelle di una illuminata nobiltà attenta alle mode d’oltrealpe e delle nascenti dinastie imprenditoriali pronte a misurarsi con le tutte le seduzioni di quelle che Croce chiamava le "forze centrifughe del Novecento". A Torino, il duca d’Aosta giocava al foot-ball sulla patinoire del Valentino con i tecnici inglesi che lavoravano nelle fabbriche di pizzi e di tulle. Si giocava anche in Piazza d’Armi, sotto gli sguardi ammirati degli studenti liceali. Ai giovani e giovanissimi dilettanti si affiancarono quindi i membri delle industrie più fiorenti della città, quelle che stavano nascendo e quelle che si erano già consolidate negli anni. A fondare, nel 1897, la Juventus furono i fratelli Canfari, che rappresentavano l’ imprenditoria meccanico-automobilistica; poi si passò alla presidenza di Alfredo Dick, amministatore delegato dell’omonima Manifattura di pellami e calzature. Era però un hobby, non un investimento. E soldi al calcio ne arrivavano davvero pochi. Fu proprio Dick a scrivere al Sindaco di Torino, il 21 dicembre 1904 una lettera che riportiamo integralmente: "I soci di tale società essendo reclutati fra gli studenti per la massima parte, é assolutamente impossibile, nonostante la buona volontà di tutti i soci che sono attivi e gagliardi, ma purtroppo col borsellino vuoto, di ottenere dai medesimi un maggior contributo personale". Da questo preambolo scaturiva la richiesta al Comune di un sussidio economico tale da consentire alla Juve di affittare un nuovo campo di gioco sulla pelouse del velodromo Umberto I, in Corso Dante, e di "aprire una scuola assolutamente gratuita per i giovani di età inferiore ai 16 anni, che desiderano aspirare a diventare futuri buoni giocatori di Foot-Ball". Grazie a un’elargizione di L. 100 la Juventus prese possesso dell’agognato campo, disputandovi tutti i suoi incontri fino all’estate del 1906. La questua nei confronti del Comune si protrarrà fino all’inizio degli anni Venti, quando il sussidio municipale toccò la quota di L. 200 annue. Le ristrettezze finanziarie (rese evidenti dalla lettera di Dick) portarono all’abolizione della sede: "si comprese - ricordava nel 1914 Enrico Canfari - che per riunirci i caffé erano fatti apposta, almeno d’inverno. D’estate, che diamine, c’erano le panche dei viali.. per l’inverno fu scelto il caffé della Borsa in via Roma.. per l’estate la panca di Corso Re Umberto". Dal Velodromo, il campo di gioco fu trasferito in Corso Sebastopoli. Ci si lavava a una fontanella sulla strada, si allestivano merende con l’insalata che cresceva nell’area di rigore, si incassava qualche introito extra affittando il campo per le riprese di un film passionale che aveva come protagonisti "la vamp Sambuccini e il bel Donadio", finché, durante la prima guerra mondiale, vi si allestì un allevamento militare di maiali. Niente, assolutamente niente lasciava pensare che la Juventus sarebbe diventata la più grande squadra della storia del calcio italiano. Giovanni De Luna