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 2005  marzo 04 Venerdì calendario

Michels Rinus

• Amsterdam (Olanda) 9 febbraio 1928, Aalst (Belgio) 3 marzo 2005. Calciatore. Vestì la maglia dell’Ajax dal ’46 al ’58, vincendo due campionati (’47 e ’57): in tutto 269 partite e 121 gol. Da allenatore fu all’Ajax dal ’65 al ’71, vincendo 4 campionati (’66, ’67, ’68 e ’70), tre coppe d’Olanda (’67, ’70 e ’71) e una coppa Campioni (1970/71). Dal 1971 al 1975 fu al Barcellona, vincendo la Liga ’74. Poi ancora Ajax e di nuovo blaugrana dal ’76 al ’78, vincendo una coppa del Re (’78). Dal ’78 all’80 al Los Angeles Aztecs, al Colonia dall’80 all’83 ( una coppa di Germania nell’83), infine al Leverkusen nell’88/89. Guidò l’Olanda nel ’74 (seconda al Mondiale), dall’86 all’88 (vince gli Europei) e dal ’90 al ’92 • «Lo choc provocato dalle idee e dall’Ajax di Rinus Michels è stato così profondo e duraturo che ancora nel 1999 la Fifa lo aveva eletto “Allenatore del Secolo”, un titolo che altri potevano pretendere a maggior ragione, in tanti più di un coach che in fondo aveva vinto solo una Coppa dei Campioni nel ’71 e un Campionato Europeo nell´88. Ma l´esplosione del calcio olandese agli inizi degli anni ’70, quel mescolare talento, anticonvenzionalità e disciplina, quell´aderire allo spirito del tempo - una squadra di capelloni che giocava con la filosofia collettiva di una comune hippy - è stata pensata, promossa, guidata, portata a maturazione da questo gentiluomo con la mascella dura e i capelli da marine, che poi gli avrebbero consegnato uno dei tanti soprannomi, il Generale. Una rivoluzione che inventò l’Olanda come un paese di grande football, che definì un nuovo tipo di gioco, il “calcio totale”, e che sradicò abitudini e concezioni dell´allenare, dell´impiego dei giocatori in campo, della preparazione delle gare. [...] il grande merito, e la grande fortuna, di Rinus (all’anagrafe Marinus) Michels fu quello di incrociare due generazioni di talenti, quella di Cruyff, Neeskens, Keizer, Swart, alla fine degli anni ’60 e quella di Van Basten poi alla fine degli anni ’80, quando vinse il campionato europeo, nello stesso stadio di Monaco della delusione del ’74, quando la più bella Olanda di sempre aveva mancato proprio la finale contro la Germania. Di tutta una carriera di successi, nei quali non mancavano la spavalderia olandese e un tipico e a volte arrogante tratto del carattere di quei giocatori, fu quello l´unica disfatta, non avere saputo vincere la partita che avrebbe sancito la perfezione del progetto. Michels, così attento alle dinamiche motivazionali e psicologiche della squadra, si era reso conto che la vittoria in semifinale contro il Brasile, un 2-0 che ultimava il trionfale cammino dopo il 4-0 all´Argentina e il 2-0 alla Ddr, aveva scatenato una convinzione di sé eccessiva e pericolosa, avendone già in buona dote naturalmente i suoi giocatori. Il gol segnato dopo 1’ su rigore, dopo quindici passaggi, con la Germania che non toccò mai il pallone, fece perdere il senso della realtà alla squadra. “E poi ci scordammo di segnare il secondo gol” ammise dopo Rep. Fu la sconfitta della presunzione più che del calcio totale, perché quello ormai aveva abbagliato gli occhi degli spettatori e non sarebbe stato più dimenticato. Con il suo Ajax, del quale divenne l´allenatore nel ’65, prendendolo alle soglie della retrocessione e portandolo subito a quattro scudetti, Michels presentò giocatori eclettici, straordinariamente mobili, al servizio di un´organizzazione precisa, dotati di una preparazione fisica superiore. Tutti potevano (e dovevano) attaccare e difendere, perché così il gioco era più offensivo, più