b, 16 maggio 2005
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PERILLI Achille. Nato a Roma il 28 gennaio 1927. Pittore. «[...] ”Risalire dall’informel alla forma, dalla forma all’immagine, dall’immagine al segno, dal segno alla traccia, dalla traccia alla memoria, dalla memoria all’inconscio, dall’inconscio alla poesia vera, assurda, immediata di un qualcosa che non è più soltanto noi o noi oggi o noi domani o noi ieri, ma tutti, sempre, ovunque”: è una circolarità non teleologica e come senza fine, indefinitamente avvolta su se stessa, in bilico sempre fra emersioni e nuovi crolli, tesa per un attimo verso una luce ordinante, forse verso un progetto, e poi ancora intrisa d’ombre, annottata e ansiosa, quella che si configura allo sguardo di Perilli nel 1957 come sentiero - problematico, ma ormai necessario, dopo aver declinato ogni possibilità dell’astrattismo storico - di verità
PERILLI Achille. Nato a Roma il 28 gennaio 1927. Pittore. «[...] ”Risalire dall’informel alla forma, dalla forma all’immagine, dall’immagine al segno, dal segno alla traccia, dalla traccia alla memoria, dalla memoria all’inconscio, dall’inconscio alla poesia vera, assurda, immediata di un qualcosa che non è più soltanto noi o noi oggi o noi domani o noi ieri, ma tutti, sempre, ovunque”: è una circolarità non teleologica e come senza fine, indefinitamente avvolta su se stessa, in bilico sempre fra emersioni e nuovi crolli, tesa per un attimo verso una luce ordinante, forse verso un progetto, e poi ancora intrisa d’ombre, annottata e ansiosa, quella che si configura allo sguardo di Perilli nel 1957 come sentiero - problematico, ma ormai necessario, dopo aver declinato ogni possibilità dell’astrattismo storico - di verità. Dopo aver tanto conosciuto, pensato, trasmesso alla cultura nostra schiudendo per essa orizzonti sconosciuti o dimenticati - dada e surrealismo, avanguardie russe e slave, scrittura orientale, fra l’altro - adesso egli sa appena quel che non vuole, quel che si lascerà alle spalle: ”Abbandoniamo il razionale, il naturale, il concettuale, il simbolico”; sa che cercherà all´opposto (memore, forse, di Klee, che affondava lo sguardo nel luogo ”dei morti e dei mai nati”), cieco come un rabdomante, in territori vasti e dai confini nebulosi: quelli ”dell’alchimia, del ritorno e del perdersi in sé, dell’automatismo, della calligrafia, dell’assurdo”. Ancora, ”di una calligrafia ritmata dalla memoria, con il gesto automatico che segna, cancella, perde e ritrova l’immagine”. Allo scadere del 1956 e ai primissimi mesi del 1957, si datano numerose le carte ove il segno nero prende a scriversi, urgente e quasi gestuale, sul bianco del foglio: secondo un modo che, se ha certo preso atto dell’analogo iscriversi dell’aspra dialettica del bianco e del nero nell’opera di Kline (conosciuta allora a Roma attraverso la galleria Spazio e la rivista Arti Visive, poi attraverso la ”Rome-New York Art Foundation” dell’Isola Tiberina), pensa però lo spazio che contiene e rinserra quel gesto in modo affatto diverso, come campo in cui ogni tensione abbia a essere risolta, a dal quale possa nascere, in luogo del grido e dell´indeterminata estensione statunitense, un´immagine. La stessa ”immagine” di cui Perilli dice nei suoi scritti teorici del 1957 più sopra ricordati. Di tanto, allora, è lastricata la strada compiuta da Perilli fra il tempo dell’Age d’Or e quello de L’esperienza moderna: straordinaria rivista, quest’ultima, uscita fra il 1957 e il 1959 in soli quattro fascicoli, ma che ha lasciato un segno indelebile nella cultura, non solo artistica e non solo romana, dei propri anni. Gli fu compagno d’avventura Gastone Novelli: nel profondo congenere. Sulle pagine della rivista (assieme alle firme di Nello Ponente e di Cesare Vivaldi, ma anche di Angelo Maria Ripellino e di