Masolino D’Amico, La Stampa, 25/04/2005, 25 aprile 2005
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Biografia di Silvio D’Amico
Nonno Silvio D’Amico, La Stampa, 25/04/2005 UNA volta che giocando a casa dei miei nonni materni io e mia sorella ci mettemmo a saltare su un divano e a prenderci a cuscinate, la nonna ci rimproverò blandamente: «Scommetto che a casa dei nonni d’Amico queste cose non le fate!» Io gridai gioiosamente, continuando a saltare: «Che c’entra, quelli sono nonni distinti!» In effetti non ci saremmo comportati così dai nonni di via Nazionale, ma non perché colà oppressi da un’atmosfera particolarmente pomposa. La verità è che i bambini per tendenza non sono anarchici, bensì desiderosi di sapere quali regole siano in vigore, e di adeguarvisi. A casa d’Amico le regole erano diverse, ma la cordialità, altrettale. I nonni Cecchi avevano scelto di vivere in modo semplice. Per seguire la sua vocazione lui, nipote di un cuoco e figlio di un bottegaio, aveva lasciato il negozio di ferramenta alle sorelle di Firenze ed era venuto a Roma a mantenersi col solo esercizio della penna; lei era pittrice, e in casa faceva tutto, compreso cucinare. Nessuno dei due era particolarmente religioso. I nonni d’Amico erano invece esponenti della buona borghesia romana e cattolica. Le origini di nonno Silvio veramente erano abruzzesi, suo padre, che morì presto, era venuto a Roma tredicenne nel 1850 da un paesino sotto la Maiella, Torricella Peligna (patria anche dei genitori di John Fante, e del nonno di Vincenzo Bellini!), prescelto tra tanti fratelli da uno zio, Domenico, che se lo affiliò. Questo zio pare scegliesse di trasferirsi nello Stato Pontificio perché attirato dalle aperture liberali di Pio IX. Se in seguito la sterzata reazonaria del Santo Padre lo deludesse, non si sa; fatto sta che lo zio Domenico a Roma prosperò con l’edilizia, e da ultimo acquistò per sé e per la famiglia romana un palazzo in quella via Nazionale che aveva contribuito a costruire. Qui visse fino alla morte (1901), e qui vissero le famiglie dei discendenti diretti di quel nipote, che si chiamava Fedele, come poi mio padre. Quando io ero bambino, nonno Silvio e nonna Elsa abitavano al quarto piano col figlio scapolo Marcello (mio padre e l’altro zio, Sandro, si erano sposati ed emancipati); al terzo piano abitava zio Memmo, fratello minore di nonno Silvio, con la moglie Ninetta; al quinto piano abitavano Filomena, figlia di zio Memmo, con marito e figli, e di fronte a loro Luigi Filippo, altro figlio di zio Memmo, con la moglie (l’altra figlia di zio Memmo, Elena, aveva invece seguito altrove il marito Antonio Giolitti; in compenso la loro figlia Anna sarebbe venuta in seguito a occupare un altro appartamento col marito di allora). Come si vede, un nucleo molto compatto, che restò unito a lungo. Oltre a presentare questo retroterra così solido, inoltre, nonno Silvio era un uomo delle istituzioni, laureato (mio nonno Emilio Cecchi non si laureò mai, per ristrettezze economiche), già impiegato presso un antenato del Ministero dei Beni Culturali, giornalista professionista, infine fondatore e direttore dell’Accademia di Arte Drammatica. Cresciuti dai gesuiti del Massimo, la scuola fondata per educare i figli della nobiltà e del cosiddetto generone capitolini, nonno Silvio e zio Memmo erano romani fino al midollo, com’era romana del resto la loro madre, e come romane sarebbero state le loro mogli: ma romani, appunto, della borghesia, ossia leggeri, ironici, credenti con tranquillità - quelli per intenderci rappresentati da Pascarella e da Trilussa, non dal Belli, che peraltro entrambi conoscevano a memoria e dicevano superbamente - zio Memmo con più voluttà del nonno, il quale non poteva sopportare le parolacce. Dunque nonno Silvio era un signore in apparenza molto decoroso e autorevole. Nonna Elsa scriveva con calligrafia immacolata, pregava molto, e prima di diventare tollerante in tarda età, era stata assai intransigente (disse a Petrolini che non voleva vederlo recitare perché temeva le sue volgarità. Lui le promise che se fosse venuta si sarebbe contenuto. Lei andò, e un certo momento dello spettacolo, dovendo ingiuriare un tale, lui attaccò una serqua di improperi che concluse esclamando: «E poi ringrazia Iddio che stasera c’è la signora d’Amico, altrimenti chissà che altro ti dicevo!»). La nonna governava la casa, ossia comandava la servitù; ma, educata da signorina-bene fine Ottocento, da sola non avrebbe saputo fare niente, credo nemmeno pettinarsi. L’autorevolezza del nonno si vedeva da com’era accolto nei posti, specie, ovviamente, nei teatri, dove mi portava qualche volta - ero il primo nipote maschio e per un po’ restai l’unico, venivo mostrato nei camerini e coccolato dai maggiori attori dell’epoca, ora ahimè tutti defunti. Devo dire che ho pochi ricordi di questo, a parte la generosa scollatura di Marisa Maresca, una ex soubrette che nell’occasione si era riciclata in un Goldoni. Inoltre il nonno fruiva talvolta di una auto della Rai con autista. Ho già raccontato di quando caddi fuori da questa auto senza che lui se ne accorgesse. Ma sulla distrazione del nonno gli aneddoti sono innumerevoli. A un’allieva emozionata che gli confidò di essersi preparata, per un esame da sostenere con lui, un pezzo della Donna del mare, e che