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 2005  marzo 09 Mercoledì calendario

[L’uomo, animale corridore] Finora fra i fattori che hanno caratterizzato l’emergere dei tratti umani rispetto all’evoluzione generale dei primati, l’accento è stato sempre posto sullo sviluppo dell’andatura bipede, guardando però alla pura deambulazione, senza considerare la corsa

[L’uomo, animale corridore] Finora fra i fattori che hanno caratterizzato l’emergere dei tratti umani rispetto all’evoluzione generale dei primati, l’accento è stato sempre posto sullo sviluppo dell’andatura bipede, guardando però alla pura deambulazione, senza considerare la corsa. In parte ciò si deve al fatto che l’uomo è un corridore alquanto scadente in termini di velocità pura se paragonato ad altri animali: il miglior corridore della nostra specie, Michael Johnson, alle Olimpiadi di Atlanta del 1996 è riuscito a mantenere una velocità di poco superiore ai 37 chilometri orari per meno di 20 secondi, mentre vi sono antilopi, cani da caccia e cavalli in grado di correre a 55-70 chilometri orari per diversi minuti. Tuttavia, gli umani sono straordinari corridori di resistenza: i migliori sono in grado di mantenere velocità di 20 chilometri orari durante le maratone e di 12-13 km orari su distanze di 250 chilometri. Questa capacità è unica fra tutti i primati e ha pochi riscontri anche fra gli altri mammiferi, se si eccettuano carnivori sociali come cani e iene o ungulati migratori come gnu e cavalli (ma corridori umani ben allenati possono competere anche con questi ultimi nel mantenere velocità vicine ai 20 km orari per diverse ore di seguito). Recentemente, Dennis M. Bramble, del Dipartimento di Biologia dell’Università dello Utah, e Daniel E. Lieberman del Peabody Museum dell’Università di Harvard, hanno suggerito, in un articolo ampio e piuttosto rivoluzionario apparso su «Nature» (432, 345-352, 2004), che questa capacità abbia svolto un ruolo tutt’altro che trascurabile nell’evoluzione umana. L’apparato locomotore umano ha diverse strutture che, a un esame approfondito, si dimostrano adatte, dal punto di vista biomeccanico, più alla corsa che alla semplice marcia. Per esempio, le gambe umane hanno lunghi tendini elastici connessi a fasci muscolari piuttosto corti, dispositivi che possono generare economicamente l’energia richiesta dalla corsa. Il più importante di questi tendini è il tendine d’Achille, che negli scimpanzè e negli australopiteci è molto meno sviluppato e che probabilmente, ipotizzano gli autori, raggiunse queste proporzioni nel genere Homo circa tre milioni di anni fa. Un altro dispositivo importante nella corsa umana è l’arco plantare del piede, la cui funzione, principalmente statica nella marcia, diventa rilevante ai fini della restituzione dell’energia elastica generata durante la fase di caricamento. Ebbene, le analisi delle ossa del piede degli australopiteci di Hadar e Sterkfontein sono compatibili con la presenza di un arco plantare parziale, che invece appare completo nello scheletro dell’Homo abilis (2,5 milioni di anni fa). Anche la lunghezza degli arti inferiori ha un diverso ruolo nella corsa rispetto alla marcia: arti lunghi implicano un maggiore tempo di contatto dei piedi sul terreno, che a sua volta comporta un minore costo energetico nella corsa (ma non nella marcia). Arti inferiori relativamente lunghi (50% più che nell’Australopithecus afarensis) apparvero già con l’Homo erectus 1,8 milioni di anni fa. D’altra parte lunghi arti incrementano il costo energetico della corsa a causa dell’aumento del momento di massa inerziale; ma a ciò si pone rimedio diminuendo le dimensioni della massa distale e, forse non a caso, la massa del piede e delle dita dei piedi sono (relativamente alla massa totale dell’arto) molto minori nell’uomo che negli australopiteci e negli scimpanzè. La lunghezza degli arti inferiori, con i fattori già ricordati, permette all’uomo di avere una falcata piuttosto lunga durante la corsa di resistenza, che può raggiungere 1,7 metri negli atleti più forti. Ciò consente di raggiungere buone velocità con una frequenza bassa di passi, riducendo la spesa energetica richiesta per far oscillare degli arti inferiori che sono proporzionalmente molto più pesanti che nello scimpanzé (30% della massa totale rispetto al 