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 2005  marzo 04 Venerdì calendario

DI PIAZZA Pierluigi.

DI PIAZZA Pierluigi. Nato a Tualis di Comeglians il 20 novembre 1947. «[...] Guai a chiamarlo don o, ancor peggio, padre. [...] è uno di quei preti che s’impegnano soprattutto nel sociale e s’ispirano a figure leggendarie di sacerdoti come il padre poeta Davide Maria Turoldo, friulano e montanaro come lui, sempre osteggiato dalla gerarchia ecclesiastica, che visse gli ultimi anni in solitudine a Sotto il Monte, il paese di papa Giovanni XXIII; o come padre Ernesto Balducci [...] sempre appostato sulla ”trincea delle coscienze”, condannato a otto mesi dal tribunale di Firenze per aver difeso un obiettore di coscienza; o come don Lorenzo Milani, il ”maestro” di Barbiana, lui pure detestato dalla Curia fiorentina e condannato per lo stesso reato. Facendo parte dello sparuto manipolo dei preti scomodi, Pierluigi si è subito schierato per ”una Chiesa povera e umile, che dovrebbe aver paura di una cosa sola: non essere coerente col Vangelo”. In quanto a sé, confida di aver ”fatto di tutto per distruggere il ruolo sacrale del prete”, di sentirsi ”un laico piuttosto che un funzionario della religione” e di credere ”a una cultura non elitaria... la cultura salottiera non è roba mia”. Non avrebbe potuto essere diversamente. [...] Tualis, il villaggio natale [...] Un paesello da presepe, le case di pietra, scale e balconcini in legno chiaro, la chiesa, una sola osteria [...] e, naturalmente, il cimitero, piazzato in alto in cima a un poggio, che è il più bel balcone del Friuli. [...] ”Qui è sepolto mio padre – dice Pierluigi – che si chiamava Tranquillo (bel nome eh?) e faceva il calzolaio; e qui c’è la mamma, Maria Watsccainger, (1921-2001), casalinga, una santa”. E lì vicino, sulla parete di una cappella, una lapide ricorda don Pretita Bustetto, parroco del villaggio per trent’anni, ”povero umile pio non curante di sé dedito alle altrui miserie, che – ricorda Pierluigi – faceva il contadino e mungeva le vacche”. Ed ecco la sua vecchia casa. ”Al pianterreno c’era la stalla. Avevamo una sola mucca, Tombola, che io e mio fratello Vito, ora primario all’Ospedale di Tolmezzo, portavamo al pascolo verso la montagna Crostis, che vedi lassù. Entrai in seminario a undici anni ma durante le vacanze lavoravo nei campi e portavo nella gerla patate, fieno, legna e letame. Durante l’inverno andavamo a scuola tra due pareti di neve alte anche più di due metri e lo spartineve era trainato da quattro cavalli, due bianchi e due neri”. Evidentemente, questo mondo così limpido e incontaminato ha lasciato una traccia profonda nel suo animo; ma Pierluigi non è disposto a indugiare in ”mitizzazioni nostalgiche”. Il suo è un cuore contadino che prende di petto la realtà: ”Ho sempre guardato la vita con gli occhi degli altri – taglia corto – e sono stato sempre in rapporto con la storia e coi suoi drammi”. Non sorprende che un’esperienza di cinque anni come cappellano o ”curato di campagna” in un quartiere di Udine non sia riuscita a placare la sua inquietudine di prete laico, ansioso di confrontarsi coi problemi ”veri” del mondo. Quindi, il suo sbarco, nell’8l, in quel di Zugliano (350 abitanti) non può essere considerato casuale. Da lì passavano, e continuano a passare, decine, centinaia, migliaia di disperati costretti all’esilio da guerre civili, lotte etniche e tribali, una massa di profughi di bibliche proporzioni che il sociologo polacco Zygmunt Bauman considera senza eufemismi ”i nuovi dannati della terra”: come quella ”barcata di afghani” che