vario, toglieva riferimenti agli avversari, divertiva di più i giocatori. “Non è difficile insegnare a un difensore ad andare avanti, ma trovare qualcuno che poi lo copra” diceva Michels. Si insegnava ai difensori che dovevano anche pensare offensivamente e agli attaccanti che dovevano anche prepararsi a difendere. Una necessità intercambiabile, dal momento che se “faccio 70 metri sulla fascia, poi prima che torno indietro serve che il mediano e l´ala scalino dietro di me” spiegava Krol, che in quella squadra faceva il laterale, e avrebbe finito da immenso centrale nel Napoli. Michels aveva ereditato, ma poi ulteriormente sviluppato, quell’idiosincrasia dell´Ajax per i comportamenti da superstar dei giocatori, aggiungendo una disciplina ferrea e una presenza ai bordi del campo imperiosa. “Qualche volta esagerava” lo ricorda Cruyff, che ha riconosciuto in lui “l´uomo che mi ha insegnato di più di calcio”. Eppure questa disciplina immaginava un gioco spettacolare e fantasioso e, soprattutto, era capace di lasciare libero il talento dei giocatori, che si esaltavano nella intercambiabilità delle funzioni. Più tardi, nell´88, Michels avrebbe presentato una squadra più strutturata, che avrebbe vinto soprattutto grazie alle meraviglie di Van Basten, alla fisicità di Gullitt e Koeman, alla duttilità di Vanenburg. [...] aveva scritto un libro sul mestiere di allenare: Teambuilding, the road to the success, la costruzione di una squadra, la strada per il successo. Michels (altro soprannome: la Sfinge, per la sua impassibilità) è stato, se non il primo, tra i primi ad allargare la visione sul mestiere dell´allenatore, come figura che fissa responsabilità e compiti, che integra una squadra nella cultura generale del club, che sollecita e fa crescere qualitativamente la comunicazione all´interno del team. Costruzione che non è legata solo al gruppo presente ma va oltre e dura nel tempo, come ha dimostrato la straordinaria capacità dell´Ajax di rinnovarsi restando sempre ai vertici, anno dopo anno. Non a caso l´Ajax vinse altre due Coppe dei Campioni dopo che se ne andò al Barcellona nel ’71, seguito presto da Cruyff con il quale avrebbe vinto la Liga nel ’74. Nel ’72 e ’73 il coach fu Stefan Kovacs, che non sarà mai allenatore del secolo. Michels era stato centravanti, 121 gol in 269 match per l’Ajax, e cinque volte nazionale nella modesta Olanda degli anni ’50. [...]» (Corrado Sannucci, “la Repubblica” 4/3/2005) • «Non era ancora il grande Ajax quello che Cesare Maldini andò a studiare nella primavera del ’69, in vista della finale di Coppa Campioni: tant’è vero che la grande regia di Rivera e i tre gol di Prati fecero sembrare quel trionfo poco più di una formalità. Ma quando Maldini provò a raccontare a Rocco come giocavano gli olandesi, riempiendo di frecce il primo pezzo di carta che gli capitò a tiro, il paròn capì che per uscirne, e insieme evitare di preoccuparsi seriamente, serviva una battuta delle sue: “Ma questi xe olandesi o indiani?”. Erano indiani, per davvero. O figli della rivoluzione del ’68, o profeti di una dottrina che avrebbe cambiato per sempre il modo di fare calcio. E il loro capo-tribù si chiamava Rinus Michels. Il suo calcio totale che trasformava gli spazi in praterie era fatto di un possesso-palla esasperato, di accelerazioni improvvise, di pressione multipla sul’avversario col pallone, di fuorigioco alto quando non altissimo. Ma soprattutto era interpretato non più da specialisti dei vari ruoli, bensì da giocatori eclettici capaci di attaccare e difendere, di giocare senza palla prima ancora che con la palla, di muoversi con disinvoltura in ogni zona del campo stando sempre corti, compatti, ossessivi. Una