cercava un incoraggiamento, rispose soprappensiero: «L’ho sentito fare dalla Duse. Era bravissima!» Non per nulla un altro allievo diceva: «Il Presidente tiene sempre i piedi in due gaffe.» Un giorno i suoi figli lo incontrarono per strada, mentre camminava assorto. Lo presero a spintoni, lui non reagì, e più tardi a tavola deplorò la maleducazione di certi sconosciuti. Torniamo al punto. In realtà questo nonno così rispettabile, così diplomatico, così bene introdotto nelle alte sfere e in Vaticano, era tutt’altro che un personaggio facile da etichettare. Innanzitutto nelle succitate istituzioni ci era entrato perché costretto. Sia lui sia suo fratello Memmo si erano diplomati in legge ma erano appassionati di letteratura e di teatro. Il nonno dopo aver scritto poesie - allora si firmava Sylvio, con la ypsilon - dovette prosaicamente impiegarsi come condizione del suocero, uomo terribilmente intransigente, per poter sposare la nonna. Zio Memmo che avrebbe voluto fare l’attore dovette invece diventare avvocato - e fu un penalista famoso per l’umorismo delle sue arringhe. Sin dall’infanzia il nonno aveva mostrato un talento naturale per comporre versi, una sorella maggiore, artistica anche lei (poetava e suonava il piano), lo portò a esibirsi nell’Accademia degli Arcadi, dove improvvisò un sonetto a rime obbligate. Si racconta che sapendo della sua fama una signora lo fermò mentre passeggiava con la madre e gli chiese di improvvisare qualcosa anche a lei. Lui borbottò: «Non seccare colui - che va pei fatti sui.» Anni dopo, quando faceva il critico, volle dimostrare che chiunque poteva scrivere endecasillabi banali come quelli di Sem Benelli. Così recensì un lavoro di costui in questo metro, impaginandolo come fosse prosa, e facendo notare la cosa solo alla fine. Da adulto sapeva migliaia di versi a memoria, anche se non riusciva a ricordare le cifre, nemmeno la data di nascita Shakespeare; e componeva spiritose strofette sugli amici, o magari sui titoli del giornale. Ovviamente la dimestichezza con la sintesi della poesia aiutò assai la velocità e la chiarezza con cui poi scrisse le sue recensioni. Per lui il teatro, di cui fu appassionato da subito e per sempre, era un gioco continuo, sopravvivono fotografie e programmi di spettacoli che organizzava da ragazzo, col fratello e gli amici. Adorava anche giocare coi bambini, coi figli quando erano piccoli, e quando aveva tempo, cioè per la verità assai di rado, anche con noi nipoti. Da giovane aveva fatto, per i figli, deliziosi disegni colorati; un’altra sua specialità era la costruzione del presepe. Al tempo dei nipoti era troppo impegnato, ma una volta riuscì a liberarsi - gli ci voleva almeno una settimana - e il risultato fu grandioso, un’intera stanza del suo appartamento, con pupazzi di tutte le dimensioni, prospettive, effetti di luce, ecc. Quel solido, immutabile mondo di via Nazionale diretto dalla nonna era insomma per lui la base stabile dove tornare tutti i giorni, ma poi c’era l’evasione quotidiana, verso il palcoscenico da spettatore, e soprattutto, da uomo d’azione, verso l’Accademia, che coccolava e viziava più di un’amante. Lì era veramente felice, lì poteva far vivere i testi, insegnando la storia del teatro e educandone gli interpreti. Non pensava di poter creare Grandi Attori, quelli, diceva, nascono, e di rado; ma buoni interpreti sì, e si batté per subordinarli alla coordinazione di un regista, funzione per la quale in Italia non esisteva nemmeno il nome - lo coniò il linguista Migliorini proprio dietro sua richiesta. Non per nulla per anni e anni dopo la sua morte ho sentito parlare del nonno da ex allievi con una confidenza che forse io stesso non avrei manifestato. Tra le sue qualità quella irresistibile, che lo accompagnò sempre e che riusciva spesso a trasmettere, era l’entusiasmo. Questa lo sorresse anche nella vita privata, fin da quando andò volontario nella Grande Guerra benché esonerato, e pur risultando del tutto inefficiente, miope e maldestro com’era nelle cose pratiche, miracolosamente tornò vivo. Allo stesso modo quando gli furono diagnosticati un cancro terminale e pochi anni di vita ordinò di non tentare operazioni inutili e si rimise a lavorare con la furiosa allegria di sempre, fino alla fine. Morì cinquant’anni fa, il primo aprile, e si scoprì che era popolarissimo: ebbe un funerale impressionante, con migliaia di astanti e tutto il teatro italiano a sfilare solennemente dalla sede dell’Accademia, allora a piazza Croce Rossa, fino a San Vitale, ossia di fronte alla casa di via Nazionale. L’imponente manifestazione fu organizzata da Paolo Grassi, che, geniale organizzatore e manager qual era, colse l’occasione non solo per rivolgere un vistoso omaggio a un illustre esponente del mondo del teatro, ma direi soprattutto per mostrare i muscoli del medesimo - per ottenere, in linguaggio moderno, visibilità. Ci ripensai quando pochi anni or sono mi recai alle pallide, arrangiate esequie di un altro gigante della scena italiana, Giorgio Strehler. Ahimè! Grassi non c’era più, nessuno precettò quei colleghi che per mio nonno erano stati irreggimentati. E il comune di Milano, reduce dalle clamorose esequie di un Versace (per carità! con tutto il rispetto), aveva evidentemente deciso che oggi la cultura di visibilità ne dà poca. Masolino D’Amico