18%); così è possibile attingere copiosamente per la progressione alle fonti aerobiche che risiedono nelle fibre muscolari a lenta contrazione, la cui percentuale, secondo gli autori, è aumentata nell’uomo in seguito a mutazione genetica. La corsa implica un impatto con il terreno molto più violento rispetto alla marcia. Nel corso dell’evoluzione lo scheletro umano ha conosciuto una serie di modifiche atte a sopportarlo, essenzialmente tramite l’aumento della massa di alcune ossa e di molte superfici articolari. Confronti fra il genere Homo, Pan e Australopithecus mostrano che il primo possiede superfici articolari relativamente più grandi nella maggior parte delle articolazioni inferiori, dalla testa del femore al ginocchio, dall’articolazione sacroiliaca alla colonna lombare. Anche maggiori dimensioni dell’osso iliaco e del calcagno potrebbero avere la stessa origine evolutiva. La corsa comporta anche, rispetto alla marcia, maggiore instabilità e tendenza a sbilanciarsi in avanti. L’uomo, rispetto all’australopiteco, ha sviluppato diverse strutture che aiutano la stabilizzazione del tronco, fra cui maggiori dimensioni del sacro e della spina iliaca posteriore, dove si inserisce il muscolo sacro-spinale, e un più voluminoso grande gluteo. Durante la fase aerea la corsa induce delle componenti di torsione che vengono controbilanciate nell’uomo dalla maggiore possibilità, rispetto alle scimmie (e in parte anche rispetto all’australopiteco) di ruotare isolatamente il tronco rispetto alle anche. Anche la relativa indipendenza motoria nel nostro genere fra testa e torace può aver avuto importanza nel determinarci per la corsa di resistenza: mentre le spalle sollevate e la forte connessione muscolare fra petto e testa, presenti nell’australopiteco, agevolano l’arrampicata e non ostacolano la deambulazione, sono invece di impedimento per la corsa, ostacolando la controrotazione indipendente delle braccia e del petto necessari a bilanciare la rotazione dovuta alle gambe e quella della testa. Sotto questo profilo, anche le ampie spalle caratteristiche del genere Homo potrebbero essersi sviluppate per meglio bilanciare il momento generato dall’oscillazione delle braccia. Inoltre, gli avambracci umani sarebbero meno sviluppati (50% meno massicci relativamente alla massa totale corporea rispetto allo scimpanzè) per ridurre la spesa energetica conseguente al mantenimento della caratteristica posizione a gomito flesso durante la corsa. Infine c’è da considerare la termoregolazione. Gli umani hanno molte strutture deputate, sicuramente o probabilmente, alla dissipazione del notevole calore endogeno prodotto durante la corsa su lunghe distanze: fra le prime, numerose e complesse ghiandole sudoripare, pelo corporeo ridotto (che favorisce la dispersione per convezione); fra le seconde, una forma corporea allungata e affilata, una circolazione venosa craniale complessa, la tendenza a respirare con la bocca durante sforzi intensi, sfruttando una minor resistenza meccanica alla ventilazione e una ulteriore possibilità di eliminazione del calore endogeno. Ma perché il genere umano avrebbe sviluppato tutti questi adattamenti per la corsa? E le capacità di marcia e corsa si svilupparono assieme o in momenti successivi? Un’ipotesi è che la corsa servisse per procurarsi cibi ad alto contenuto proteico come carne, midollo osseo, cervello, consentendo ai cacciatori umani di avvicinarsi più rapidamente alle prede per lanciare proiettili o per braccarle fino all’esaurimento per colpo di calore. Un’altra ipotesi è che la corsa servisse per cibarsi di carogne negli spazi aperti e semiaridi popolati dai primi esemplari del genere Homo, ai fini di rendere costoro più competitivi nei confronti di iene e cani selvatici, che sono in grado di fiutare e percepire visivamente (per esempio dal volo concentrico degli avvoltoi) da grandi distanze la presenza di cadaveri animali. Certamente, molte altre analisi e soprattutto molti altri ritrovamenti fossili sono necessari per verificare queste ipotesi e proporne altre magari più soddisfacenti. Già da ora però si può dire che probabilmente le radici della capacità di correre a lungo e in modo efficiente, che al giorno d’oggi riveste principalmente finalità salutistiche e ricreative, sono antiche quanto lo stesso genere umano.