nuvola biancorossa, quella dell’Ajax, una nuvola arancione, quella dell’Olanda. Con portieri che, una volta aboliti i ruoli specifici, si erano riciclati da liberi, interpretando la parte in maniera più spregiudicata. L’emicrania non venne soltanto a Maldini. Venne agli inglesi la prima volta che affrontarono l’Olanda di Michels, le punte scattavano sul risaputo lancio dalle retrovie e la nuvola arancione li aveva messi in offside non di tre, ma di dieci-quindici metri. Venne al sommo Brera, cui quei satanassi mandarono all’aria tutti i parametri atletici e tattici sino a lì elaborati: e Brera se ne vendicò ribattezzandoli “cicale” dopo la finale mondiale persa nel ’74 dai tedeschi padroni di casa. E’ vero, nell’albo d’oro ci sono le formiche, che ad ogni buon conto si chiamavano Beckenbauer, Muller, Overath, Breitner, Mayer. Ma nell’archivio delle emozioni indimenticabili restano loro, restano quei 16 tocchi consecutivi olandesi dal fischio d’avvio al fallo di Vogts su Cruyff in area germanica. Il primo tedesco a toccare il pallone in quella finale fu Muller, riavviando il gioco dal disco di centrocampo dopo il rigore di Neeskens.Il generale Michels si prese la rivincita quattordici anni più tardi quando, sullo stesso campo, l’Olympiastadion di Monaco, decorò la bacheca olandese dell’unico trofeo conquistato sin qui, l’Europeo ’88, firmato da una storica prodezza di Van Basten. Ma fu un indennizzo tardivo e mai fino in fondo assaporato. Perché pur nel rispetto di una matrice di massima, quella non era più la sua Olanda-totale. Tant’è vero che il suo fuoriclasse, Van Basten, era pienamente classificabile, in quanto prototipo del centravanti moderno: a differenza del fenomeno d’un tempo, Cruyff, che segnava sì a mitraglia ma che nessuno ha mai saputo battezzare se non come uomo-ovunque. E’ appena il caso di ricordare che senza quei solisti, nemmeno la storica bacchetta di “Iron-Rinus” avrebbe potuto cavare dall’orchestra le sonorità che non dimenticheremo. Ma è vero anche che, proprio come Toscanini, nessun direttore ha più saputo rivoltare come un guanto certi spartiti di routine. Grazie allo studio, all’approfondimento, all’ansia quasi nevrotica di innovare. E ad un caratteraccio che non prevedeva sconti. [...]» (Gigi Garanzini, “La Stamp” 4/3/2005) • «Lo chiamavano il Generale , oppure la Sfinge. Oltre alle vittorie (con Ajax, Barcellona, Olanda) era conosciuto nel mondo come l’architetto del calcio totale. [...] “Non ho mai capito davvero cosa sia. E’ un termine inventato dai giornalisti che non si sono mai degnati di chiarirmelo”. Parlava poco, da qui l’origine di uno dei due soprannomi, [...] Nella pratica aveva avuto un socio, il romeno Stepan Kovacs, che ereditò il suo Ajax nel ’71, continuando la razzia di trofei, e scrisse anche un libro per riassumere i suoi principi. Il titolo era: Football total. Kovacs, scomparso a maggio del ’95, aveva sempre riconosciuto che la paternità del metodo era del collega: “Michels cominciò la costruzione, io affinai il materiale pregiato che mi era stato passato”. Si parla dell’Ajax dei primi anni Settanta: il Generale vi lavorava dal 1965, dopo 12 anni da calciatore nel club con 269 partite e 121 gol. In panchina aveva festeggiato 4 “scudetti” (3 consecutivi), uno marchiato con 122 gol in 34 gare, prima di esportare lo show in Europa, con la coppa Campioni 1971 presa a Wembley, contro il Panathinaikos. C’erano Cruijff e Keizer, Suurbier e Hulshoff, Neeskens e Haan. C’era un’idea tattica fresca, innovativa e redditizia, che diede vita a una nuova era, celebrata anche con la nazionale. Ogni epoca ha il suo calcio moderno: quello di Michels viveva nell’equilibrio