fluttuava al largo delle coste australiane in cerca di salvezza e venne infine abbandonata su un’isola deserta nel cuore del Pacifico. Gradualmente ma inesorabilmente, ogni profugo viene spogliato della propria identità ed emarginato in un ghetto indefinibile da cui non potrà più uscire, dal momento che tutto il mondo è diventato ”zona di frontiera”. ”I profughi – scrive Bauman – sono rifiuti umani, senza alcuna funzione utile da svolgere nella terra dove giungono e ( tempora neamente) soggiornano, e senza l’intenzione né la realistica possibilità di essere mai assimilati o integrati nel nuovo corpo sociale; dal luogo che occupano, la discarica, non vi è ritorno né sbocco ulteriore”. I clandestini arrestati ogni anno al di qua del confine italo sloveno – sono ormai centinaia – fanno dunque parte, se vogliamo seguire l’angosciosa metafora del sociologo polacco, dei rifiuti umani ammassati nella discarica friulana. Polizia e guardie di frontiera devono fronteggiare un fiorente e insidioso mercato nero dove invece della droga è l’uomo la merce di scambio. Grossomodo, gli immigrati che confluiscono nella zona appartengono a due categorie: quelli di piccolo cabotaggio, provenienti dall’Est europeo – romeni, bulgari, ungheresi, ucraini, ecc. – e quelli che vengono da molto lontano, un gran miscuglio di genti, razze, idiomi, religioni. Se per i primi l’impatto è meno duro, per gli altri dev’essere un salto nel buio, senza rete di protezione. Ambedue condividono comunque una situazione di estremo disagio: ”Col rischio – spiega Pierluigi – di essere subito respinti alla frontiera, di finire in prigione, di non trovare né alloggio né un lavoro provvisorio, di essere abbandonati a se stessi nel mezzo di niente perché l’ultimo contatto, che avrebbe dovuto assicurare il transito verso la meta finale, è venuto improvvisamente a mancare”. Il centro d’accoglienza ”E. Balducci” apre nell’89, le difficoltà sono molte e i ”mezzi” scarsi e a sostenerlo, nella fase pionieristica, ci sono soltanto l’entusiasmo e l’intraprendenza del sacerdote di Tualis e dei suoi pochi sostenitori. Successivamente viene approvato un piano d’ampliamento che sarà realizzato grazie all’intervento della Regione e la struttura si estende fino alle attuali dimensioni: a un certo punto, Pierluigi, quale responsabile del centro e suo amministratore, deve siglare il contratto per i lavori: ”Quando è venuto il momento di firmare un assegno di 300 milioni più un altro di 100 milioni per l’acquisto del terreno – racconta adesso sorridendo – , mi tremavano le mani. Mai vista una cifra simile e neanche immaginata. Le mie cognizioni economico finanziarie erano rimaste inchiodate alla bottega di papà che risuolava le scarpe. [...] I nostri ospiti fanno un bel mosaico, coloratissimo: ci sono curdi, kosovari, iracheni, turchi, colombiani, etiopici, ghanesi... [...] Scopo del centro non è solo di fornire una sistemazione immediata, anche se provvisoria, ai clandestini, che è pure importantissima per superare il disagio iniziale: ”Ma di aiutarli – spiega il sacerdote – a reperire un lavoro, di sostenerli nella richiesta di soggiorno presso gli enti locali (questura, prefettura) e le aziende, trovare una scuola – materna, elementare o media – per i bambini; di introdurli nella realtà della vita quotidiana quando sono in grado di farlo”. Affacciarsi a un luogo d’accoglienza come il Balducci non dev’essere sollievo da poco per chi abbia appena avuto il suo primo impatto con le forze di polizia: che è quasi sempre duro, ostile, di rigetto. [...]» (Ettore Mo, ”Corriere della Sera” 20/2/2005).