Varie, 1 maggio 2005
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Mordillo Guillermo
• Buenos Aires (Argentina) 4 agosto 1932. Illustratore • «Il suo volto è aperto e simpatico. Le sue parole affascinano. I suoi disegni colpiscono perché sono lo specchio della società dove molti si affannano e altri osservano. [...] ”Amo il cinema muto e credo che la miglior espressione del cinema di animazione sia affidarsi alle immagini e lasciare le parole fuori dai fotogrammi. Il messaggio deve conquistare il mondo al di là delle diversità linguistiche [...] Sono diventato vignettista a cinque anni. Mia madre mi portò a vedere Biancaneve e i sette nani e da quel momento in poi i miei pensieri si sono trasformati in disegni” [...]» (Patrizia Saladini, ”Il Messaggero” 30/4/2005) • «[...] Cerco sempre la solitudine, l’isolamento, anche nei posti più affollati perché solo la solitudine è fonte di creazione [...] Diceva Picasso che non ssi può creare niente senza solitudine. E io son d’accordo con lui. Anzi, io aggiungo che è anche fonte di motivazione, oltre che di ispirazione; la persona che non si sente intimamente sola, non sente nemmeno il bisogno di creare [...] Ho cominciato a disegnare a quattro anni, e da allora non ho mai smesso: immaginatevi una casa di operai a Buenos Aires, con una sola stanza da letto per una famiglia di quattro persone. D’estate disegnavo proprio in quella camera, perché era più fresca, mentre d’inverno stavo in quella più calda, la cucina [...] La mia è stata un’infanzia veramente felice. Le mie giornate le passavo disegnando e giocando a calcio in strada con gli amici. Il massimo. Quando poi arrivavano le vacanze non si andava al mare né in montagna. Si restava a casa. E questo voleva dire più tempo per giocare a calcio e più tempo per disegnare. Non è questa la cosa più bella per un bambino? Aver degli amici da poter vedere tutti i giorni, e giocare [...] Nel bel mezzo di una partita di calcio, che pure amavo tantissimo, mi veniva voglia di colpo di andare a disegnare. Gli amici allora si guardavano, sorridevano e si facevano dei segni per dire che ero un po’ strano, il bizzarro del gruppo. Ma non si stupivano veramente [...] I miei genitori non hanno mai pensato che perdessi tempo [...] anzi erano fieri. Mio padre era operaio elettricista, mia madre sapeva appena leggere e scrivere. Per loro avere un figlio che disegnava tutti i giorni e diceva sempre ”io voglio diventare disegnatore” era una cosa bellissima. Così non mi hanno obbligato a studiare: se fossi stato figlio di un medico o di un avvocato forse mi avrebbero detto: ”Se vuoi essere un disegnatore, va bene, ma prima devi studiare [...[ Però me la sono dovuta sbrogliaree da solo, perché non potevano certo scegliermi loro la scuola. Ed erano troppo semplici per porsi il problema del poco che avrei guadagnato; avevano sempre vissuto con poco. Anzi, niente. Tutto quello che possedevano era una bicicletta [...] la mia, più che una passione, è una vera malattia. Ma è anche un privilegio. Attraverso i miei disegni io comunico col mondo intero, con persone che non conosco né conoscerò mai, che non parlano nemmeno la mia lingua. Comunico e divido con loro la mia gioia di vivere [...]» (Sara Ricotta, ”Specchio” 9/5/1998).