Varie, 6 maggio 2005
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TROMBADORI Duccio Roma 28 febbraio 1945. Giornalista • «[...] Ha un nome medioevale, Duccio, e un cognome simbolo per il comunismo italiano, Trombadori
TROMBADORI Duccio Roma 28 febbraio 1945. Giornalista • «[...] Ha un nome medioevale, Duccio, e un cognome simbolo per il comunismo italiano, Trombadori. Da Trotskij alla Cisl ha fatto molta strada ma non si sente un voltagabbana. ”Io non sono mai stato realmente di sinistra”, dice. ”Sono solo un uomo con forte sensibilità sul sociale. Sono come Pasolini, un po’ rivoluzionario, un po’ conservatore [...] sono nato nel quartiere Prati, a Roma [...] Convivevamo con la famiglia di Fabrizio Onofri. Una piccola comune di intellettuali rivoluzionari professionali del Partito comunista. [...] Giovanni Sabbatucci, lo storico, era mio compagno di banco alle elementari. [...] Ricordo i Natali per i figli dei funzionari, alle Botteghe Oscure: i figli di Antonio Giolitti, Fabrizio Onofri, Aldo Natoli, Mario Socrate, Pietro Ingrao, Lucio Lombardo Radice. Ricordo in casa Pajetta Emilio Sereni, truccato da Babbo Natale, rincuorare la nostra vita di ”esiliati in patri’ [...] Ero ragazzino e mi sembrava di portare sulle spalle tutte le ”colpe’ dei comunisti. Gli stessi comunisti erano chiusi, moralisti, bigotti [...] Nel 1956 Gaetano Trombadori, il letterato, zio di mio padre, firmò una lettera di condanna della repressione sovietica in Ungheria. Da quel giorno non poté più entrare in casa nostra. [...] Ciò non toglie che casa nostra fosse frequentata da tanti amici e uomini di cultura, cosa che rallegrava la vita: Pablo Neruda occupò per vari giorni la mia stanza. Poi Carlo Levi, Giuseppe De Santis, Vasco Pratolini, Fedele D’Amico, Cesare Zavattini, Natalino Sapegno, Luchino Visconti, Giuliano Briganti. Renato Guttuso mi fece un ritratto quando avevo 5 anni [...] Nel ”62, primo centro-sinistra, in casa mia fu organizzato un incontro segreto di Togliatti con i socialisti ostili a Nenni. Vidi un omino piccolo con occhi pungenti dal sorriso sottile e dalla bocca larga. Di fronte a ”Lui’, che aveva ”fatto la Storia’, divenni tutto rosso. Eppure avevo già 18 anni e già mi cimentavo sui testi dei ”compagni cinesi’ contro il ”revisionismo’ di Togliatti e discutevo dei libri di Trotskij con altri giovani della Fgci [...] I miei mi mandavano, insieme a Paolo Mieli, figlio del direttore dell’’Unità’, in una specie di kinderheim svizzero. Regole tedesche, docce in comune, raccolta delle ciliege, marce, preghiere. Mieli lo ricorda come il periodo peggiore della sua vita. Era timido e pauroso, ma determinato. Direi capriccioso. [...] A 22 anni mi legai a un circolo di studi marxisti considerato il non plus ultra della dottrina [...] In due anni leggemmo tutto Il Capitale, tutte le opere di Lenin e di Rosa Luxembourg. Ma non mi iscrissi al Pci fino al 1968. [...] La prima tessera me la diede Giulio Savelli, attuale deputato di Forza Italia, segretario della sezione Mazzini, centro di sediziosi trotskisti. Savelli era un ragazzo magrolino che girava su una bellissima Porsche. Era brillante, libero, spregiudicato. E quindi fu espulso dal partito. [...] All’università, architettura, ero parte della nidiata di Bruno Zevi, leader rinnovatore, assieme a Sergio Petruccioli, Duccio Staderini, Massimiliano Fuksas, Renato Nicolini. [...] Fui segretario degli universitari Pci romani e poi entrai all’’Unità’ [...] Giornalismo severo, disciplinato, concezione liturgica della funzione della stampa e quindi anche un po’ censoria [...] Con Reichlin non ebbi vita facile. Mi accusò di aver organizzato una frazione socialista, insieme a Caprarica, De Rosas, Angeloni [...] Morto il Pci, chissenefrega di Veltroni [...] Sono entrato nel sindacato Cisl su richiesta di D’Antoni e l’ho fatto anche per segnare il mio interesse per il mondo cattolico [...] Mio nonno morì che avevo 16 anni. Passavo le giornate a guardarlo dipingere nel suo studio di Villa Strohlfern. Nel ”71, avevo 27 anni. ebbi una certa disaffezione per la politica, una specie di vertigine e decisi di ristabilire un dialogo con lui. Presi un suo quadro e lo copiai, come terapia. Così ho cominciato a dipingere” [...]» (Claudio Sabelli Fioretti, ”Sette” n. 49-50/2000).