tra fantasia e dinamismo, tra tecnica e velocità. La rivoluzione veniva dall’anarchia di ruoli, le posizioni erano intercambiabili, la ricerca dell’attacco era assoluta. I difensori che diventavano centrocampisti o ali, un attaccante come Cruijff che poteva muoversi come centravanti o regista, realizzatore o suggeritore. Poi il fuorigioco: una maniera di difendersi che stupiva e sorprendeva. Una squadra intera che correva in avanti per lasciarsi alle spalle gli avversari. Mai visto, allora. Questa strategia non servì all’uomo che diceva “il calcio è guerra| per abbracciare la coppa del mondo del 1974. Michels a quel tempo aveva fatto un favore alla federazione: allenava il Barcellona, gli chiesero di lavorare da c. t. solo per il torneo ma lui non abbandonò il Barça. Un commissario tecnico pendolare perché durante il Mondiale si giocava anche la finale della coppa del Re: la Sfinge potè andarci, Cruijff (anche lui emigrato in Catalunya) rimase uso esclusivo della nazionale. E gli azulgrana persero 4-0 con il Real Madrid. Più grande fu la delusione in Germania: un rigore dubbio su Hoelzenbein, l’immensa crudeltà di Gerd Mueller e l’illimitata elasticità di Maier tolsero all’Olanda il trofeo, coccolato dal Kaiser Beckenbauer nella sua Monaco. Quattordici anni dopo, nello stesso luogo, un’altra generazione di fenomeni olandesi venne educata dal Generale: Gullit, Van Basten, Rijkaard, Ronald Koeman. I fratellini di Cruijff lasciarono l’Olympiastadion con la coppa e quell’Europeo resta l’unico titolo [...] del Knvb, la federcalcio arancione. L’Olanda non era più quella delizia tattica del decennio precedente, perché aveva troppi imitatori in tutto il pianeta; però Michels era riuscito a far andar d’accordo la nobiltà e gli operai affamati tipo Van Aerle, Van Tiggelen, Erwin Koeman e compagnia. Le leggende raccontano dell’estrema libertà concessa ai calciatori: fra ritiri aperti alle mogli o aboliti e spirito di gruppo formato nelle notti in locali fumosi, il Generale però viene ricordato come uno che usava la disciplina come valore fondamentale. Celebre l’aneddoto in cui scrive la formazione dell’Ajax alla lavagna: Stuy, Suurbier, ma quest’ultimo era fuori ed entrò nello spogliatoio in quel momento, un secondo prima di vedere cancellato il suo nome. Anche con Van Basten, riserva prima dell’Europeo ’88, qualche dardo velenoso volò e i senatori dell’Ajax non piansero quando se ne andò a Barcellona, nell’estate 1971, per regalare ai catalani nel ’74 (e insieme a Cruijff) un titolo che mancava da 14 anni. Due solenni sconfitte aprirono e chiusero la sua carriera internazionale: Milan Ajax 4-1 ( finale coppa Campioni 1969), Danimarca Olanda 5-4 (semifinale Europeo 1992). In mezzo, tantissimo divertimento» (Pierfrancesco Archetti, “La Gazzetta dello Sport” 4/3/2005) • «Sedici passaggi di fila, i tedeschi che non toccano palla, rigore al primo minuto, segna Neeskens. L’illusione più bella della storia del calcio durò 60 secondi, il tempo impiegato dall’Olanda per andare sull’1-0 contro la Germania Ovest nella finale del Mondiale il 7 luglio 1974, a Monaco di Baviera. Un’opera d’arte, il football ricreato, con quelle maglie arancioni che immaginavamo nei televisori in bianco e nero, e i capelli lunghi, basette e sigarette, calciatori che sembravano i Led Zeppelin, con i pantaloni a zampa e le bellissime fidanzate bionde: s’era mai visto qualcosa di più simile alla libertà dentro un campo di calcio? Come al solito, la bellezza si esaurì in fretta. I tedeschi guidati da Beckenbauer pareggiarono con Breitner, poi vinsero con Müller, perché all’epoca valeva ancora il famoso detto dell’inglese Gary Lineker: il calcio è un gioco