varie, 30 marzo 2005
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ALESSANDRINI Delo Ischia di Castro (Viterbo) 13 dicembre 1914. Poeta. «[…] ”[…] capitolazione 1943, per tre mesi restai in Albania a lavorare per un pezzo di buch, di polenta, il giorno 10 dicembre fui preso dai tedeschi
ALESSANDRINI Delo Ischia di Castro (Viterbo) 13 dicembre 1914. Poeta. «[…] ”[…] capitolazione 1943, per tre mesi restai in Albania a lavorare per un pezzo di buch, di polenta, il giorno 10 dicembre fui preso dai tedeschi. Fui subito deportato in Germania a Greizer, presso Plauen nella Turingia, a lavorare in una fabbrica di aerei ed il mio compito era quello di assemblare le ruote degli aerei gonfiarle e montarle, dopodiché, finito il lavoro andavamo nel nostro dormitorio ricavato sopra l’edificio stesso. Il lavoro era duro, il mangiare scarso, i controlli e le perquisizioni quotidiane, una vita che può capirla soltanto chi l’ha provata. […] Il periodo di quella dura realtà è terminato nell’aprile del 1945, quando giunsero gli americani a liberarci”. […] viso tutto etrusco, schietto e virtuoso, da contadino […] mani antiche, lente e solenni, scavate dalla vita […] I suoi occhi hanno visto due guerre mondiali, il fascismo, la prigionia. Ma anche un secolo di lotte contadine. […] pur con la sua terza elementare, discende da una schiatta illustre e dimenticata: quella dei poeti a braccio. Così sono detti gl’improvvisatori popolari, contadini e pastori dell’Italia centrale, artisti del canto estemporaneo in ottava rima. Campioni ormai in via d’estinzione, ma un tempo numerosi e richiesti, per campagne e cittadine, dalla Lucchesìa agli altipiani d’Abruzzo alle maremme tosco-laziali. Suoi antenati furono, per dire, Divizia la contadina dei Bagni di Lucca, alla quale Montaigne accenna nel suo Viaggio in Italia; o il Giandomenico Pèri d’Arcidosso, improvvisatore bifolco alla corte dei Medici agl’inizi del Seicento; o ancora la Beatrice Bugelli di Pian degli Ontani, nel Pistoiese, il cui talento affascinò due generazioni di romantici, da Niccolò Tommaseo a Renato Fucini. Delo rappresenta la memoria vivente d’una tradizione formidabile. Unica, per durata e resistenza, nella storia della nostra letteratura. Soprattutto i grandi poemi cavallereschi, L’Orlando furioso e La Gerusalemme liberata, che attraverso il Big Bang della stampa portarono la poesia a latitudini geografiche e sociali impensabili per la cultura italiana: dalle piazze dei liberi comuni medioevali e dalle corti rinascimentali fin sulle rapazzole di anonimi pastori transumanti, nelle veglie dei poderi, nelle fiere e nelle feste di paese. E proprio nelle opere maggiori del nostro Cinquecento gl’improvvisatori popolari, autodidatti rozzamente alfabetizzati, hanno scoperto un po’ di quel che Don Chisciotte cercava nei suoi libri di Cavalleria: il tenero, anacronistico rimpianto per un’Età dell’Oro, un’Arcadia Felice mai esistita. Tutta poesia, niente classi sociali. Sia chiaro: se uno ne parla parla con loro, scopre che i poeti improvvisatori concepiscono la propria arte come un ”dono di natura”. Senza dono non c’è poesia. Punto e basta. E dire che in realtà il mestiere dell’improvvisatore esige bagaglio tecnico, trucchi del mestiere, conoscenze libresche. Anzitutto gli estemporanei nutrono un forte orgoglio metrico. L’estro, il ”talento fino”, la ”alta fantasia” devono accompagnarsi con ”giusto metro”. Con endecasillabi ben formati. Quando, per antico complesso d’inferiorità, un poeta sottopone i propri quaderni a qualche pigmalione locale con la preghiera di correggerne la grammatica, egli si prepara anche a un esame conta-sillabe: per poi vantarsi d’averlo superato se nei suoi versi una persona istruita non riesce a trovare difetti. A Delo capitò proprio durante la guerra. Ai lavori forzati in Germania consegnò le proprie ottave a un maestro, prigioniero anche lui, passando la prova a pieni voti. Ma già era già successo prima della disfatta, in Montenegro: ”Il mio Tenente, per mezzo di altri amici miei, ha saputo che io formavo versi: così mi ha costretto a farglieli leggere. Insomma l’ha letti e mi ha detto che vanno bene, solo che ci sarebbe da correggere qualche errore di grammatica. Ogni tanto contava le sillabe, ma non trovava mai differenza”. Delo aveva quattordici anni quand’era salpato la prima volta con una compagnia di braccianti per le bassure di Montalto: perciò aveva fatto in tempo a conoscere, e subire, l’ordine antico del latifondo maremmano, le sue gerarchie inflessibili, la sua fame. Quel mondo ben sintetizzato da Silone in Fontamara: prima il principe Torlonia, dio in terra. Poi i servi del principe. Poi i cani dei servi del principe. Poi nulla. Poi ancora nulla. Poi i cafoni. In Maremma Delo avrebbe lavorato tutta la vita fino al 1972, anno della pensione. Raccogliendo scarcia nel padule della Pescia, tirando su i poderi della Riforma. In mezzo, una guerra sciagurata e la deportazione in Germania. I lavori forzati, non troppo diversi dall’amarezza e dalla schiavitù lasciate a casa. Nell’ottava rima Delo ha trovato la possibilità di dare un senso a tali esperienze, di curarne le piaghe. L’ottava: cantata a squarciagola da giovane per osterie e fraschette, consegnata poi - con la maturità - alla meditazione della pagina scritta. […]» (Antonello Ricci, ”il manifesto” 30/3/2005).