Fosco Maraini) si videro immagini - oltre che di Perilli, Novelli, Twombly - di Klee, Picabia, Ernst, Schwitters, Wols, Arp; e assieme quelle di Corpora, Scialoja, Capogrossi; di Fontana e di Dova; di Accardi e Sanfilippo; di Boille, Sterpini, Sordini, Bertini; di Corneille e Alechinsky; di Kline e di Soulages; di Tàpies, Canogar, Millares, Cuixart, Saura; di altri ancora. Età, mondi diversi - che, tutti, Perilli aveva avvicinato, compreso, amato - si davano la mano, scambiavano parole, pensavano una comunanza. E questo è soprattutto straordinario, sfogliando oggi le pagine de L’esperienza moderna: il vedervi raccolte esperienze di radice diversa, lontane nello spazio e talora nel tempo, che per un attimo si stringono l’una all’altra, disposte persino a riscrivere o scancellare per un attimo la loro storia individua, pur di pensare e vivere un comune progetto. E in ciò sta il segno, che è difficile sottovalutare, scritto allora da Perilli. Intanto, mentre componeva le pagine della rivista, la pittura trovava, assieme a ritmi d’intensità sino ad allora sconosciuta, e ancora una volta in perfetta coincidenza con il pensiero teorico su di essa, una sua acme. Da Il mondo consunto, 1957, a Il sigillo, 1960, è un’ininterrotta serie di tele felicissime, nella varietà d’un rapsodico andare di un segno sempre più impreventivo: che scopre talora racconti gorkiani, e talora si fa memore di un sogno di Licini; talvolta designa muti orizzonti sui quali scorre una danza ironica e quasi divertita, tal altra inventa spazi sui quali passa veloce un diapason d’energia. Nodo d’emozione o fiato della memoria; azzardo e calcolato abbandono; sorpresa e ricordo; stupefazione o appagata bellezza, quel segno. Un segno breve e contratto, celere, urgente, sempre: scritto su una materia che Perilli vuole ”a presa rapida”, perché non ci deve essere tempo per esercitare, su di essa, accademie, per esibire sapienze, per pronunciare verità certificate in anticipo dalla ragione. Una materia, ha da essere, che non s’incanti del proprio splendore, che trattenga il suo spessore; che sia, appena, alveo sufficiente ad accogliere il segno, e il poco colore, che su di essa si scrive, s’impunta, trova ”figure” ogni volta inattese.
Il sigillo, esposto per la prima volta nella storica mostra ”Crack 1960” presentata da Vivaldi alla galleria ”Il Cancello” di Venezia, è il quadro che s’incarica, per primo, di registrare il cambiamento. Dopo di esso, un’altra felice stagione prende passo, nella pittura di Perilli: sono i ”fumetti”, che segneranno, forse, il tempo più riconosciuto del pittore. Il tasso di novità di questi quadri, e la loro tempestività nel rispondere con voce del tutto autonoma al nuovo bisogno di figura che la pittura registra ovunque nel mondo occidentale all’avvio del settimo decennio, sono certamente notevoli. [...] Presto, nel corso di questo primo lustro degli anni Sessanta, il formato dei dipinti, sempre maggiore, conterrà storie più articolate e complesse, seppur non meno imperfette e interroganti. Ma basta porre attenzione all’incipit di questo modo, Il sigillo appunto, per scoprire come l’origine di quei racconti interrotti sia nel segno che, rabdomantico, scava il grembo della materia su cui s’iscrive in cerca di verità. Segno fra altri segni, ancora, è la gabbia chiusa che margina, sul nero, il rettangolo che racchiude la ”storia”, appena in via di formarsi. Così, i ”fumetti” saranno non altro che l’evolversi del modo del segno che, scaturito insieme dagli abissi della coscienza e dalla memoria, è andato, nella notte della ragione, in cerca di verità; e che ora più dichiaratamente cerca uno spazio che, sfuggendo l’infinitudine della cultura d’oltreoceano, si rinserri in se stesso, e ricordi ancora le proprie radici. Europee» (Fabrizio D’Amico, ”la Repubblica” 16/5/2005).