che si fa undici contro undici e alla fine vince sempre la Germania. Il ricordo, però, se lo è preso tutto quel minuto orange, come se quella finale in realtà fosse finita dopo il gol di Neeskens e il resto fosse stato un incubo, presto rimosso da chiunque non fosse tedesco. L’artefice di questa splendida incompiuta — e chissà se ne andava poi così fiero — si chiamava Marinus Hendrikus Jacobus Michels, detto Rinus, soprannominato Il Generale. Era nato vicino allo stadio olimpico di Amsterdam il 9 febbraio 1928, l’anno dei Giochi. Fu un buon giocatore dell’Ajax, ma fu soprattutto l’allenatore che cambiò il gioco del pallone, l’inventore del calcio totale, colui che sperimentò e codificò il Nuovo non solo in campo ma anche fuori, saldando la rivoluzione tecnico tattica con quella sociale. Diplomato insegnante di educazione fisica, Michels prende in mano l’Ajax nel ’66 e da allora tutto cambia. Flessibilità dei ruoli, pressing, schemi e un indispensabile interprete in campo, Johan Cruyff, uno dei più grandi giocatori di tutti i tempi. Numero 14, testa alta, corsa e tecnica superiori, Cruyff esegue ciò che Michels pensa: ne nascono 3 titoli nazionali, una finale di Coppa dei campioni persa nel ’69 contro il Milan di Rocco (4-1 a Madrid), poi una finalmente vinta nel ’71, 2-0 al Panathinaikos del grande Puskas. Con l’apoteosi, arriva il richiamo dell’estero. Michels esporta il credo al Barcellona. Coglie un terzo e un secondo posto, ma per vincere gli manca qualcosa, anzi qualcuno. Per un miliardo e 200 milioni di lire arriva Cruyff e il Barça riconquista nel ’74 la Liga che non vinceva dal ’60. Matematico. Poi, quel minuto tedesco. Che arriva alla fine di un Mondiale dominato. Quell’Olanda sta nella memoria collettiva come l’Inter di Sarti-burgnich-facchetti: i terzini di attacco Suurbier e Krol, Rijsbergen stopper con il centrocampista Haan al suo fianco (reinventato difensore per sostituire Hulshoff), van Hanegem regista, Jansen che lo copre, Neeskens uomo ovunque, poi Cruyff centravanti con Rep e Rensenbrink sulle ali. Gioco e spettacolo, rivali asfaltate, c’è gloria pure per l’improbabile Jongbloed, il portiere volante con il numero 8 che in questa squadra da favola è come Ringo Starr nei Beatles: osserva, vince, ma chissà se coglie fino in fondo il senso dell’impresa. Straordinaria in campo, la rivoluzione della cosiddetta Arancia Meccanica stupisce anche fuori, dove il conservatore mondo del calcio osserva allibito. Michels alterna regime militare a carezze, grida a risate. La sua, come dirà un giorno Ronald Koeman, “è una superiorità naturale rispettata da tutta la squadra”, è carisma, è conoscenza del mondo. Per l’Olanda il ritiro non è ritiro, mogli e fidanzate stanno con i giocatori, tutto è molto Seventies e liberatorio. E per i parrucconi benpensanti, a confrontare le performance di Jongbloed con quelle del suo collega Sepp Maier (protagonista assoluto di quella finale maledetta), non ci saranno mai dubbi su chi in quei giorni si è astenuto e chi no... Dopo, Michels va in America, poi in Germania, ma l’ultimo acuto è la vittoria dell’Europeo 1988. È un’altra generazione, il nuovo Cruyff si chiama Marco Van Basten, che sigilla con un gol leggendario la finale con l’Urss. Così, 14 anni dopo, ancora a Monaco di Baviera, Michels si riprende quello che era suo e, anche se lo spirito rivoluzionario degli anni ’70 è perduto, salda il conto con il passato e conquista l’unico trofeo nella storia della nazionale orange. Ci riprova nel ’ 92, agli Europei di Svezia, ma esce in semifinale con la Danimarca. Lì finisce la storia, non la leggenda di Rinus Michels [...]» (Alessandro Pasini, “Corriere della Sera” 4/3/2005).